lunedì, ottobre 17, 2005

Pillole neocon a € 2,90

Copertina nero spauracchio, con vistosa e benaugurante palla arancione in stile grandi magazzini ma destinata a simboleggiare "il punto" della situazione. E' in edicola in questi giorni un surrettizio volumetto di ispirazione neoconservatrice ad uso e consumo dei lettori di Panorama. Il testucolo, intitolato con palese sforzo congiunto di dozzine di copywriter "La rivoluzione democratica contro il terrorismo" presenta la coassiale redazione di pezzulli di osannanti propugnatori della logica Bushiana con frequenti divagazioni in stile Pera & Fallaci. Il tutto al prezzo vile di 2,90 euro, rivista esclusa. Ho dato una scorsa al librozzo, che reca anche alcune pagine di dati e statistiche snocciolati grazie alla partecipazione di un inarrestabile Magdi Allam sui nefasti islamici in funzione anticristiana, che, per coloro i quali fossero impossibilitati ad una rapida verifica, non possono fare effetto diverso dalle parole dell'Oriana, che sui fatti e su centinaia di anni di storia è stata disposta a sorvolare per gongolare all'idea di una sola frase ad effetto. Godiamoci invece altre chicche verificabili del libercolo. A firma Nirenstein, inter omnes nota per il suo pacato squilibrio a favore dello stato ebraico, troviamo subito una minimale versione dei fatti del 1948 tanto stravolta dalla visione unilaterale e filo-isrealiana che pure Benny Morris ha potuto farsene latore solo a costo di reinterpretare, annichilendoli, i fatti e le prove da lui stesso proposti. Ma il meglio sono gli ostinati capitomboli che Nirenstein fa per giustificare, con le parole oltre che col cuore, l'aggressione subita dai palestinesi in limine alla autoproclamazione dello stato ebraico in terra altrui. Una per tutte: "la terra occupata da Israele in guerre difensive e per la sopravvivenza a fronte di un bellicoso rifiuto arabo perdurante dal 1948, è stata più volte lasciata o offerta, ma la pace non è mai venuta". Grandiosa. Non stupisce poi la sua interpretazione della risoluzione 242 dell'ONU, non nuova a quanti (USA e Israele) hanno ottenuto di imporla al resto del mondo quale fosse una risibile ed inverosimile affermazione premiale, del tutto priva di senso, per cui i palestinesi avrebbero avuto diritto alla restituzione "di territori occupati" e non "dei territori occupati". E via di seguito con l'Europa cattiva e tendenzialmente o potenzialmente antisemita, la guerra contro il terrorismo personificato con un po' di Zarqawi qui e là come uvetta candita sul pan di spagna stantio delle difese dell'indifendibile. Ma il meglio arriva con Michael Rubin, Ph.D. in storia iraniana alla Yale University e collaboratore del Jerusalem Post. L'esordio è appassionante con un George W. Bush spalmato in terza riga a far da apripista per un discorso che tende a glorificare la "chiarezza morale dei neocon". E subito dopo il dogma sull'Iraq: "tutti concordano che l'oggetto del conflitto è la democrazia". Ma tutti chi? I lettori di Panorama? E via di seguito, anche qui con un po' di Zarqawi (bin Laden puzza troppo di cadavere ultimamente) in una entusiastica quanto apodittica descrizione della rinascita iraqena, negazione dello stato di guerra civile, anatemi sulla Siria e sull'Iran e irresponsabile atteggiamento dell'Europa (che si ostina a non prendere per oro colato la versione propugnata dai media alla provincia USA). Veramente degno di nota il pensiero del signor Rubin circa la asserita "propensione della sinistra europea per i dittatori". Più sottile e per addetti ai lavori il solito ritornello su Arafat, il falso accertato per cui fu lui e non il "criminale di pace" Barak a perseguire interessi di bottega e mandare a carte quarantotto il summit di Camp David. Altre chicche inframmezzano la delirante apologia dell'operato di Bush relativamente alla situazione delle terre occupate in funzione egemonica americana, situazione sovente descritta come idilliaca e talvolta addirittura esultante per il liberatore d'oltre oceano. Senonchè alla "serietà e coerenza" e alla "fede di Bush nella democrazia quale pilastro della politica estera" si oppone l'atteggiamento della vecchia Europa. Ma, tranquilli, secondo Rubin "l'era della realpolitik è tramontata, è cominciata l'era dei principi". Gli è che il primo principio dovrebbe essere quello di non mentire ai lettori del librino da € 2,90, affermando con disinvolta sicumera che "gli atti di terrorismo contro obiettivi occidentali sono antecedenti all'occupazione dell'Iraq". Mr. Rubin - verrebbe spontaneo replicare - è questione di numeri.

mercoledì, ottobre 05, 2005

Il conflitto arabo israeliano palestinese for dummies (quinta ed ultima parte, 1992-2002)

Allora, siamo nel 1992 e il clima è più disteso del solito (si fa per dire). Il 30 ottobre precedente (1991) si è tenuta a Madrid la Conferenza di Pace per il Medioriente, patrocinata da Bush Senior e Gorbaciov, alla quale hanno partecipato gli stati arabi, rappresentati dai rispettivi ministri degli esteri, il primo ministro israeliano Shamir e una delegazione palestinese (l’OLP non ha partecipato) e il 16 dicembre l’assemblea generale dell’ONU ha revocato la risoluzione 339 del 1976 che aveva condannato il sionismo quale forma di razzismo e discriminazione (v. sopra). Gli USA, freschi della prima guerra in Iraq (la c.d. “guerra del golfo”) e consapevoli dell’importanza di nuove possibili alleanze nella zona, spingono per una soluzione generale del problema in medioriente.
A fine 92 l’Unione Sovietica si sta disintegrando. Sta venendo meno, per gli USA, il pericolo rappresentato dal blocco sovietico. La guerra fredda si è raffreddata. Gli USA pianificano il controllo totale. La Russia - che a casa sua ha problemi infiniti - sponsorizza la pace in medioriente. Un episodio di consueta sopraffazione nel dicembre 1992, Israele deporta più di 400 palestinesi in Libano. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU condanna pesantemente questa iniziativa e stabilisce il loro immediato ritorno.

Siamo ormai nel 1993. In agosto si svolgono a Oslo – con la mediazione dei norvegesi – colloqui segreti fra l'OLP e il laborista israeliano Shimon Perez in vista di un accordo sull’autonomia palestinese per Gaza e per la città di Jerico. Gli accordi tratteggiati ad Oslo sono in realtà assai vaghi.
In settembre c’è uno scambio di lettere tra Arafat (OLP) e il primo ministro israeliano Rabin:
- Arafat riconosce il diritto di Israele di esistere in pace e in sicurezza;
- Rabin riconosce che l’OLP rappresenta il popolo palestinese.
Con il patrocinio del Presidente USA Bill Clinton (che non è famoso solo per altre questioni personali di tutt’altra specie), il 13 settembre 1993 Arafat e Rabin firmano, a Washington, una Dichiarazione di Principi in vista di possibili accordi (tutti da determinare e sviluppare) per l’autonomia palestinese. Si stabilisce un periodo di autonomia palestinese di 5 anni per portare a termine i negoziati, sulla base della risoluzione ONU n. 242, che dovranno iniziare non oltre tre anni. (In particolare sul ritiro israeliano da alcune zone occupate del West Bank). Nasce la cosiddetta “Autorità Palestinese” con il compito di amministrare i territori assegnati al controllo palestinese.
Ma tutti i problemi più importanti e spinosi vengono rinviati ...... a babbo morto (cioè a futuri negoziati). In particolare, il problema dei rifugiati, di Gerusalemme Est, degli insediamenti, dell’acqua. Vabbè, meglio che niente .....

Infatti, nel 1994 e 1995, benchè schifezze di ogni tipo (attentati, violenze ecc.) rimangano comunque una costante, in specie nei territori occupati, a livello politico l’OLP e Israele concludono, in maggio, un accordo sull’amministrazione della Striscia di Gaza e sull’area di Jerico.
In luglio Arafat rientra in Palestina e stabilisce il suo quartier generale a Gaza. In agosto viene stipulato una accordo “preparatorio” per il trasferimento dell’amministrazione dei territori “lasciati” all’autonomia palestinese. Israele e Giordania firmano un trattato di pace.
Sulla base della Dichiarazioen di Principi del 1993 (Washington) viene firmato un accordo tra Israele e OLP per l’autonomia sul West Bank e Gaza.
Tutto procede alla meno peggio quando il primo ministro Yitzhak Rabin viene assassinato da uno studente dell’estrema destra israeliana, a Tel Aviv, il 4 novembre 1995.

Nel 1996 il Likud (di destra) vince le elezioni con Benjamin Netanyahu (sconfiggendo i laboristi di Shimon Peres) e la situazione rimane sostanzialmente congelata fino al 1999. Questo, come ho già detto, non significa che tra la destra e la sinistra israeliana ci sia questa gran diversità di vedute rispetto ad alcuni problemi importantissimi, per esempio quello degli insediamenti nei territori occupati, suddivisi ipocritamente in insediamenti “illegali” e “legali”, che sono stati tutti implementati tanto durante i governi di destra quanto durante quelli di sinistra.

Tra il 1997 e il 1999 la facciamo necessariamente breve. Da segnalare che nel 1997 l’autorità palestinese e il governo israeliano raggiungono un accordo (allucinante) secondo il quale i palestinesi ottengono il controllo dell’80% della città di Hebron e il rimanente 20% resta, iperprotetto dall’esercito israeliano, in mano a circa 400 – diconsi quattrocento - religiosi ebrei ultraortodossi.
Sempre nel 1997 (febbraio) un censimento della popolazione palestinese conta con larga approssimazione 2.900.000 palestinesi nei territori occupati. Di questi, 1.869.818 nel West Bank (compresa la parte israeliana occupata di Gerusalemme) e 1.020.813 nella striscia di Gaza .
Altri 210.000 – conteggiati approssimativamente fuori censimento – vivono a Gerusalemme Est.

Allora, per farla semplice (molto semplice), nel 1999 vanno nuovamente al potere i laboristi con Ehud Barak. Se ne è molto parlato, di Barak e delle sue “generose concessioni”, ma sono stati fiumi di parole messi nella bocca di chi ha interesse a sostenere una sorta di rifiuto palestinese a qualsiasi ipotesi di pace e, soprattutto, si tratta sempre di analisi assolutamente superficiali.
Se è infatti vero che con Barak l’Autorità Palestinese ottiene, tardivamente e con fatica, il teorico controllo (naturalmente, solo amministrativo e non militare) sul 40% del West Bank e sul 75% della Striscia di Gaza, è altrettanto vero che si tratta sempre di un territorio spezzettato e discontinuo, le zone di autonomia palestinese sono scollegate e circondate da territori sotto il perenne controllo militare israeliano (in favore dei coloni insediati in profondità in territori contigui a quelli “palestinesi” che fanno il bello e il cattivo tempo con l’appoggio incondizionato dell’esercito).
In sostanza, dunque, Barak non si impegna più di tanto nel piano elaborato a Washington ed anzi si dedica per quasi un anno, senza successo, ai negoziati per raggiungere un accordo con la Siria.

Siamo ormai al 2000 e i palestinesi scalpitano per il ritardo con cui si muovono le cose e per non avere ottenuto nemmeno sulla carta quanto era lecito sperare in base alle premesse e alle “promesse” di Washington. In questa situazione, già di per sè non brillante, finalmente Barak si rimette al tavolo delle trattative, ma solo per motivi personali: la sua maggioranza di governo si è sfaldata e teme, in vista delle elezioni previste per il febbraio 2001 di non avere l’appoggio della sinistra israeliana, dopo essersi fatto i fatti suoi per un anno. La mediazione, nel caso, è di Clinton (anche lui in fase di delegittimazione per le imminenti elezioni e forse per i casini che si è tirato con la Lewinski). Nel frattempo (maggio 2000) Israele si ritira dai territori occupati in Libano, anche su pressione degli Hezbollah libanesi, di cui abbiamo già parlato.
Sia quel che sia, nel luglio 2000 Clinton riesce a trascinare Barak e Arafat negli USA (a Camp David) per concretizzare in un vero e proprio trattato gli accordi di Oslo.
E’ a questo punto che Barak avanza la sua (famosa) “generosa offerta” (passata alla storia proprio in questo modo) che, da un lato, è obbiettivamente inaccettabile (estende e generalizza a tutta la Cisgiordania il piano di “spezzettamento” del territorio sotto controllo palestinese, con condizioni giugulatorie per quanto riguarda le risorse, i confini, gli insediamenti, l’acqua, rifiuta di ritirarsi da Gerusalemme Est, di occuparsi della questione dei rifugiati palestinesi, di occuparsi dello smantellamento degli insediamenti ebraici, ecc. ecc.), dall’altro mette in bocca alla propaganda dei mass media occidentali un fatto assolutamente falso: che sia stato Arafat a “mandare a monte” gli accordi di Camp David.
Infatti, nonostante tutto, è proprio Barak a procrastinare e sospendere più volte il corso delle trattative e infine ad avanzare una proposta che Arafat non avrebbe mai potuto accettare, nè fare accettare ai “suoi” a paragone con quanto invece ottenuto dal Libano, dall’Egitto e dalla Giordania (cioè la restituzione di tutti i territori occupati da Israele). In più su un territorio spezzettato e inframmezzato da grosse zone occupate dai coloni ebrei. Zone che eventualmente avrebbero potuto essere “scambiate” con minime zone in territorio israeliano (secondo una proporzione di 9 a 1).
Ma la opportuna riluttanza di Arafat, come detto, sarà propagandata a tal punto che Barak potrà dedicare gli ultimi mesi del suo disastroso intervento a ..... raccontare al mondo che non è possibile trovare un accordo con Arafat.
In definitiva gli incontri di Camp David risultano infine un fiasco, ma i negoziati tra dirigenti palestinesi ed israeliani non si interrompono.
E ciò benchè nel settembre 2000 – quasi per affermare la propria imminente ascesa al potere (che avverrà nel febbraio 2001) – il leader della destra (Likud), Ariel Sharon, già tristemente noto per esser stato “indirettamente” responsabile dei massacri di Sabra e Chatila, decide di provocare i palestinesi sfilando a piedi e con un esercito di guardie armate sulla cosiddetta spianata delle Moschee (presso la Moschea di Al Aqsa) a Gerusalemme Est.
E’ un vero e proprio oltraggio. Inizia la seconda intifada (c.d. intifada Al Aqsa).
Ma come abbiamo detto, i negoziati naufragati a Camp David proseguono a Taba (piccola stazione balneare in territorio egiziano) e prospettano, nel gennaio 2001 quanto di più simile ad un possibile accordo sia mai stato raggiunto tra israeliani e palestinesi. I negoziati di Taba infatti prevedono l’evacuazione totale della Striscia di Gaza, l’annessione ad Israele del 3-6% del West Bank, compensata con territori israeliani, lo smantellamento di tutte le colonie israeliane in territorio palestinese, Gerusalemme capitale di due stati, futuri negoziati sul problema dei profughi.
Troppo bello per essere vero.
E infatti con le elezioni del 6 febbraio 2001 diventa primo ministro israeliano Ariel Sharon, il cui unico obbiettivo sarà quello di annichilire ogni minimo risultato raggiunto in 10 anni di difficili negoziati. Sharon promette ad Israele la ...sicurezza e il 6 settembre del 2002 annuncia che gli accordi di Oslo ......non hanno più valore. Il che, ripercorrendo la storia e le iniziative della dirigenza israeliana, non stupisce.
Quanto alle promesse di sicurezza poco è stato raggiunto per l’elementare principio che con l’occupazione e con l’umiliazione di una popolazione soggiogata non c’è esercito, per quanto “capace”, che possa garantire alcunchè.
Gli episodi anche recenti dimostrano infatti (come ha detto uno storico israeliano) che “ solo una mente malata può sperare che l’occupazione dei territori porti alla fine della guerriglia e del terrore”.

Dopo l’11 settembre 2001, il panorama si arricchisce con la guerra in Afghanistan, il mito Bin Laden, il mito Saddam Hussein, la guerra in Iraq, il rigurgito islamico, il rinnovarsi della generale intolleranza per il “diverso” nel mondo occidentale. Questioni spesso non svincolate dal problema palestinese, che resta comunque spesso un ottimo pretesto o la giustificazione di quanto accade tra mondo islamico e mondo occidentale dalle radici “giudaico-cristiane”.
Il geniale presidente USA, Bush “Junior” fa stilare addirittura, a suo nome, un nuovo e non originalissimo piano di pace chiamato “Road Map” . E’ un generalissimo programma che stabilisce le fasi per raggiungere una soluzione pacifica quanto generica. Fasi che comunque sin dall’inizio non sono state seguite.
Questo “programma” è stato accolto ed enfatizzato dalle compiacenti e disinteressate dirigenze europee, dalla Russia e dall’ONU (che conta come il due di picche) ma brilla per vaghezza più degli accordi di Oslo. Qualcuno ha osservato, al riguardo, che prima di stendere una qualsiasi map ci deve essere almeno una road. Che non c’è.

Qui finisce, per ora, il mio breve sunto (sì, lo so, qualcuno non lo ha trovato per nulla breve), senza la pretesa di aver detto nulla di nuovo e con le comprensibili imprecisioni del caso.
Lo scenario muta sensibilmente con la morte di Arafat, il piano di disimpegno unilaterale dalla Striscia di Gaza, le prevedibili ed enormi difficoltà all’interno della Striscia, le mutate prospettive per il West Bank, l’impegno di Sharon a dare corso in ogni caso alla Road Map e le sue difficoltà a far fronte ai suoi stessi elettori in Israele.
Ma questa forse – ci speriamo tutti - è un’altra storia.

martedì, ottobre 04, 2005

Il conflitto arabo israeliano palestinese for dummies (quarta parte, 1992)

Concludendo la “terza parte” con la vittoria, nel 1992, dei laboristi – storicamente di “sinistra” – alle elezioni in Israele, ho scritto che questi (i laboristi) non necessariamente erano favorevoli ad una soluzione del problema palestinese. Non ho scritto “ad una soluzione favorevole ai palestinesi” ma – qualsiasi essa possa essere – “ad una soluzione [in generale] del problema”. Esiste infatti una terza alternativa: appoggiare, più o meno consapevolmente, la “non soluzione del problema”. Come si fa? Basta sostituire la parola “pace” con la frase “piano di pace”.
E infatti, tutti i progetti di pace elaborati dal blocco Israele/USA, patrocinati e propagandati dalla sinistra israeliana, prevedono immancabilmente un percorso – di solito elaboratissimo – per arrivare (se e quando) alle condizioni che consentiranno a chi detta le regole, Israele e USA, di ....concedere qualcosa al popolo palestinese. Inutile aggiungere che un “piano di pace”, se interessatamente ostacolato, può andare avanti all’infinito senza arrivare alla “pace”.
Non è questo il senso, letterale, nè lo spirito delle risoluzioni ONU. E il principio di autodeterminazione dei popoli non prevede alcun percorso ad ostacoli per raggiungere (la pace e) l’indipendenza. Nel caso della Palestina, poi, si tratta anche di restituire terre che nessuna norma internazionale oggi assegna al paese vincitore e occupante. Allora la cosa sarebbe semplicissima.
“Si rendono ai palestinesi le terre occupate nel 1967, anzi, quelle stabilite dall’ONU nel 47 e ce ne andiamo tutti a casa, felici e contenti?”. No.

Lasciando perdere qui (per comodità) gli interessi USA e occidentali in medioriente, c’è infatti in Israele chi pensa che temporeggiando e tirando avanti alla meno peggio si finirà per concedere ai palestinesi sempre meno o nulla. E chi pensa che – costi quel che costi – non si debba concedere nulla e combattere fino alla conquista dell’intera “terra biblicamente assegnata da Dio agli ebrei”. A loro volta, da parte palestinese, c’è chi è convinto che lo squilibrio demografico, nettamente in favore dei palestinesi, finirà per risolvere con i numeri l’intera questione nel giro di dieci o vent’anni. Questi sono solo i problemi più evidenti.
Poi c’è il problema dei coloni negli insediamenti ebraici nei territori occupati (che a Gaza erano solo circa 7500, ma nel West Bank sono circa 200 mila), che si sono piazzati lì da quarant’anni (perchè il governo israeliano ce li ha spinti) e ....il problema dei profughi palestinesi che sono quaranta o cinquant’anni che sono a “spasso” (perchè .... il governo israeliano ce li ha spinti).
Ma come se questo non bastasse, i palestinesi non hanno effettivamente le risorse e le strutture (politiche, sociali, economiche, lavorative ecc.) per aspirare – senza aiuti esterni e in tempi ragionevoli – all’indipendenza o almeno a non morire di fame e di sommosse. Circa 125 mila palestinesi lavoravano in Israele (prima della seconda intifada, quella del 2000, di cui parleremo più avanti) e a casa loro non trovano di che campare.
In ogni caso l’occidente (compresa l’Europa), gli USA e Israele non sono disposti a rischiare una nuova possibile “polveriera” in medioriente e quella attuale è dunque una pura situazione di forza (chi è più forte fa quel che vuole), di interesse e di opportunismo.
Anche solo pensare ad una possibile soluzione di questi ed altri tantissimi problemi della zona significherebbe aspirare al Nobel (uno qualsiasi). Ma se l’occidente – e in ispecie uno o più paesi europei – cominciasse a trovare conveniente una diversa situazione economica, sociale e culturale in Palestina (investendo a piene mani), dopo un certo periodo transitorio di legge della giungla, potrebbero crearsi le condizioni per una “pace interessata”. Il che non sarebbe del tutto male.
Eravamo al 1992 e lì siamo rimasti. Andiamo avanti.

domenica, ottobre 02, 2005

Il conflitto arabo israeliano palestinese for dummies (terza parte 1971-1992)

Siamo nel 1971. Come abbiamo detto, la resistenza armata palestinese si è fatta cacciare dalle forze congiunte giordane e siriane verso nord (Libano). Nell’aprile del 1971 non ci sono più basi della guerriglia palestinese in Giordania, ma nel frattempo sono morte più di 4500 persone, di cui 4000 civili. Viene sviluppata una bozza di accordo di pace tra Giordania e Israele che prevede il rientro dell’occupazione israeliana ai confini precedenti il 1967. Israele non accetta e non se ne fa nulla.
In particolare Golda Meir (primo ministro israeliano) rifiuta di restituire il Sinai all’Egitto a richiesta del nuovo presidente egiziano, Anwar el-Sadat (Nasser è morto nel settembre 1970), che spingerà sempre per trovare una soluzione concordata del problema mediorientale.
Nel 1972 il re di Giordania (Hussein) propone la costituzione – sotto di sè – di un “Regno Arabo Unito” tra palestinesi della Cisgiordania (West Bank) e Giordania (East Bank). Proposta che viene naturalmente intesa dagli stati arabi come un modo per annettersi la Cisgiordania e provoca un deterioramento dei rapporti tra Giordania ed Egitto.
La “resistenza palestinese” è viva e attiva e sceglie di interessare platealmente il mondo al problema della Palestina. Sarà una scelta sanguinosa e forse “efficace” dal punto di vista della pressione su Israele, ma comporterà da un lato reazioni anche indiscriminate e dall’altro allontanerà il movimento palestinese da possibili simpatie internazionali. In pratica non porterà alcun vantaggio e procrastinerà di molti anni ogni intervento occidentale in favore della causa palestinese.
Andiamo avanti.
Durante i giochi olimpici del 1972, a Monaco, il gruppo armato palestinese “Settembre Nero” (che ha preso il nome dall’episodio di repressione avvenuto in Giordania due anni prima) sequestra gli atleti israeliani nel villaggio olimpico e ne uccide nove. Come volevasi dimostrare, inizia una rappresaglia durissima da parte israeliana, viene bombardato il Libano (dove nel frattempo si sono insediati i guerriglieri palestinesi) e fino al 1973 seguono una serie di assassini di dirigenti palestinesi in Europa (a Roma e Parigi) verosimilmente orchestrati dal Mossad, servizio segreto israeliano per l’estero, e in Libano (a Beirut).

Nel 1973 dopo l’ennesima richiesta egiziana di restituzione del Sinai (occupato nel 1967), Egitto, Siria e Giordania (con l’aiuto finanziario della Libia di Gheddafi, che dirige una sospensione delle forniture di petrolio per costringere gli USA ad esercitare pressioni su Israele), si accordano per attaccare Israele. Il 6 ottobre 1973 durante la festività ebraica del Kippur (digiuno annuale di espiazione), gli eserciti di Egitto, Siria e Giordania “attaccano” Israele.
E’ il quarto conflitto arabo-israeliano che verrà appunto ricordato come guerra del Kippur.
Ma cosa vuol dire “attaccano”? Che l’esercito egiziano, a sud, passa il canale di Suez e avanza nel Sinai (occupato nel 1967 dalle forze armate israeliane) e l’esercito siriano-giordano cerca di rioccupare le alture del Golan, a nord. Gli è che gli eserciti arabi non sono organizzati e militarmente preparati per affrontare, nonostante la sorpresa, l’esercito israeliano che gode immediatamente del massiccio aiuto militare americano, ed è in grado di reagire ed avanzare in territorio egiziano e in Siria, facendo a polpette gli eserciti arabi, invadere la Siria e arrivare a 30 km da Damasco.
Senonchè, nel frattempo i paesi arabi dell’OPEC (fornitori di petrolio a mezzo mondo) si accordano per ridurre la produzione, bloccare le forniture a USA e Olanda ed alzare il prezzo del petrolio a tutti i paesi filoisraeliani.
Il ricatto economico petrolifero funziona (mai toglierci la benzina a noi occidentali!), il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (risoluzione 338) impone un immediato cessate il fuoco e dispone l’inizio di negoziati per una “pace giusta e durevole” in Medioriente.
Il 21 dicembre 1973 è convocata la Conferenza di Pace dell’ONU sul Medioriente e vi partecipano: Egitto, Giordania Israele, URSS e USA.
Intanto si è sviluppata una fazione “politica” più moderata all’interno dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, presidente Arafat), che il 14 ottobre 1974 ottiene dall’Assemblea Generale dell’ONU, con la risoluzione 3210, di partecipare alle deliberazioni plenarie sulla questione palestinese. E’ la prima volta che una persona, in rappresentanza di un movimento di liberazione e non di uno Stato membro, può rivolgersi ed indirizzare le proprie proposte all’Assemblea dell’ONU.
Seguono una serie di risoluzioni che tendono a confermare lo “status” dell’OLP in sede ONU e il diritto del popolo palestinese alla autodeterminazione. (Di queste ultime ce ne saranno a pacchi).
Ma sono tutti d’accordo? Beati e pacifici? Col cavolo!
Il blocco Israele/USA – con la tacita approvazione dell’occidente – tenta (e tenterà sovente) di imporre ai palestinesi una “pace dei vincitori” concedendo, o meglio, restituendo molto lentamente molto meno di quello che era stato tolto. Contemporaneamente vengono incrementati gli insediamenti israeliani in territorio palestinese occupato, la Palestina subisce comunque le decisioni economiche di Israele e fra l’altro deve sottostare alle decisioni israeliane sulla gestione delle risorse d’acqua (che i palestinesi comunque non sanno e non possono gestire), che viene distribuita da Israele a proprio piacimento e a vantaggio dei coloni ebrei.
Nel frattempo – siamo tra il 1973 e il 1974 – il blocco della guerriglia palestinese si è insediato nei villaggi (musulmani sciiti) del sud del Libano, ai confini con Israele, dove ci sono moltissimi profughi palestinesi, ed intende assumere un certo controllo dei locali movimenti indipendentisti (musulmani) e, in prospettiva, far partire dal territorio libanese ogni possibile azione contro Israele.
Israele bombarderà a più riprese le postazioni libanesi dal 1973 in poi.
Le popolazioni locali si trovano tra due fuochi: esercito israeliano da una parte e guerriglieri palestinesi dall’altra. Inizia un’ondata di profughi dal sud del Libano verso Beirut.
Nel 1975 inizia la guerra civile in Libano e la guerriglia palestinese si aggrega al movimento patriottico libanese.e finirà, nel 1976, per combattere anche contro l’esercito siriano che appoggia il governo del Presidente libanese.

Nel luglio 1977 un gruppo di guerriglieri/terroristi del PFLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) dirotta un aereo dell’Air France partito da Israele e lo costringe ad atterrare a Entebbe, in Uganda, paese ostile ad Israele. Il governo israeliano manda in Uganda (con rotta sopra il mar rosso) due Boeing carichi di paracadutisti e quattro Hercules d’appoggio. L’azione sul territorio ugandese dura circa 90 minuti. Vengono uccisi i sette dirottatori, vengono distrutti a terra 11 MIG ugandesi e liberati i 109 ostaggi.
Nel 1978 Israele occupa la parte sud del Libano, dove controlla e si avvale delle milizie mercenarie della South Libanese Army che conducono ogni sorta di sporca azione militare per loro conto, contro i guerriglieri palestinesi, contro i civili e addirittura contro le forze multinazionali nel frattempo inutilmente inviate dall’ONU. Nel marzo 1978, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (n. 425) che impone ad Israele il ritiro immediato e incondizionato dal Libano, ma rimane lettera morta.
Sempre nel 1978 nel sud del Libano nasce il movimento islamico degli Hezbollah.

La situazione dei palestinesi sotto occupazione è intanto talmente grama che su pressione del “blocco arabo” il 10 novembre 1975 l’Assemblea Generale dell’ONU (attenzione: l’Assemblea non ha praticamente il potere di imporre nulla, è il Consiglio di Sicurezza che prende le effettive decisioni vincolanti in campo internazionale) adotta una risoluzione politicamente devastante per Israele - la n. 3379 - che determina che il Sionismo è una forma di razzismo (questa risoluzione verrà annullata dall’Assemblea alcuni anni dopo).
Tra settembre e novembre 1977 a Camp David (USA) venivano intanto stipulati accordi tra Sadat (Egitto) e il primo ministro israeliano Begin, con la mediazione del presidente americano Jimmy Carter. Accordi che pongono la base per il trattato di pace tra Egitto e Israele e del ritiro di Israele dal Sinai. La pace tra Egitto e Israele viene firmata a Washington il 26 marzo 1979. Il Sinai è restituito all’Egitto nel 1980.
Gli Arabi si sentiranno traditi perché Israele, accordandosi con l’Egitto, non dovrà più preoccuparsi di attacchi da sud ed è libero di attaccare il Libano a Nord. Anche per questo Sadat verrà assassinato da killer fondamentalisti nel 1981.

Nel 1982, con la scusa di dare la caccia ai “terroristi”, Israele invade nuovamente il Libano e le sue forze, avvalendosi delle milizie cristiane maronite libanesi, si dirigono a Beirut (dove si trova Arafat con i guerriglieri dell’OLP). Con una mediazione USA, Arafat e i suoi riescono a scappare da Beirut, ma lasciano campo libero ai miliziani cristiano-maroniti sotto il controllo di Israele, che se la prendono con i profughi (civili) palestinesi nei campi di Sabra e Chatila. E’ un massacro: vengono ammazzate – si dice – 1700 persone. Sharon, allora ministro della difesa e presente sul campo, subirà una specie di “processo” affidato ad una commissione israeliana, che attesterà una sua responsabilità indiretta e perlomeno lo costringerà a dimettersi. (Ancora oggi, confidando nell’applicazione di una Legge belga, che consentiva di processare chiunque per crimini di guerra commessi ovunque, i parenti di quei palestinesi hanno tentato di far processare Sharon. Morale, sotto pressioni USA, il Belgio ha reinterpretato la Legge in modo che non la si possa applicare al caso. Ma la questione è ancora in qualche misura aperta.)
Le reazioni internazionali ai massacri di Sabra e Chatila saranno unanimi, ma Israele, nonostante la disapprovazione internazionale e almeno una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delll’ONU, si ritirerà dal Libano solo nel 1985, mantenendo però dei contingenti militari nella fascia sud.

Sempre nel 1985 Arafat, fuggito dal Libano e isolato, stringe un accordo con re Hussein di Giordania, che verrà rotto nel 1986 a seguito di pressioni USA successive ad una serie di attentati terroristici da parte dei palestinesi, tra cui il sequestro della nave “Achille Lauro”. Attentati che vengono unanimemente considerati dannosissimi per la causa palestinese. Tanto che Israele potrà tranquillamente bombardare il quartier generale dell’OLP che si era nel frattempo stabilito a Tunisi.
Tra il 1985 e il 1987 l’OLP è screditata (Arafat pure), ma siccome nei territori occupati la repressione israeliana è durissima, vengono deportati e incarcerati centinaia di palestinesi, vengono costruiti nuovi insediamenti di coloni, le fazioni palestinesi raggiungono una nuova “unità”.

Il 9 dicembre 1987 scoppia la prima intifada (sollevazione).
Intanto Arafat (che riceve comunque – e si tiene – inesauribili fondi ed aiuti, per esempio dall’Arabia Saudita, ma comincia a capire che se non agisce politicamente non ottiene un tubo per il popolo palestinese che in questa situazione prima o poi lo farebbe saltare), rinuncia ufficialmente, nel 1988, al terrorismo e accetta la risoluzione ONU 242, riconoscendo implicitamente l’esistenza di Israele.
Gli è che tenere sotto controllo (soldi o non soldi, politica o non politica) le fazioni più accese di un popolo oppresso non è facile. Arafat deve dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte e non può condannare apertamente le azioni (anche le più violente) dei suoi, che probabilmente in realtà non controlla neppure. Il problema è che Arafat non può ammettere ufficialmente di non avere alcun potere su buona parte della resistenza palestinese. E allo stesso tempo è vecchio, non ha nulla da perdere ed è un osso duro che gli israeliani vorrebbero mettere sotto terra, confidando in una linea più morbida (rassegnata) di chiunque altro.
Quindi la successione sembra essere questa:
- attentato terroristico;
- Israele da la colpa ad Arafat (perchè vuole annichilirlo politicamente);
- Arafat nega ma non può farlo con troppa decisione, sennò vuol dire che non controlla nulla e perde di credibilità tra i suoi.
Comunque così facendo fa anche una serie di errori di opportunità politica imperdonabili. Tace rispetto ad alcune azioni terroristiche ingiustificabili e, soprattutto, appoggia l’invasione irachena del Kuwait nel 1991. Risultato: l’Arabia Saudita gli taglia i fondi e Arafat con l’OLP si ritrova internazionalmente isolato, virtualmente a fianco di un dittatore (Saddam) il cui destino militare e politico è segnato. In altri termini, anche l’odio profondo per Israele e il godimento per qualche missile Scud lanciato su Israele da Saddam (con il popolo palestinese che inneggia, ma questo accadeva in molti paesi arabi senza che i loro governanti si lasciassero andare a dichiarazioni suicide) non dovevano consentirgli di perdere di vista la causa palestinese, un minimo di realismo e di opportunità.

Dopo la Guerra del Golfo, Bush senior (non George dabliù), in previsione dei sempre più importanti e lucrosi interessi nella zona, spinge per stabilizzare l’area mediorientale e sollecita Israele ad incontrare i paesi arabi e alcuni rappresentanti palestinesi (ma non l’OLP di Arafat).
Nel giugno 1992 il Partito Laborista israeliano di Yitzhak Rabin sconfigge il partito di destra (Likud), vince le elezioni e promette un accordo di autonomia ai palestinesi. Con questo non si deve assolutamente pensare che i laboristi israeliani siano stati allora o siano oggi tutti incondizionatamente favorevoli ad una soluzione del problema palestinese. Sicuramente ci ha lavorato e bene Rabin, per questioni di realismo (al di là di quello che uno sente o pensa, in un modo o nell’altro il problema deve esser risolto e nel modo più opportuno e duraturo possibile) e per questo viene assassinato.