La vecchia Europa, da par suo, "arriva lunga". Sono passati sessant'anni dai nefasti della seconda guerra mondiale e dal corollario di sciagure iniettato in Palestina grazie alle interessate iniziative britanniche. Ne sono passati quaranta dalla guerra dei sei giorni, sette anni dal definitivo funerale del programma di Oslo, in realtà un aborto o al più un tentativo di tenere in vita il bambino senza fornirgli alcun nutrimento. Autoproclamatici membri, in quanto europei, dell'improbabile Quartetto finalizzato ad implementare una ancor più improbabile Road Map, leggiamo oggi i buoni propositi trasfusi nella lettera con la quale dieci ministri degli Esteri UE (tra di essi Massimo D'Alema) danno il viatico al nuovo inviato speciale in Medio Oriente (1).
E chi è costui? E' l'ex premier britannico, Tony Blair, già definito "uno degli artefici della distruzione proprio di quelle istituzioni che è stato ora incaricato di far rivivere" ed inviato speciale, appunto, oggi, di quell'organismo - il Quartetto - che è considerato in Palestina "organo vuoto, costruito per fornire legittimità alle incrollabili politiche filo israeliane dell'amministrazione Bush". (Osamah Khalil). E questo accade ancora una volta - come è stato rilevato - in esatta corrispondenza con il punto più basso della popolarità di un presidente americano uscente per gratificare Washington di un presentabile ed erudito portavoce delle fallimentari - o criminali - politiche americane in Medio Oriente. Clinton docet, ricordiamo Camp David, "invariabilmente questi tentativi di risolvere il conflitto arabo israeliano capitano quando il presidente USA è al suo punto di massima debolezza in politica interna".
Sia quel che sia (il discorso in realtà sarebbe poco complicato, ma abbastanza lungo) leggiamo questa lettera senza saltare a piè pari, per una volta, i convenevoli di rito e il preambolo in consueto stile "stracciamento di vesti". Fin dalle premesse possiamo capire che la posizione espressa al neo inviato speciale pecca di una condiscendente anzianità di vedute o addirittura, in taluni punti, di insipiente opportunismo. Lo possiamo constatare dalla subitanea enumerazione dei "fattori ostili" alla pace, come dal proposito di rivivificare la dirigenza dell'ANP (Fatah) giustamente ripudiata dal proprio popolo, come dal riproporre in extremis la soluzione a due Stati alla cui agonia tutti i membri del cosiddetto Quartetto hanno contribuito, per azione o per omissione. Occorre infatti una certa improntitudine nello stigmatizzare innanzi a tutto il "colpo di forza di Hamas" e molta malcelata piaggeria nel parlare di "attendismo americano", per poi mitigare - ma solo in seconda battuta - l'atteggiamento nei confronti del governo palestinese - quello eletto - e lasciar cadere in un silenzio consolatorio l'imbarazzante evidenza di una strategia americana fondata sui voleri delle lobby (anche, ma non solo, quella filo israeliana) e dei neoconservatori. La lettera aperta dei ministri UE non è poi esente da voli di fantasioso ottimismo, qual è l'idea della "concertazione rinnovata" del Quartetto e della Lega Araba e di rimarchevole miopia laddove si confida nel flirt di dubbia consistenza tra un presidente palestinese, delegittimato con l'intero suo entourage, e un premier israeliano a dir poco ondivago ed anelante al beneplacito della junta militare che governa il paese. Il tutto senza considerare che la dirigenza dell'ANP ha dimostrato di influire ben poco sulla gente che - ripetutamente tradita - l'ha buttata fuori da Gaza e messa ai margini di un percorso che dagli anni ottanta avrebbe dovuto avere come obiettivo la fine dell'occupazione e non l'autoreferenziale mantenimento a spese dei palestinesi di una struttura dirigenziale incapace, largamente antidemocratica e corrotta.
I dichiarati obiettivi della missiva non si scostano poi dalla retorica. L'idea di negoziati sullo statuto finale senza preliminari si scontra con la possibilità già prevista di un "percorso in fasi successive" già tragicamente sperimentato con gli accordi di Oslo ed il cui spirito e la cui lettera venivano largamente traditi dalle scelte espansionistiche israeliane mentre l'inchiostro era ancora fresco. L'utopia di fissare obiettivi realistici per la questione di Gerusalemme e dei rifugiati di per sé non significa niente se questi obiettivi sono affrontati - come è già accaduto - nel timore di un muro israeliano di illegittima ed inopinata intransigenza. Pacchi di risoluzioni ONU, intere enciclopedie e sessant'anni di violenza sono lì a ricordarci che non ci sono alternative al Diritto per aspirare alla definizione di una situazione illegittima e che la "sicurezza di Israele" non potrà mai prescindere dalla giusta definizione di un problema di sovranità in senso proprio, di confini surrettiziamente mai delimitati e di insediamenti abusivi. L'esplicito obiettivo di ottenere da Israele quasi a titolo di concessione per facilitare questo ennesimo percorso di pace la restituzione della totalità delle tasse dovute ai palestinesi, la liberazione di migliaia di prigionieri politici, il congelamento - bontà loro - della colonizzazione illegittima, sembra infine addirittura umiliante trattandosi nel caso della giusta pretesa di ottenere per i palestinesi un immediato anticipo sul doveroso ripristino della legittimità internazionale.
Ma - come sovente accade - il piatto forte dello scritto è alla fine, laddove è previsto che il rinnovato impegno del Quartetto sia finalizzato a "far diventare realtà la visione di due Stati, israeliano e palestinese, che vivono l'uno accanto all'altro in pace e in sicurezza", parole già sentite, già scritte e per decenni e mai corroborate dai fatti. Parole che ripropongono un'alternativa da moltissimi ormai considerata agonizzante in favore di una fatale per quanto dolorosa "One State Solution" (2).
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(1) Caro Tony, dopo dieci anni passati al servizio della Gran Bretagna, e mentre il mondo si stava già rammaricando di vederla lasciare le luci della ribalta, lei ha accettato una missione più complessa, addirittura più impossibile di tutte quelle in cui si era finora impegnato. Impossibile? Il compito, effettivamente, è tale da scoraggiare più di una persona.
Alla storia apparentemente senza fine di una pace tra Israele e i Palestinesi, si aggiunge oggi un insieme di fattori ostili: il colpo di forza di Hamas a Gaza ovviamente, le difficoltà politiche interne israeliane, l'attendismo degli Stati Uniti, la mancanza di convinzione dell'Europa, nonostante l'azione meritoria di Javier Solana, e soprattutto quella terribile sensazione di impotenza che sembra propagarsi in tutta la comunità internazionale.
C'è indubbiamente di che scoraggiarsi. E tuttavia, non possiamo impedirci, rallegrandoci della sua decisione di accettare questa missione, di provare un improbabile ottimismo. Prima di tutto, poiché noi conosciamo il suo coraggio, il suo senso del bene comune e la sua determinazione. Ma anche perché l'ampiezza della crisi ha provocato una presa di coscienza salutare, che paradossalmente rende finalmente possibile il progresso.
Tanto vale riconoscerlo subito, la prima constatazione di questa analisi è quella di un insuccesso condiviso che non possiamo più ignorare: la "road map" è fallita. Lo status quo che prevale dal 2000 non porta a nulla, lo sappiamo. Le condizioni troppo rigide che avevamo l'abitudine di imporre come preliminari alla ripresa del processo di pace non hanno fatto altro che aggravare la situazione.
L'immobilità timorosa della comunità internazionale ha provocato troppi danni. Questo bilancio negativo ci impone di cambiare approccio. Ci autorizza soprattutto a vedere più lontano. L'Europa ha il dovere di dirlo ai suoi amici sia israeliani che palestinesi. Poiché, se si accetta di cambiare prospettiva, se ci si azzarda a vedere la situazione con occhi nuovi, la situazione attuale offre anche le sue opportunità. Ne citeremo due. Per prima cosa, la presa di Gaza da parte di Hamas. Da questa sconfitta può nascere una speranza. Il rischio di guerra civile in Cisgiordania, le minacce della divisione di fatto della Palestina e del ritorno degli scenari giordano e egiziano di prima del 1967 possono effettivamente dare uno scossone. Il Presidente dell'Autorità Palestinese, con la sua tenacia nel favorire la pace e il dialogo e nel denunciare coraggiosamente il terrorismo, ci invita all'ottimismo.
Altro motivo di sperare: la determinazione dell'Arabia Saudita, degli Emirati e del Qatar a fianco dell'Egitto e della Giordania. Questi nuovi protagonisti sono in grado, con le loro considerevoli risorse, di portare un aiuto decisivo.
Questi due punti, caro Tony, ci autorizzano a ridefinire i nostri obiettivi. Sostenuti da una concertazione rinnovata del Quartetto e della Lega Araba (con Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Siria, Emirati) che associ le due parti (Olmert e Mahmud Abbas), questi obbiettivi dovrebbero ragionevolmente essere quattro:
a) Offrire una speranza, una vera soluzione politica ai popoli della regione. Questo passa attraverso negoziati, senza preliminari, sullo statuto finale, salvo che il percorso avvenga per fasi successive. Comprendendo le questioni di Gerusalemme, i rifugiati e le frontiere, questi negoziati permetteranno di fissare un obiettivo condiviso e realistico.
b) Prendere in considerazione il bisogno di sicurezza di Israele. Vale la pena esaminare l'idea di una forza internazionale robusta del tipo Nato o Onu capitolo VII. Questa avrebbe ogni legittimità ad assicurare l'ordine nei territori e a imporre il rispetto di un necessario cessate il fuoco. I rischi, ovviamente, sono elevati, ma questa forza può essere funzionante e sicura se noi rispettiamo due condizioni: che accompagni un piano di pace senza sostituirvisi e che si appoggi su un accordo inter-palestinese.
c) Ottenere da Israele provvedimenti concreti e immediati a favore di Mahmud Abbas, tra i quali il trasferimento della totalità delle tasse dovute, la liberazione di migliaia di prigionieri che non abbiano le mani macchiate di sangue, la liberazione anche dei principali leader palestinesi per assicurare il ricambio in seno a Fatah, il congelamento della colonizzazione e l'evacuazione degli
insediamenti selvaggi. Nessuno di questi provvedimenti può essere contestato per motivi di sicurezza. L'Europa e il Quartetto devono dirlo con fermezza e amicizia a Israele. È troppo tardi per tergiversare.
d) Non spingere Hamas a rilanciare. Questo implica riaprire le frontiere tra Gaza e l'Egitto, facilitare il passaggio tra Gaza e Israele, e incoraggiare l'Arabia Saudita e l'Egitto, come il Presidente Mubarak ha proposto, a ristabilire il dialogo tra Hamas e Fatah.
Questi quattro obiettivi sono alla nostra portata. Nonostante le circostanze drammatiche, nonostante le ferite e gli odi, ci troviamo di fronte a una occasione storica - forse l'ultima. Conosciamo la sua immaginazione. Siamo quindi certi che lei saprà trattare queste problematiche in modo globale. Da qui l'importanza di riunire senza indugio una Conferenza internazionale che comprenda tutte le parti del conflitto. Caro Tony, lei ha lo straordinario privilegio di poter far diventare realtà, la visione di due Stati, israeliano e palestinese, che vivono l'uno accanto all'altro in pace e in sicurezza. Sappia, che, in ogni giorno della sua missione, potrà contare sul nostro sostegno e la nostra adesione incondizionata.
(Lettera firmata dai 10 ministri degli Affari Esteri degli Stati mediterranei dell'Unione Europea, riuniti il 6 luglio 2007 a Portorose, Slovenia)
Ivailo Georgiev Kalfin (Bulgaria)
Yiorgos Lillikas (Cipro)
Bernard Kouchner (Francia)
Dora Bakoiannis (Grecia)
Massimo D'Alema (Italia)
Michael Frendo (Malta)
Luís Amado (Portogallo)
Adrian Cioroianu (Romania)
Dimitrij Rupel (Slovenia)
Miguel Ángel Moratinos Cuyaubé (Spagna)
(Luglio 2007)
(2) «...In spite of the fact that Abu Mazen's effort enjoys broad international and Arab support, the chances that it will succeed are slim. The reason is well known: Abu Mazen and Fatah have nothing to sell the Palestinian public. The vision of the independent state in the West Bank and Gaza, with East Jerusalem as its capital, gradually dissipated during the years of the Oslo process. What finally destroyed it were the continuing violence and terror, the number of settlers, which doubled (from about 100,000 in 1990 to about 200,000 in 2000), and the new Jewish neighborhoods in Jerusalem and its environs. Instead of reconciliation and coexistence, is the feeling, we got an intifada, murderous attacks, separation walls, settlement blocs and an apartheid state. The Palestinian public knows that it is impossible to turn back the clock. It was not corruption and an absence of leadership that brought down the Fatah movement, and neither are they not what is causing it to fail now - but rather the fact that the political path of Abu Mazen and his friends has reached a dead end, and cannot be resurrected. [...] Sooner or later Hamas will fail in its war against Israel. But that does mean that there will then be a return to the days of Oslo and the two-state vision, which has withered and died since September 2000. Rather, there will be increasingly strong demands by Palestinian Arabs, who constitute almost half the inhabitants of this land, who will say: Under the present conditions we cannot establish a state of our own, and what remains for us is to demand civil rights in the country that is our homeland. They will adopt the slogans of the struggle of the Arabs who are Israeli citizens, who demand equality and the definition of Israel as a state of all its citizens. That won't happen tomorrow morning, but there doesn't seem to be any option to its happening eventually. If there aren't two states for the two nations, in the end there will be one state». (Danny Rubinstein 'Nothing to sell the Palestinians' - Ha'aretz, July 16 2007)
giovedì, luglio 19, 2007
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«...Many explanations have been offered for the sudden outburst of diplomatic energy: U.S. President George W. Bush's need for a plan to rescue the last vestige of his honor in the region toward the end of his failed term in office; Prime Minister Ehud Olmert's need to present a diplomatic achievement on the eve of the publication of the full Winograd report; the need to heed the demand to "strengthen Abu Mazen" (Palestinian Authority Chairman Mahmoud Abbas) that is being heard from all sides; and the profound need to lift the peace camp out of its despair and give it a dose of optimism so it will continue to believe that most Israelis in fact support the two-state solution, and that the Greater Israel ideology is a thing of the past, even in the rightist camp [...]
The illusion of the Palestinians, who saw how under Oslo the settlements were doubled and a draconian occupation regime was installed, evaporated in a violent manner, shattering the Israeli illusion that the conflict could be ended without paying the price. The current diplomatic process is liable to repeat the destructive route of Oslo, creating an llusion of progress fueled by a natural need to nurture hope, a hope that will be exploited by cynics who believe they have the power to dictate the rules of the game and decide who will lose it.
Those who are amusing themselves with the process, those who are exploiting it to promote their political aims, those who are becoming addicted to it to fulfill their heart's desire, and those who want to use it to improve their grievous condition under the occupation should all recall that it is easy to create illusions, and it is easy to err because of them. But the price will be paid by everyone, including those who are moving the process forward through mere words. The Israeli-Palestinian conflict cannot tolerate another shattered illusion, and those who are engaging in diplomatic activity during the July-August vacation should be aware of the responsibility they are assuming».
[Ha'aretz, July 19 2007, 'Beware of Oslo's destructive route', Meron Benvenisti]
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