"Il premier israeliano Ehud Olmert tende la mano al presidente dell'Anp Abu Mazen. Secondo il quotidiano dello Stato ebraico 'Haaretz', Olmert avrebbe offerto ad Abu Mazen un "accordo di principio" sulle caratteristiche del futuro Stato palestinese e sui legami con Israele da discutere fin da ora", così se ne esce il Corriere della Sera (Agr) all'alba del 25 luglio 2007. E quelle parole, "tende la mano", lasciano uno strato di unto metaforico che nessun pragmatico solvente riesce altrettanto metaforicamente a mitigare. Ma passiamo al merito di questa mano tesa.
Evidentemente per il premier israeliano Olmert il tempo si è fermato all'estate del 2000 e con fenomenale improntitudine tenta di ricondurre un capintesta palestinese oggi largamente delegittimato, il presidente Mahmoud Abbas, per le vie del totale insuccesso già percorse dal - pur sempre da molti compianto - padre-padrone Arafat.
Dopo aver letto le linee generali della proposta come riportate in un articolo apparso oggi su Haaretz, qualsiasi negoziatore palestinese degno di questo nome non potrebbe che alzarsi dal tavolo e salutare chiedendo - se del caso - chi sia l'artefice di questa buffonata a mezza strada tra il deja vu e l'incubo.
Dopo il disastro di Oslo, delle "dichiarazioni di principi" e loro corollari, delle fasulle offerte orali (con trucco) di Barak, la cui "generosità" viene tuttora pagata dalla gente (quella normale, quella che pensa a vivere o sopravvivere ed allevare i figli) di Palestina e Israele, leggiamo che il "Prime Minister Ehud Olmert is offering to hold negotiations toward an "Agreement of Principles" for the establishment of a Palestinian state on most of the territory of the West Bank and the Gaza Strip". In pratica un nuovo accordo a priori "sui principi", necessitato dal fatto che - testuali parole - "sarà molto difficile raggiungere un accordo sulle questioni relative allo status finale, quali i confini, Gerusalemme e i rifugiati" (e non parliamo per pudore degli insediamenti). Il resto a seguire, se e quando, sui punti che misero anche Arafat nell'impossibilità di elemosinare oltre.
Nelle piacevolezze della proposta, qui solo due esempi, si ripropone il medesimo vecchio escamotage di derivazione Beilin-Abu Mazen del 95, su tutti i punti poi ripresi a Camp David e, con qualche piccola eccezione, a Taba. Così è per Gerusalemme (non è uno scherzo! "The Palestinians will be able to declare Jerusalem their capital. In the past Olmert has hinted that he would be willing to withdraw from the Arab neighborhoods of East Jerusalem "on the edge," which have never been considered part of the historical city") laddove si tenta nuovamente di confinare la capitale palestinese al villaggio periferico di Abu Dis. E così è per gli insediamenti che permarrebbero - con tutto il contorno di esercito israeliano - nel cuore del West Bank ("large settlement blocs that will remain under Israeli control in the West Bank"), con il miraggio di improbabili compensazioni, che non pongono certo rimedio alla parcellizzazione del territorio del West Bank.
Il resto è sulla medesima falsariga ed ha il medesimo significato - il governo israeliano non persegue alcun concreto disegno di pace - e uno scopo in più: tentare in extremis la via della soluzione a due stati, ormai approdata alla fase enfisematoso colliquativa del cadavere.
Si spera, ma è forse una vana speranza, che non segua, ora, da parte europea, il coro dei più ingenui e dei più in malafede che non mancheranno di apprezzare o di spacciare questa indecorosa commediola quale segno di apertura e di buona volontà.
Si tratta in effetti di un muro ed è tanto alto e massiccio che neppure Mahmoud Abbas avrà la faccia tosta di riproporre alla sua gente questo reiterato tentativo di "pax romana", nemmeno a quella piccola quota che ritiene obtorto collo questione di sopravvivenza collaborare alla gestione della propria prigione a cielo aperto piuttosto che soccombere alla fame e - per un altro mezzo secolo - alla violenza e alle umiliazioni sotto un regime di apartheid.
mercoledì, luglio 25, 2007
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