Un’ambigua ondata del più tardo perbenismo mischiato all’odore stantio del politicamente corretto tenta di imporsi. Così che, dopo millenni di rozzo rifiuto spesso istituzionalizzato nei confronti di chi era “diverso” (perché a vario titolo considerato tale) e risultando tuttora lento il percorso di adeguamento al fatto che poiché tutti sono diversi in definitiva nessuno lo è, siamo inondati dall'imposizione di regole per sopperire alla difficoltà dell’intelletto nell’adattarsi alle cose come sono o come sembra che natura le abbia fatte.
Ma quando quasi tutto è regola, ciò che per esser considerato temporaneamente irrisorio ne rimane fuori, viene discriminato, talvolta tacciato di crimine immondo e finisce per assumere d'imperio i caratteri di una nuova ed artificiosa diversità.
Discriminazioni alimentate da quisquilie estemporanee, crassa ignoranza ed apodittico malanimo, si alternano ad altre e più radicate, nonostante si viva in un contesto nel quale selvaggio non è ormai più chi non capisce, ma chi non vuol capire.
In un mondo che vogliamo codificare a misura delle nostre mobilissime pulsioni, ma con l'ansia di combattere anziché assimilare la diversità, non è più questa che necessita di regole, ma è la regola che finisce per creare nuova diversità. E allora, invece di stimolare il pensiero verso la doverosa accettazione del mondo quale naturale coacervo delle diversità, si preferisce scarabocchiare una regola contingente – sia essa norma di diritto o apologia di una prassi – e stemperarne la superficialità per abbellire gli effetti fatali della nostra colpevole insipienza.
Su questa deriva, dopo secoli e secoli di gratuito vilipendio del più debole, diventa invece problematico criticare Tizia perché è donna, Caio perché è nero, Sempronio perché è basso e così via lungo la strada segnata, a ritmo di umana schizofrenia, da ogni elucubrabile tabù.
Quasi scandaloso diventa anche solo mostrare di aver preso atto di qualità o caratteristiche a volte inconsuete e considerate nel corso del tempo, di volta in volta, germe e motivo del discrimine, ma dimenticando che si può ovviamente criticare una persona anche se essa appartiene – secondo i tempi che corrono – ad una minoranza o risulta comunque parte debole e reietta perché donna, nero, extracomunitario, giallo, occhialuto, gay, capellone o basso. E nel frattempo diventa consentito o addirittura doveroso lanciarsi con violenza nei confronti degli ultimi arrivati, i nuovi diversi.
Ma anche le peggiori invettive sono, il più delle volte, originate da cose assai semplici. Ed è ovviamente lecito avere opinioni sul cattivo operato di chiunque, o istintiva antipatia per chiunque o semplicemente constatare l'altrui pochezza senza alcun intento discriminatorio. E sì, perché tutti commettono errori ed orrori, indipendentemente dal fatto che siano iscritti ad una superata minoranza o alla minoranza del momento.
Ben venga, quindi, la libertà di mente necessaria per stigmatizzare, anche ferocemente (se si ritiene che lo meriti) chiunque. Che sia uomo o donna, basso o nero o a qualsiasi possibile minoranza appartenga. E in particolare che si critichi la vasta gamma di coloro che, per passata frustrazione, spirito di rivalsa e talvolta in perfetta malafede, sfruttano la propria conveniente e forse un tempo innominabile minorità. Purché si critichi sempre e comunque l’uomo e non – generalizzando – la sua condizione.
Che si critichino, quindi, costoro con tutti gli altri per quel che fanno e non per come sono. Questione, quest’ultima, incidentale, il più delle volte irrilevante ed inutile. Quanto inutili, in un contesto più consapevole – come quello vantato nel terzo millennio – sono certe trovate legislative e giornalistiche malamente preordinate ad enfatizzare problemi per confezionare, poi, soluzioni tanto barocche da ascendere a vertici inauditi di ipocrisia.
giovedì, settembre 26, 2013
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