giovedì, agosto 30, 2007

Bavaglio accademico a Finkelstein

Avevo anticipato di sfuggita, pochi giorni fa (v. I dispetti della Lobby), la notizia dello stop virtuale imposto dalla DePaul University all'attività del professor Finkelstein prima della naturale scadenza del suo incarico. L'operazione di boicottaggio da parte della cattolica università DePaul di Chicago è stata resa nota ufficialmente due giorni dopo con la pubblicazione - da parte di Finkelstein - di una lettera di censura rivolta al medesimo istituto dall'AAUP (American Association of University Professors). L'organizzazione, che tutela il corpo insegnante nelle università, ha già preso più volte posizione in favore di Finkelstein e da ultimo, il 27 agosto scorso, ha infatti indirizzato al presidente dell'università, Rev. Dennis Holtschneider, una nuova e recisa richiesta di spiegazioni per l'aggressione subita dallo scomodo accademico di Chicago, in particolare rispetto al diritto - codificato nelle regole base dell'ateneo - di portare a termine il proprio programma di insegnamento per l'anno in corso.


«Vi scriviamo ancora in merito ad una nuova questione di procedura (...) in
relazione ad un messaggio e-mail di venerdì 24 agosto del rettore Ellmut Epp al professor Finkelstein, con il quale gli viene notificata la decisione dell'amministrazione di metterlo in "administrative leave" con stipendio, rilevandolo da ulteriori doveri accademici nel suo ultimo anno di servizio. (Abbiamo saputo che gli è pure stato negato l'accesso al suo ufficio). Secondo il messaggio del rettore l'azione per rilevare il professor Finkelstein dall'ulteriore insegnamento è stata presa "sulla base delle necessità del dipartimento e del collegio e causa del suo comportamento alla fine del quadrimestre primaverile"...»

Il Chicago Tribune ha riferito della nuova ed umiliante operazione di ostracismo dell'istituto cattolico, precisando che, a pochi giorni dall'inizio delle lezioni, le dispense necessarie per il corso di Finkelstein erano già in libreria, gli studenti avevano il programma del corso e lo spazio disponibile a "Scienze Politiche 235 - Uguaglianza nella giustizia sociale", era ormai limitato ai soli posti in piedi. Il quotidiano ha precisato che secondo le norme accademiche un professore a cui sia stata negata cattedra e impiego ha il diritto ad un anno finale di insegnamento all'università che lo licenzia. Il controllo di queste norme è affidato appunto alla AAUP, che può censurare un istituto qualora ricorrano violazioni delle sue regole fondamentali, il che può essere propedeutico ad una causa civile contro l'università da parte di un membro del corpo accademico pregiudicato da tale comportamento.

Secondo Jonathan Knight, direttore del programma dell'AAUP per la libertà accademica e l'impiego, un'università deve al suo membro licenziato ben più di un anno di salario. Ha diritto ad un'aula e presumibilmente ad un ufficio. Ribadisce Knight che un ateneo non può semplicemente chiamarsi fuori ricorrendo all'aspettativa con stipendio. Ha aggiunto che tale provvedimento non può essere preso senza un'udienza salvo i casi di estrema urgenza e che - in questo caso - non risultano sussistere gli estremi per una decisione dell'ultimo minuto da parte della DePaul.

Vi è da aggiungere qui che solo due anni fa - come riferisce il Chicago Tribune - il professor Finkelstein veniva additato come "esempio dell'impegno della DePaul per la libertà di informazione" proprio da parte del presidente, Rev. Holtschneider. Lo stesso chierico che - pur negando per ovvi motivi questa circostanza - palesemente non ha saputo difendere la libertà dell'istituto dalle pressioni dei potentati che hanno eretto a proprio campione l'avvocato e prof. Alan Dershowitz, ormai pubblicamente squalificato (da Finkelstein) per la povertà dei suoi scritti in difesa della violenza dell'apartheid di Israele e della tortura e in strisciante, malcelata adesione all'imposizione di una devastante pax israeliana in Palestina.

Per parte sua Norman Finkelstein ha dichiarato che, piuttosto che una causa, intende opporre la propria disobbedienza civile al provvedimento ed ha aggiunto che, se verrà messo in prigione per questo, inizierà uno sciopero della fame fino a che l'università DePaul non sia tornata in sé. "Nel tribunale della pubblica opinione posso vincere", ha detto Finkelstein, "lasciamo che sia la gente a giudicare". La gente chissà, ma sicuramente gli studenti sono dalla sua parte, come - sembra - la maggior parte del corpo insegnante alla DePaul.

____________________________________
Per approfondire
http://www.normanfinkelstein.com/article.php?pg=11&ar=1190
http://www.normanfinkelstein.com/article.php?pg=11&ar=1191
http://www.insidehighered.com/news/2007/08/27/depaul
http://www.chicagotribune.com/news/local/chi-depaul28aug28,0,7661996.story
http://education.guardian.co.uk/higher/news/story/0,,2158191,00.html

sabato, agosto 25, 2007

I dispetti della Lobby

La martellante operazione di boicottaggio di Alan Dershowitz sembra aver dato i suoi frutti. Proseguono anche le meschinità collaterali al diniego della cattedra a Norman Finkelstein, questione di cui si è già abbondantemente parlato su questo blog (v. Lobby - Negata la cattedra a Finkelstein, Lo scienziato e il professore, Viam sapientiae monstrabo tibi).

A Finkelstein è stata negata l'opportunità di un impiego stabile nella cattolica DePaul University e il suo rapporto con l'istituto cesserà formalmente (di fatto è già cessato) nel 2008. Per il resto i maneggi di Dershowitz sembrano aver ottenuto il solo risultato di promuovere la figura dello scomodo professore nel mondo accademico internazionale. Una straordinaria ondata di solidarietà, anche da parte di eminenti studiosi, quali Avi Shlaim e il compianto Raul Hilberg, da poco scomparso, ha evidenziato il valore di Norman Finkelstein, la sua visione scientifica del problema mediorientale e, viceversa, la pochezza intellettuale messa in atto dall'avvocato Dershowitz nel suo tentativo di riciclare e giovarsi di alcuni scadenti miti sulle origini del conflitto (v. anche in Riciclaggio).

Dei libelli di Dershowitz nei confronti di chiunque abbia una visione a 360° della questione israelo (ebraico) palestinese viene fatta quotidianamente giustizia nelle piazze (blog) in cui il principe del foro americano accetta in qualche modo il dibattito, senza degnarsi di rispondere ma consentendo - altro non potrebbe fare - che vengano messe rapidamente alla berlina le sue faziose visioni della storia e dell'attualità. Dei suoi scritti e (in particolare del suo Case for Israel) ha già scritto abbastanza, con puntuale documentazione, Norman Finkelstein. Sotto questo profilo bisogna dire, tuttavia, che gli artifizi dell'avvocato Dershowitz tesi a giustificare l'imposizione del suo punto di vista non godono della pregevole fattura e delle assai più sottili infiltrazioni di menzogna e ipocrisia riscontrate tra le righe di altri rinomati scritti, anche italiani, e nella martellante operazione dei media asserviti alla campana filoisraeliana.

Talune meschinità nei confronti di Finkelstein non accennano a diminuire. Di seguito trascrivo un ridicolo gioiellino in tema di boicottaggio all'interno della struttura universitaria DePaul, dove, per converso, gli studenti e buona parte del corpo accademico non mancano di manifestare solidarietà per Finkelstein e sdegno per i vertici dell'istituto che non hanno avuto il coraggio di una decisione (quella sulla cattedra) invisa alla Lobby e ai suoi sicari. Del resto Fink ci è abituato da tempo e al boicottaggio culturale sono assuefatti tutti gli studiosi del Medioriente negli USA che si pongano in qualche misura fuori dal coro. Ne sa qualcosa il prof. Tony Judt e ne sanno parecchio - di recente - i prof. John Mearsheimer e Stephen Walt, autori del documentato saggio critico La Lobby Israeliana, che è da tempo reperibile su internet, è già stato tradotto e pubblicato in Italia (Asterios Editore - Trieste)* ma uscirà in un volume completo solo il 4 settembre negli USA (v. foto). E' facile prevedere che la pubblicazione "in print" dell'opera - dice Finkelstein - scatenerà un bel po' di agitazione negli Stati Uniti. Ma questa è un'altra storia. Passiamo ai semplici dispetti del Preside della DePaul - già portatore delle istanze di Dershowitz nel "processo" accademico contro Finkelstein - leggendo l'umiliante missiva da poco rivolta al professore ostracizzato.

"Prof. Finkelstein, il Professor Budde mi ha fatto sapere che lei ha chiesto dello spazio negli uffici per i suoi libri. Non abbiamo una collocazione per lei nel prossimo anno accademico. Vedrò se potremo renderle disponibile qualcosa ed io o il Professor Budde ci metteremo in contatto con lei la prossima settimana con più informazioni. Nel frattempo lei non avrà accesso al suo vecchio spazio negli uffici. Visto che lei ha lasciato alcuni effetti personali nel suo vecchio posto, potremo discutere un piano per la restituzione [di queste cose] quando la contatterò la settimana prossima. Lei non deve pianificare spostamenti in alcuno spazio degli uffici, poichè questa opzione per lei non è disponibile. La contatterò la settimana prossima con maggiori informazioni". Dr. Charles (Chuck) Suchar - Professor and Dean College of Liberal Arts and Sciences - DePaul University - Vincent dePaul Professor - Office of the Dean
_____________________________________
(*) «Abbiamo scritto “La lobby israeliana” al fine di iniziare una discussione su un soggetto che è diventato difficile da trattare apertamente negli Stati Uniti. Sapevamo di provocare una forte reazione e non siamo sorpresi che alcuni dei nostri critici abbiano scelto di attaccare apertamente i nostri scritti e di travisare di proposito le nostre argomentazioni. Siamo però anche gratificati dalle tante attestazioni di stima che abbiamo ricevuto e dai commenti positivi che sono emersi sui media e nella blogsfera. È evidente che molte persone, inclusi ebrei e israeliani, sanno che è venuto il momento di aprire una discussione seria sul ruolo di Israele nella politica estera americana e sulle relazioni tra questi due paesi. Uno degli argomenti addotti contro di noi è che noi vedremmo la lobby israeliana come una bene organizzata cospirazione da parte degli ebrei. Alcuni sostengono che le “accuse al potere degli ebrei rappresentano una delle più pericolose forme moderne di anti-semitismo”. È una posizione che noi condanniamo e respingiamo nei nostri scritti. Infatti, descriviamo la lobby come una coalizione di elementi individuali e di organizzazioni indipendenti senza un quartier generale. Essa include persone perbene come gli Ebrei e gli ebrei-americani che non rigirano la legge a seconda delle proprie posizioni. La cosa più importante è che la lobby israeliana non è segreta, clandestina; al contrario è apertamente diffusa e sostenuta nei più vari gruppi di interesse politico, dietro a essa non vi è alcun atto illegale o cospiratorio». [John Mearsheimer, insegna Scienze Politiche a Chicago. Stephen Walt, insegna Affari Internazionali alla Kennedy School of Government di Harvard].

_____________________________________
Per approfondire
http://pipistro.blogspot.com/2007/06/lobby-negata-la-cattedra-finkelstein.html
http://pipistro.blogspot.com/2007/06/continua-negli-usa-accompagnata-da-un.html
http://pipistro.blogspot.com/2007/05/viam-sapientiae-monstrabo-tibi.html
http://pipistro.blogspot.com/2007/01/riciclaggio.html
http://www.normanfinkelstein.com/article.php?pg=11&ar=1188
http://www.lemonde.fr/web/article/0,1-0@2-3222,36-753823@51-751866,0.html
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200708articoli/25065girata.asp
http://www.scribemedia.org/2006/10/11/israel-lobby/
http://clients.mediaondemand.net/thedohadebates/index.aspx?sessionid=23&bandwidth=hi

giovedì, agosto 23, 2007

Una cartolina per Ben


(disegno - elaborazione grafica by Danith)

"Ho letto un Ben molto provato. Vogliamo ridargli un pò di fiducia,trasmettergli la nostra vicinanza e solidarietà di italiani cittadini dell'Italia e non di una "italietta" pronta a piegarsi davanti alle stelle e strisce? Scrivete a Benedetto...". (Anna)

Una richiesta di aiuto da Benedetto Cipriani

Ricevo or ora tramite Anna Cellucci, la compagna di Benedetto Cipriani e a cura del legale di Cipriani nel Connecticut, l'avvocato Ioannis (John) A. Kaloidis, una lettera del nostro connazionale, che come ricorderete è stato repentinamente estradato negli USA ed ora è in vista di un processo per omicidio di cui sono stati già evidenziati, anche in questo blog, i contorni quantomeno dubbi ed unilaterali. E il contesto di accesa ostilità scatenatosi nei confronti dell'imputato, visto immediatamente come non americano e dipinto, per quanto lui stesso ci riferisce, come il mafioso italiano. L'avvocato Kaloidis ha specificato, allegando la lettera di "Ben" (v. immagine a lato), che "Mr. Cipriani has asked that the attached letter be forwarded to the Italian press".

Di seguito vi sottopongo immediatamente il testo della lettera di Benedetto Cipriani, che protesta recisamente la sua innocenza e paventa il profilarsi di un processo iniquo. E' una richiesta di aiuto e una dichiarazione di affetto per la sua famiglia, per la sua compagna Anna, per tutti gli italiani.

«Vi ringrazio per il vs aiuto ed interesse nella mia vicenda. Vi prego solo di non lasciarmi solo a combattere questa immane battaglia per la mia vita. Sono stato vittima di un disegno ben preciso e persecutivo già dalle prime battute della mia vicenda. Le dichiarazioni accusatorie delle carte estradizionali non esistevano ecco perchè le rogatorie non furono permesse. I prof. Gaito e Furfaro vi potranno dire delle mie vicende. Adesso sono qui estradato per la "ragion di stato". Vi può essere un giusto processo dove i membri di una giuria sono stati bombardati in continuazione con "il mafioso venuto dall'Italia". E' una guerra razziale. Italiano e mafioso! Ho un intero stato contro di me. Vengo trattato come se fossi un boss mafioso. Non mi fanno parlare con la mia famiglia. I miei avvocati si stanno impegnando ma hanno bisogno di mezzi. E la mia famiglia è finanziariamente dissanguata. Aiutatemi ed aiutatela voi che potete. Spero solo che voi non mi lasciate solo a combattere questa guerra. Le autorità del Connecticut non hanno mai accettato le condizioni del decreto, non mi vogliono far tornare in Italia. Me lo hanno detto appena mi hanno avuto il 13/7. Se io non torno in in Italia in qualsiasi momento vi può essere una revisione e l'applicazione della pena di morte. Aiutate la mia famiglia con una campagna di aiuti. Ufficialmente tramite voi tutti faccio formale richiesta che io voglio tornare in Italia, chiedo quindi l'applicazione delle condizioni imposte dal decreto Castelli. Un saluto particolare a mia madre, mia sorella e famiglia, ad Anna mia fedele compagna che amo ed a cui sono sempre stato innamorato e fedele. Vi amo molto, mi mancate tanto. Aiutatemi, ho bisogno del vostro aiuto, aiutatemi a provare la mia innocenza. Aiutatemi a tornare in Italia». Benedetto Cipriani

mercoledì, agosto 22, 2007

Ghareeb, il racconto di Ed Kinane


Mohammed Hussein Ramadan, detto Ghareeb (straniero), morto sulla strada da Najaf per Baghdad il 20 agosto 2004 mentre accompagnava il nostro Enzo Baldoni verso il medesimo destino. Questo è il racconto di Ed Kinane in occasione di un precedente viaggio a Najaf con Ghareeb. (Ed Kinane - Voices in The Wilderness - Baghdad, October 14, 2003)

PRESS CONFERENCE
Intorno alle 11 del mattino Ghareeb porta me e Neville a Najaf, un viaggio di due ore. Una volta lì ci vuole un'ora per trovare la conferenza stampa. La conferenza è stata spostata dal luogo stabilito, parcheggiamo vicino a una barriera per il traffico nella città vecchia, attraversiamo un isolato lungo la galleria di una strada commerciale, incontriamo parecchi uomini armati verso la moschea principale.
Ghareeb cerca l'ufficio dell'organizzazione di Moktada al-Sadr per avere il permesso e le indicazioni per raggiungere la conferenza stampa. In un vicolo Ghareeb viene perquisito da un gruppetto di uomini armati prima di essere scortato nell'ufficio. Due uomini sono incaricati di accompagnarci mentre andiamo in auto verso il posto stabilito, forse un paio di miglia più in là. Quando arriviamo ci sono parecchi uomini armati a fare la guardia, alcuni sui tetti vicini. Non ci sono autorità in uniforme. Non dobbiamo mostrare alcun documento di identità, né tessera della stampa. Siamo abbassati gentilmente prima di essere introdotti attraverso una porticina in un'abitazione. Ci dirigiamo di sopra fino a un tetto affollato di giornalisti e cameramen. Trovo una sedia su cui stare in piedi. Sia Neville che Ghareeb scattano foto. Non c'è nessuno dei nostri due visitatori di ieri, né riconosciamo alcuna testata americana. In mezzo alla calca, ad un tavolo, siede Sayed Moktada, che si sporge davanti a un banco di microfoni. Capisco solo alcuni frammenti della traduzione e così perdo la sostanza delle sue osservazioni.
Il Sayed ha la barba ed è sui trent'anni. E' il figlio e nipote di famosi clerici shiiti, giustiziati da Saddam. Diversamente dai nostri visitatori di ieri, lui non ha l'aspetto "presidenziale" (o "papale"). Sembra teso. E' seccato quando un giornalista gli chiede se il suo nuovo governo costringerà le donne ad indossare il velo. Risponde che ognuno - ebrei, cristiani e musulmani - dovrebbero rispettare le proprie tradizioni. Continua ad agitare il dito indice. Probabilmente sta montando un cavallo che non può controllare. Mi chiedo per quanto tempo rimarrà vivo.
Più tardi, quando chiedo a [....], non sciita, che tipo di uomo sia Moktada, lui dice: "E' un killer, a capo di assassini".
KARBALA ROAD BLOCKS
Ghareeb vuole andare a Karbala, che è più o meno sulla via del ritorno per Baghdad. Non troppo lontano da Karbala incappiamo in un blocco stradale, circa una dozzina di soldati in fila attraverso l'autostrada. La coda delle auto fermate arriva ad una novantina di metri dai soldati. Siccome sono l'unico "gringo" nella folla, Ghareeb mi suggerisce di parlare con i soldati. Neville si offre di raggiungermi, ma Ghareeb pensa sia meglio che io vada da solo.
Mi avvicino di qualche metro. I soldati sono tesi. Con sempre più automobili che si avvicinano ogni minuto, sono in un pasticcio e non hanno idea di come venirne fuori. Faccio una domanda, ma non vogliono fornire risposte. Dico loro che vogliamo solo passare per andare verso Baghdad. Dicono che tutte le strade dentro Karbala sono bloccate, forse per due o tre ore. Chiedo che sta succedendo. Mi dicono che non ne hanno idea. Capisco che parte della loro tensione deriva dal fatto che parlano a stento l'inglese. Chiedo chi siano. Uno risponde indicando un tizio e poi l'altro "è un soldato, è un soldato, è un soldato". Quando un altro soldato lo chiama, capisco che questi uomini devono essere polacchi. In che situazione infernale sono! Se capiscono solo po' di inglese, probabilmente capiscono molto meno l'arabo. Eppure si sono ficcati in Iraq tra gente ben armata che li vede come invasori. Non è stato molti anni fa che i polacchi stessi sono stati occupati. Mi dicono che devo tornare indietro, allontanarmi da loro. Hanno paura che altri, vedendomi, si avvicinino a loro. Ritorno da Nev e Ghareeb.
Ci dirigiamo indietro giù per l'autostrada per un po' prima di girare in una strada sterrata. Raggiungiamo una fila polverosa di veicoli che aggirano il blocco stradale. Un camion è caduto in un fosso per l'irrigazione bloccandoci parzialmente la strada. Ghareeb ci fa uscire dall'auto prima di lanciare il motore per oltrepassare il camion senza finire a nostra volta nel fosso. Andiamo con la colonna alcune centinaia di metri prima di tornare sull'asfalto. Lungo l'autostrada possiamo giusto vedere i soldati polacchi, le loro schiene verso di noi. Ben presto oltrepassiamo dei poliziotti iraqeni, ci fanno cenno di andare avanti.
A Karbala Ghareeb sbriga i suoi affari e ci dirigiamo fuori dalla città solo per essere fermati ad un blocco stradale americano. Ci spostiamo verso un'altra direzione. Quando ci fermiamo per aggiungere un po' d'olio dei freni Ghareeb sente che più presto oggi la fazione sciita di Sistani, insieme alla fazione sciita di Hakim, hanno combattuto contro la fazione sciita di al-Sadr, scambiandosi l'un l'altra colpi di mortaio dai loro quartier generali di Karbala.
Continuiamo a viaggiare, ma veniamo fermati nuovamente, da un ponte bloccato. Aggirarlo ci conduce sulla vecchia strada per Baghdad attraverso miglia e miglia di lussureggianti piantagioni di datteri su entrambi i lati della strada, un aspetto dell'Iraq che avremmo perso se fossimo rimasti sulla strada principale.

Tutte queste ore sulla strada mi hanno aiutato a vedere Ghareeb in una nuova luce. Neville mi ha lasciato viaggiare nel sedile anteriore all'andata e al ritorno. Ghareeb è alle prese con un attacco di "influenza di Baghdad" e uno dei sintomi è il bruciore agli occhi. E' contento di parlare per rimanere attento. Lo porto a parlare della sua famiglia. Vien fuori che Ghareeb è una specie di soprannome che gli ha dato sua madre. Il suo vero nome è Mohammed Ramadan. Quella dei Ramadan è una tribù con migliaia di persone disperse in tutto il Medioriente.
Ghareeb dice che suo padre, di 67 anni, vive in Palestina dove ha delle proprietà. La famiglia ha investimenti in tutto il Medioriente. Il padre di Ghareeb è il capo della tribù dei Ramadan. Il fratello maggiore di Ghareeb succederà al padre quando questi verrà a mancare. Ghareeb è il successivo nella linea dopo suo fratello. Ghareeb dice di essere stato educato per essere un capo. Questo lo ha reso differente dai suoi compagni, non è necessariamente un destino facile per una persona così socievole. Sia lui che suo fratello sono piloti, il fratello ha un brevetto per gli aerei, Ghareeb per gli elicotteri. Un altra volta mi accennò di avere il brevetto per le auto da corsa.
Chiedo a Ghareeb cosa significa essere educato per essere un capo. Dice che significa che devi sempre aiutare chi ha bisogno. Devi sempre sacrificare le tue risorse per gli altri. E questa etica non è limitata nei confronti dei soli membri della tribù. Sembra essere una persona insolitamente premurosa. Qualche volta mi sento adottato da lui.
Il compito di Ghareeb, oggi a Karbala, era quello di controllare la situazione della donna che era venuta a Voices (in the Wilderness) per cercare un aiuto economico presumibilmente per un'intervento per il suo bambino. Mentre quella storia non salta fuori (avevamo controllato con l'ospedale nuovamente oggi) Ghareeb mi spiega che qualche volta devi penetrare nella rete di bugie di una persona per arrivare alla disperazione che la guida. Ghareeb è veramente un principe.
Ma è un principe senza una terra. Ora ha un visto per il Ghana. Andrà là o si tratterrà per cercare di andare in Canada? (Deve essere l'unico Ramadan in Iraq, ma ce ne devono essere alcuni in Canada). L'ultima destinazione è quella di tornare dalla sua famiglia in Palestina. E' stato via dalla Palestina per tanti anni e ne ha nostalgia. Parla della Palestina con orgoglio. "In Palestina non ci sono sciiti, né sunniti. I palestinesi sono gente sofisticata in un modo che non può essere trovato altrove in Medioriente".

giovedì, agosto 16, 2007

Notizie dal circo americano

Christians United for Israel (CUFI), quattromila partecipanti alla sua seconda Convention annuale a Washington tra il 16 e il 19 luglio scorsi, raccoglie consensi tra i senatori candidati alle presidenziali e influenza il Congresso degli Stati Uniti, rappresenta circa un quinto dei 75 milioni di cristiani evangelici negli USA e quindi una quindicina di milioni di persone. Si propone come associazione non-profit, i cui fondi sono usati per educare la comunità cristiana sulle ragioni bibliche per cui i cristiani dovrebbero sostenere Israele. Il suo sistema è vicino e i suoi programmi si rispecchiano in quelli dell'American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) - che si auto descrive come la Lobby d'America pro Israele - e della destra israeliana. L'agenda di questi enti si può sintetizzare oggi come segue: strangolare le aspettative nucleari iraniane anche con l'uso della forza militare, sbarazzarsi degli Hezbollah, fornire aiuto militare a Israele. L'organizzazione affronta il visitatore virtuale con uno sproloquio che riassume le fondamenta del suo pensiero in un incredibile gagliardetto integralista: "La Bibbia ci ordina di pregare per la pace di Gerusalemme (Salmi 122,6), a proclamare la salvezza di Sion (Isaia 62,1), ad essere guardiani delle mura di Gerusalemme (Isaia 62,6) e a benedire il popolo ebraico (Genesi 12,3). Questi e tanti altri versi della Bibbia portano un messaggio fondamentale, come cristiani abbiamo un obbligo biblico di difendere Israele e il popolo ebraico nel loro momento del bisogno". Il divino potpourri profetico e politico che ha suggerito a questi cristiani sionisti di darsi un nome, che - come si suol dire - non sta né in cielo, né in terra, imporrebbe poi agli stessi signori un'azione concreta (e molto politica) adatta a favorire il verificarsi delle profezie nella fanatica attesa della seconda venuta del Messia e dell'Armageddon, ma tutto questo solo nel preconizzato momento in cui gli ebrei, già tutti riuniti in un fantasioso ipertrofico Israele esteso dal Nilo all'Eufrate, verranno quasi interamente e profeticamente distrutti, salvo pochi di essi che, altrettanto profeticamente, saranno convertiti ad una forma di cristianesimo.

Non è chiaro come intendano cavarsela i sedicenti cristiano-sionisti con i loro sodali neo-grandi-israeliani, poichè allor che si compia la profezia essi dovrebbero essere necessariamente cancellati e i pochi rimasti convertiti, né è facile immaginare con cosa pensino di riempire una mitologica Israele che occupi terra dal Nilo all'Eufrate. Ma nel frattempo certamente intendono impegnarsi alacremente nei compiti che si sono assegnati con l'allucinato proclama emesso dal Terzo Congresso Cristiano Sionista Internazionale di Gerusalemme del febbraio 1996, primo fra tutti la difesa del contratto immobiliare divino, ivi descritto con precisione notarile ("According to God's distribution of nations, the Land of Israel has been given to the Jewish People by God as an everlasting possession by an eternal covenant. The Jewish People have the absolute right to possess and dwell in the Land, including Judea, Samaria' Gaza and the Golan") pur omettendo imperdonabilmente di considerare, in questo affrettato breviario, le Shebaa Farms e l'acqua libanese.

Per quanto occorrer possa e inerpicandosi nei disegni divini il minimo indispensabile (la cosa è imbarazzante in un'ottica anche solo vagamente agnostica, ma è necessitata dalla autodefinizione di questi clown quali cristiano-sionisti), leggiamo le prime poche parole della Dichiarazione di Gerusalemme, compilata dal Patriarca cattolico latino e dai capi delle chiese locali con riferimento al programma e al proclama: "il Cristiano-sionismo è un movimento teologico e politico moderno, che abbraccia le posizioni più estreme del Sionismo, così nuocendo ad una pace giusta tra Palestina e Israele. Il programma Cristiano Sionista fornisce una visione del mondo dove il Vangelo è identificato in una ideologia imperialista, colonialista e militarista. Nella sua forma estrema enfatizza gli eventi apocalittici che portano alla fine della storia, piuttosto che a vivere l'amore e la giustizia di Cristo oggi. Rigettiamo categoricamente le dottrine Cristiano Sioniste come falsi insegnamenti che corrompono il messaggio biblico di amore, giustizia e riconciliazione ...".

Ho detto prima "per quanto occorrer possa". E' infatti storia che si voglia far discendere le miserie umane da improbabili disegni superiori, ma, in questo caso, il movimento non gode neppure di quel minimo di serietà per cui valga la pena di scomodare gli dei e trattare - su un piano teologico - ciò che agli dei l'uomo stesso ha messo in bocca o nella penna al soldo delle più svariate bandiere, per giustificare ed alimentare la propria inguaribile rapacità.

lunedì, agosto 13, 2007

La truffa del processo di pace in Medioriente

«Quando Ehud Olmert e George Bush si sono incontrati alla Casa Bianca, in giugno, hanno concluso che l'esautorazione violenta di Fatah da parte di Hamas a Gaza - che ha annullato il governo di unità nazionale palestinese patrocinato dai Sauditi alla Mecca in marzo - aveva dato al mondo una nuova 'finestra di opportunità' (mai un processo di pace fallito aveva goduto di tante finestre di opportunità). L'isolamento di Hamas a Gaza - concordavano Olmert e Bush - avrebbe consentito di assicurare concessioni generose al presidente palestinese Mahmoud Abbas, offrendogli la credibilità di cui aveva bisogno davanti al popolo palestinese per prevalere su Hamas. Sia Bush che Olmert hanno discusso a non finire sul loro impegno per una soluzione 'a due stati' del conflitto israelo palestinese, ma è la loro determinazione a distruggere Hamas piuttosto che a costruire uno stato palestinese, che anima il loro rinnovato entusiasmo nel far sì che Abbas appaia quello buono. Ecco perchè la loro aspettativa che Hamas venga sconfitto è illusoria. I moderati palestinesi non prevarranno mai su quelli considerati estremisti dal momento che ciò che viene considerato moderazione per Olmert è l'acquiescenza palestinese allo smembramento del proprio territorio da parte di Israele. Alla fine quello che Olmert e il suo governo sono disposti ad offrire ai palestinesi verrà respinto da Mahmoud Abbas non meno che da Hamas. Ugualmente illusorie sono le aspettative di Bush in merito a ciò che verrà raggiunto con la conferenza da lui recentemente annunciata per l'autunno prossimo (adesso la conferenza è stata degradata ad 'incontro'). Secondo lui tutte le passate iniziative di pace sono fallite in gran parte, se non esclusivamente, perchè i palestinesi non erano pronti per un loro stato. L'incontro si focalizzerà quindi strettamente sulla costruzione e la riforma delle istituzioni palestinesi sotto la tutela di Tony Blair, il neoaccreditato inviato del Quartetto. Nei fatti tutte le passate iniziative di pace non sono approdate a nulla per un motivo che, né Bush, né l'Unione Europea, hanno avuto il coraggio politico di riconoscere. Il motivo è il consenso raggiunto tanto tempo fa dall'establishment israeliano sul fatto che Israele non consentirà mai la nascita di uno stato palestinese che ostacoli l'effettivo controllo militare ed economico israeliano nel West Bank. Certamente Israele consentirebbe - meglio, insisterebbe con - la creazione di un certo numero di enclavi isolate che i palestinesi potrebbero chiamare stato, ma solo al fine di prevenire la creazione di uno stato binazionale in cui i palestinesi avrebbero la maggioranza. Il processo di pace in Medioriente potrà ben essere l'inganno più spettacolare nella storia della diplomazia moderna, dal momento che al fallimentare summit di Camp David e nei fatti assai prima, l'interesse di Israele in un processo di pace - diverso da quello di ottenere il consenso palestinese ed internazionale al mantenimento dello status quo - è stato un copertura per la sistematica confisca di terra palestinese e per un'occupazione il cui scopo, secondo l'ex capo di stato maggiore Moshe Ya'alon, è quello di 'inserire profondamente nella coscienza dei palestinesi il fatto che essi sono un popolo sconfitto'. Nel suo riluttante abbracciare gli accordi di Oslo e nella sua avversione per i coloni, Yitzhak Rabin sarebbe potuto essere l'eccezione, ma anch'egli non considerava possibile una restituzione dei territori palestinesi oltre quanto previsto nel cosiddetto Piano Allon, che consentiva ad Israele di trattenere la Valle del Giordano ed altre parti del West Bank...». [Henry Siegman - The London Review of Books - Vol 29, dd. 16 agosto 2007]

Sarebbe incredibile se, nonostante il proliferare di piani, conferenze, processi e percorsi di pace, la soluzione della questione israelo (ebraico) palestinese - essenzialmente 'non complicata' secondo il diritto internazionale ed umanitario - non sortisse alcun risultato, senza una spiegazione altrettanto chiara e semplice, dettata dal rifiuto spontaneo o coatto di vedere l'iniquità di una situazione che il contributo degli agenti internazionali occidentali ha originato e non vuole riconoscere. Il prenderne atto non giustifica certo l'ignoranza e la sufficienza con cui gli stessi agenti colpevoli si accostano al problema (con la inutile e rassegnata levità di un ramoscello d'olivo o l'arroganza di chi confida nella propria posizione di forza e vede, sbagliando, la possibilità di sfruttare a tempo indefinito un 'vantaggio' che la storia insegna altro non può essere che contingente), ma suggerisce l'esistenza di un imprescindibile punto di partenza, negato o avversato da molti, soffocato da altri nella retorica, nell'insipienza, nella malafede. Come sempre accade, infatti, il 'pre-occuparsi' di un problema risulta un comodo alibi per non 'occuparsene', in attesa di tempi migliori che non arrivano mai o - nell'ambito specifico - dell'opportunità ormai codificata e recepita in ogni dirigenza israeliana, di raggranellare ancora un po' di vantaggio (terra, posizione, acqua) sulla pelle degli occupati e loro sodali.

Risulta pertanto insopportabile vedere come il peccato originale israeliano, costituito dalla violenta appropriazione di terra altrui con il peloso benestare di quella parte del vecchio continente che scelse di non essere assassina per rimanere colonizzatrice, possa essere perpetuato e coccolato solo grazie a due precondizioni di fatto: il supposto debito morale europeo sopravvalutato in progressione esponenziale; l'altrettanto enfatizzato e virtuale interesse degli USA nella regione. Qualcuno sostiene, inoltre, probabilmente a buona ragione, che questo interesse americano non esista (o non esista più) ma venga oggi spudoratamente concimato dall'azione indefessa della lobby filoisraeliana. E che questo ultimo pensiero colga nel segno è dimostrato dalla violenta (ma sempre più scomposta) 'reazione' dei potentati filosionisti USA e, per quanto di loro pertinenza, europei, nei confronti di chi abbia l'ardire di teorizzare che la quantità di cattiva coscienza israeliana nei territori occupati, sia direttamente proporzionale - cioè proceda di pari passo - da un lato con la proclamata, fasulla reviviscenza di fenomeni di nuovo antisemitismo, dall'altro con un rinnovato allarmismo circa la sopravvivenza stessa dello stato ebraico. Illustrando con semplicità questa situazione, Alexander Cockburn rammenta che «nei vent'anni passati ho imparato che c'è un modo rapido per determinare esattamente quanto si sta comportando male Israele, c'è un vivace incremento nel numero degli articoli che accusano la "sinistra" di antisemitismo».

Ai portavoce sempre più numerosi e autorevoli di doveroso rimprovero e critica della violenza israeliana nei territori occupati fanno infatti e non a caso da immediato contraltare, voci disposte ad abbracciare con grande strepito l'idea di un improbabile rigurgito di odio 'razziale', comodamente indirizzato, per l'occasione, verso il sacrosanto disgusto per un comportamento politico, sociale, militare, qualificato iniquo secondo ogni regola o convenzione. Vista la palese inopportunità di discorrerne nel mondo occidentale in anacronistici termini di razza, di costumi o di religione, la vecchia accusa di antisemitismo viene quindi abbastanza agevolmente accomodata verso chi critichi il comportamento dello stato ebraico. Il gioco è fatto, l'antisionismo diventa antisemitismo, Israele diventa, così, 'l'ebreo delle nazioni' e allo stesso modo può avvampare l'insopportabile, truffaldino allarmismo di chi vorrebbe individuare nelle critiche aspre ma legittime, la ratificazione o la connivenza con una minaccia esistenziale diversa da quella a cui proprio le operazioni dello staterello teppista e militarmente ipernutrito forniscono il detonatore.

Al nuovo percorso-truffa ideato dall'establishment filo-israeliano, con ciò intendendo comprendere sia la dirigenza USA, ricattata dalla Lobby e rafforzata dall'ignoranza, sia quella europea, ricattata dalla paura e da un anacronistico ed ormai male indirizzato senso di colpa, è quindi inutile rispondere con ulteriori teorie o criticare senza costrutto - come tuttavia viene spontaneo - l'insipiente prosopopea delle scadenti pedine nostrane sulla questione mediorientale, quanto utile è tornare ai fatti, i pochi fatti certi che il diritto con tutti i suoi limiti ci concede e la legittimità internazionale impone, e pretendere la doverosa considerazione di quanto rappresentato da pochi semplici numeri registrati alle Nazioni Unite: 181, 194, 242, 338. Non sono da giocare al lotto e si può dunque pretendere da coloro che parlano in nostro nome e non sempre degnamente ci rappresentano che abbiano almeno idea di cosa si tratti.

martedì, agosto 07, 2007

La guerra di Piero

Il 25 luglio scorso scrivevo che neppure Abu Mazen (Mahmoud Abbas) avrebbe avuto la faccia tosta di riproporre alla sua gente l'ennesimo "piano" annacquato di pace che - nelle parole stesse del primo ministro israeliano Olmert - non sembra scostarsi dallo sciagurato sentiero percorso a Oslo. Ebbene, mi sono sbagliato, ma non sulla risibile riedizione della proposta di pace degli occupanti e dei loro protettori d'occidente, bensì sul fatto che Abu Mazen si è aggrappato anche stavolta alle chiacchiere, le uniche suscettibili di mantenergli le terga saldamente ancorate alla poltrona collaborazionista ma personalmente tranquillizzante che tanta parte ha avuto nel tracollo di Arafat. Ma non è solo di Abu Mazen la pelosa condiscendenza alla barzelletta patrocinata da Bush & clienti.

Dopo la scenografica discesa in Medioriente di Tony Blair, che allo stato ha mostrato solo il manto al vento, il cavallo bianco e le parole vuote di un principe azzurro da operetta, ci tocca subire oggi le uscite domestiche e addomesticate di Piero Fassino, probabilmente più impegnato o istruito ad enfatizzare ad ogni piè sospinto il fatto che le sue parole sono lo specchio del pensiero dei suoi "vecchi amici israeliani" (mettendo in un unico improbabile calderone: Yossi Beilin, Shimon Peres e Ehud Barak) che a leggere quello che il suo "nuovo" amico Olmert ha dichiarato solo il 25 luglio scorso sui punti fermi israeliani di questa bufala, tipica, da fine mandato inglorioso di un presidente USA. Un presidente stavolta troppo stupido per lasciare stare i proclami e dedicare le sue ultime forze alle disinvolte attenzioni di una qualsiasi Lewinski.

Tant'è, il nostro Fassino nazionale si schiera contro ogni apertura ad Hamas (che incidentalmente gode dell'appoggio incondizionato di buona parte del popolo palestinese, che lo ha eletto), pasticcia con i fatti di Gaza e se ne esce con questa perla, suggeritagli - dice - dai suoi (vecchi e nuovi) amici Peres e Tzipi Livni: "mi hanno spiegato la filosofia che accompagna i preparativi della conferenza. Sostengono che il processo iniziato a Oslo nel 1993 sia fallito anche perché si era deciso di rinviare all'infinito i problemi più complicati. Sono almeno cinque: il futuro di Gerusalemme, i confini dello Stato palestinese, l'amministrazione delle risorse idriche, la questione dei profughi palestinesi e quella delle colonie ebraiche in Cisgiordania. Adesso invece verranno affrontati di petto sin da subito».

Ahia, Piero, forse tra amici non si sono parlati! E' ben diverso, infatti, quello che ha dichiarato una decina di giorni fa l'amico (nuovo) Ehud Olmert secondo Ha'aretz (è un noto quotidiano israeliano, Piero, talvolta da leggere): "La proposta di Olmert ad Abbas è basata sulla sua visione del fatto che è importante prima discutere questioni ove le due parti potrebbero concordare in modo relativamente facile". Ricorda niente? Tipo Oslo? Vabbè, così proseguono le dichiarazioni del PM israeliano secondo l'autorevole giornale israeliano: "Intendo creare una traccia che mi consentirà di intrattenere serie discussioni con Abu Mazen [...] dopo un "Accordo sui Principi", le due parti affronteranno le questioni diplomatiche più delicate, come i confini definitivi e gli accordi transitori [...] Nella visione del primo ministro, non è ancora tempo per trattare i dettagli precisi dell'accordo, perchè sarà molto difficile raggiungere un'intesa sullo status finale, come i confini, Gerusalemme e i rifugiati. Queste cose, Olmert propone, dovrebbero essere lasciate alla fine dei negoziati. Vorrebbe raggiungere un accordo sui principi e quindi procedere con le questioni più difficili".

Ma un assaggio del pensiero israeliano sulle questioni "difficili" lo abbiamo subito. Olmert ce lo propone in forma assolutamente chiara, parlando di "scambio di territori per compensare i grossi [sic] blocchi di insediamenti che rimarranno sotto controllo israeliano nel West Bank". E ancora: "I palestinesi potranno dichiarare [sic] Gerusalemme loro capitale", ma Ha'aretz sottolinea che "nel passato Olmert ha suggerito che sarebbe disponibile ad evacuare i sobborghi arabi "sul margine" di Gerusalemme Est, che non sono mai stati considerati parte della città storica".

Blocchi nel West Bank e Abu Dis... Ricordi niente Piero? Tipo che sia il caso di riprendere in mano un libro su Oslo, l'insuccesso e i suoi perchè, invece di ascoltare i suggerimenti degli amici? Ma prima che la frittata sia rifatta anche per merito tuo, per merito europeo, cioè nostro. Fermati Piero, fermati adesso, lascia che il vento ti passi un po' addosso... ♪

_________________________________________________
Per approfondire:
Meron Benvenisti - Beware of Oslo's destructive route
Mitchell Plitnick - Gaza: Can Disaster Be Avoided?
Nadia Hijab - How US Middle East Policy Continues to Undermine the “Moderates”
Ali Abunimah - Division among Palestinians
Ahmed Yousef - What Hamas wants
Carter calls western rejection of Hamas's election victory criminal act
PFLP: Bush and Olmert use Abbas's weakness to impose solutions

Noam Chomsky - Guillotining Gaza
Barak: Missile defense is precondition for pullout

giovedì, agosto 02, 2007

Palestine, please not apartheid

Apartheid, "separazione" in lingua afrikaans (origine o significativa assonanza con l'inglese apart-hood), era la politica ufficiale di segregazione razziale formalmente adottata dal governo bianco della Repubblica del Sudafrica nei confronti dei neri dal dopoguerra fino al 1990. Consisteva in discriminazioni sociali, politiche, legali ed economiche nei confronti dei neri e nella istituzione dei bantustan, enclave solo formalmente indipendenti dove confinarli. Le tracce del trascorso apartheid in Sudafrica sono venute meno con le elezioni del 1994. Nel 1973 l'apartheid - diventato termine comune - è stato proclamato crimine internazionale dall'ONU e nel 1976 la "International Convention on the Suppression and Punishment of the Crime of Apartheid" lo ha incluso nella lista dei crimini contro l'umanità.

Lo sfruttamento del debito morale dell'Occidente, scaturito dagli orrori della Shoah e gravato di interessi in progressione esponenziale in favore dello Stato di Israele, ma soprattutto una guerra mediatica surrettizia e senza esclusione di colpi e molta disinvolta ignoranza hanno consentito la perpetuazione di una situazione di apartheid nei Territori palestinesi occupati. Finora. La connivente indifferenza politica della vecchia Europa, il sostegno degli USA e dei suoi clienti (la cui collaborazione e il cui voto in sede ONU può essere agevolmente comprato a vario titolo ad opera dell'amico americano) non sono infatti più sufficienti a mantenere una benda sugli occhi del mondo, né oggi un bavaglio capace di limitare l'enorme potere della comunicazione immediata e documentata su scala globale. In particolare è stato lapidariamente affermato che la generale percezione del conflitto israelo palestinese - soprattutto negli USA ma in minor misura anche in Europa - è filtrato da una rete di spudorata disinformazione che, grazie al mainstream mediatico e - aggiungerei - a mala fede e molta superficiale nonchalance, diffonde miti martellanti come se fossero realtà e annichilisce il dibattito. Nulla di nuovo, quindi, e non ci sarebbe bisogno di scomodare autorevoli rapporti ed analisi per sostenere che la questione è stata tollerata o sfruttata a livello politico o strategico internazionale ed indotta ad essere ignorata o fraintesa fino ai giorni nostri a livello popolare. Un gioco che funziona ma, appunto, se non se ne parla troppo.

Gli è che ormai se ne parla. In un dossier dell’Onu datato 29 gennaio 2007 il funzionario sudafricano John Dugard, pur con la levità di una farfalla, osa scrivere che «è difficile evitare la conclusione che molte delle leggi e delle prassi d’Israele violano, soprattutto nella limitazione dei movimenti dei palestinesi, la convenzione internazionale del 1973 per la soppressione e la punizione del crimine dell'apartheid… Le demolizioni di case in Cisgiordania e a Gerusalemme est vengono attuate in un modo che discrimina contro i palestinesi… Nell’intera Cisgiordania, e in particolare a Hebron, ai coloni è concesso trattamento preferenziale sui palestinesi per quel che riguarda il movimento (le strade principali sono riservate ai coloni), i diritti di costruzione, la protezione dell’esercito e le leggi per la riunificazione familiare». [L'Unità]

Il mantenimento di questa situazione risulta poi, oltre che assolutamente riprovevole sotto il profilo umanitario, sociale e morale, naturalmente destinato a fallire nei fatti (*). Solo mantenendo una situazione palesemente iniqua, autorizzata dal silenzio dell'Occidente e favorita dallo spudorato sostegno USA, lo stato di Israele può difendere una "identità sociale" che il galoppante squilibrio demografico non consente e che non sarebbe consentita - politicamente - ad alcun altro paese membro della comunità internazionale che fosse intento ad una strisciante operazione di espansione e pulizia etnica su suolo occupato.

Un'operazione che è stata finora possibile, come si è detto, purchè non se ne parli troppo. Purchè il problema, cioè, non si diffonda sino al livello del comune sentire globale. Quello che ha a suo tempo costretto tutta la comunità internazionale ad isolare il Sudafrica. Per questo, dell'ultimo libro dell'ex presidente americano Carter, il tam tam mediatico filo israeliano ha aggredito più che la "tiepida" descrizione di una situazione arcinota, l'autore e il titolo, autorevole il primo, diretto e illuminante l'ultimo: "Palestine, peace not apartheid". Una definizione e un autore in grado di nuocere alla patologia sionista più di mille analisi per gli addetti ai lavori. E ciò nonostante il fatto, arcinoto, che - come ha dichiarato Yossi Beilin - «quello che Carter dice nel suo libro sull'occupazione israeliana e sul trattamento che riserviamo ai palestinesi nei territori occupati - e forse non meno importante il modo in cui lo dice - è interamente in armonia con il tipo di critica che gli stessi israeliani usano riguardo il loro stesso paese. Non c'è nulla nella critica di Carter nei confronti di Israele che non sia stato detto dagli stessi israeliani». [Yossi Beilin, The Jewish Daily Forward, 19 gennaio 2007]

________________________________________________________
(*) «...E' possibile che in futuro il tasso delle nascite da donne musulmane scenda al livello di altri settori sociali in Israele, ma per quel momento ci potrebbe essere un cambiamento sostanziale nel "peso" della popolazione musulmana, che crei una reale minaccia demografica al carattere dello Stato [...] L'emendamento alla Legge sulla Cittadinanza, che ha negato lo stato di residente e cittadino alle mogli palestinesi di cittadini israeliani, non è "carino" ed è materia di preoccupazione per i difensori dei diritti civili. Ma considerando la minaccia demografica, i diritti civili e le considerazioni liberali devono essere sospesi nello sforzo di agire secondo le regole: gli ebrei hanno il diritto di sposarsi e di sistemarsi nella loro terra, gli arabi hanno diritto di sposarsi e di sistemarsi in una terra che rappresenti la loro identità nazionale. Anche gli stati occidentali che propugnano il liberalismo e i diritti civili, sono stati costretti ad arrendersi alla minaccia demografica e ad imporre limiti all'ingresso di cittadini stranieri». ["Lo spaventapasseri demografico" di Avraham Tal - Haaretz]