sabato, dicembre 26, 2020

Ipotesi

 
Guess – Compute consequences – Compare to experiment and see if it works (Richard Feynman)


Una di quelle cose non necessariamente utili che ti passano per la testa quando ti chiedi quanto diavolo pesa un ipercubo.

Immaginare il punto adimensionale significa individuare sul piano una mera posizione. Trascinare poi idealmente il punto sullo stesso piano fino a derivarne un segmento di linea retta costituito di sola lunghezza, è una convenzione. Cioè, un artifizio matematico utile a rappresentare figure geometriche ideali nel mondo reale.

Così, per esempio, il volume di un cubo unitario, di spigolo 1, viene costruito trascinando il punto “di partenza” nelle tre dimensioni conosciute. Ciò è a dire che originando da un punto che è una semplice collocazione nello spazio (o nel piano), si può derivare un segmento privo di spessore e qualificato come distanza tra due punti, cioè costituito dalla sola lunghezza virtuale n e successivamente ricavare un quadrato, altrettanto privo di spessore, di lato n.

Nella geometria classica si immagina infatti di “tirare” un ente adimensionale, il punto, fino a ricavarne una entità geometrica (linea o segmento) definita dalla sola lunghezza  quantificata numericamente n, per poi eventualmente ricavarne un quadrato di superficie convenzionale n2 sul piano e infine un cubo di volume n3 nello spazio.

La consistenza sul piano e successivamente nello spazio delle figure così delineate (punto, segmento, quadrato) è puramente virtuale. Questo perché non è comprensibile, né calcolabile, la massa di un punto che non ha dimensioni, così come di una linea costituita dalla sola lunghezza. Né quella di un quadrato dotato di due sole dimensioni, che consiste, cioè, in una mera estensione sul piano.  

Queste figure sono astratte e prive di massa. E di conseguenza sarebbe altrettanto evanescente la quantità di materia (massa/peso) del cubo tridimensionale che matematicamente se ne può derivare.

Della figura tridimensionale così idealizzata e rappresentata da un volume è infatti impossibile immaginare la massa. Cioè, ci dovremmo chiedere prima quanto pesa un punto virtuale, o una linea ad una sola dimensione e poi qual è il peso delle infinite superfici virtuali quadrate necessarie a comporre un cubo immaginario. (TAB A)

Inventiamoci allora innanzitutto un punto materiale “pesante”, cioè un macroscopico “quanto” la cui massa minima, sia l’unità. Un oggetto per noi tridimensionale, che per comodità di calcolo assumiamo di forma cubica, che abbia spigolo 1 e massa 1. Idea che peraltro va d’accordo con la granularità della natura.

Dal nostro punto “di partenza” (che vediamo quindi come un piccolo cubo, per esempio, del peso di un chilo), possiamo poi costruire un oggetto, che considereremo bidimensionale, ma già dotato di massa, che chiameremo comunque “segmento” e che visivamente sarà costituito dalla somma di due cubi contigui. Sarà, cioè, un piccolo parallelepipedo di spessore 1, lunghezza 2 e massa 2.

Dal segmento come sopra indicato, potremo poi derivare un quadrato di spessore 1, superficie n2 (4) e corrispondente massa m2 (4) e infine un cubo di volume matematico n3 (8) nel mondo tridimensionale.

Pensando alla consistenza del nostro oggetto nel mondo oltre la terza dimensione percepita, la sua massa non potrà essere quella portata dalle figure ontologicamente appartenenti al solo spazio tridimensionale (in cui al cubo di volume n3 corrisponde massa m3). Dobbiamo quindi immaginare che la sua sostanza (massa/peso) sia adeguata alla sua natura oltre la terza dimensione. E’ infatti intuibile che non solo l’ipercubo cui vogliamo pervenire sia esteso in quattro o più dimensioni, ma che ovviamente lo siano stati anche i cubi unitari minimi (quanti) di partenza, che appartengono sin dall’origine al mondo a quattro, a cinque o a N dimensioni.

Assumiamo quindi che le masse delle unità che andranno a formare l’oggetto destinato nel nostro esperimento alla quarta e successive dimensioni, debbano essere adeguate fin dalle sue componenti minime al mondo a quattro o più dimensioni. (TAB B)

In altri termini, una quarta o quinta o successiva dimensione c’è o non c’è. E se c’è (proprio quello che stiamo ipotizzando), non vi è ragione perché il cubo unitario – cioè il punto “di partenza” – così come le altre figure di transito non siano, esse per prime, estese e quindi “pesanti” quanto suggerisce la loro natura di oggetti della quarta o quinta o successiva dimensione. Natura per noi invisibile e ben difficilmente immaginabile, ma non incommensurabile.

Lanciamo quindi matematicamente il nostro oggetto nella quarta dimensione (n4) e chiamiamo fantasiosamente quantità la sua consistenza/dimensione nel mondo quadridimensionale, cioè quella che non possiamo vedere. Pesiamo poi i quanti/massa che derivano dalle successive operazioni e annotiamo – al passaggio dalla seconda, alla terza e poi alla quarta dimensione – gli aumenti di volume, quantità e massa in modo esponenziale.

Al cubo campione derivante dal quadrato di lato 2 (che diventerà di quantità n4 (16), cioè sedici unità, nella quarta dimensione) corrisponde un ipercubo che ha massa n8 (256) unità.

La progressione esponenziale attivata considerando il rapporto tra dimensione e massa di questo oggetto, ci mostra poi che ad un cubo “n+1”, derivante dal quadrato di lato pari a 3 unità, già proiettato nella quinta dimensione, corrisponde una misura di 81 unità della quarta dimensione e una massa di ben n8 (6,561) unità. Con il passo successivo sino alla quinta dimensione ricaveremo una invisibile quantità virtuale di 35 (243) unità e una massa di 59,046 unità. (TAB C)

E qui ci fermiamo perché è sorprendente immaginare il nostro oggetto/evento a cinque dimensioni in relazione ai metri e ai chili terrestri della parte che possiamo percepire.

Il mostro a cinque dimensioni appena ideato, del quale, tuttavia, come esseri legati al mondo tridimensionale, non potremmo naturalmente vedere e misurare altro che l’apparizione/intersezione (cfr. Edwin A. Abbot, Flatland) di un cubo di tre unità di spigolo e 27 miseri chili di massa, peserebbe invece, data la sua natura, alle condizioni terrestri (gravità) e in stato di quiete, oltre 59 tonnellate.

Non so se è “oscura”, ma sembra un bel po’ di materia. Un vero peccato non poter vedere come è fatta.

(3/7/2020)



Cubo campione (costituito da otto cubi unitari - Rif. Tab B) 

            

Cubo "n+1" (Rubik's Cube - Rif. Tab C)
          

Tesseract  (non badate a me, sono qui perché sono carino)


mercoledì, novembre 25, 2020

La fine del tempo (parte prima)

Dal passato verso il futuro, dalla nascita alla dissoluzione della morte. Motivo di angoscia per l’animale uomo e subito di superstizione, religione, rito e rimembranza per esorcizzare la precarietà del fatto biologico.

Pur ragionevolmente certi che nulla nell’universo evapori in nulla, resta il terrore della perdita di soggettività e coscienza che ci ha imposto per millenni l’illusione che il nostro essere fosse molto più di un miscuglio di particelle fortunosamente compattate in forma e sostanza poco diverse da quelle di un sasso.

Abbiamo quindi immaginato di essere destinati all’immortalità senza considerare il fatto che con il sasso abbiamo molte più cose in comune di quelle che ci siamo fatti regalare dalle molteplici divinità psicopatiche costruite con i nostri tratti e più spesso con le nostre passioni, emozioni e paure, aggiungendo - per noi - quella di finire arrostiti se non seguiamo i loro suggerimenti.

E tra esse la paura assoluta del dopo quale elemento intrinseco nella percezione unidirezionale del tempo.

Il tempo quindi abbiamo costruito e del tempo e della sua direzione abbiamo teorizzato innumerevoli tracce. Tante da farci ritenere indispensabile la sua considerazione a fianco di ogni cosa. E da ultimo, seppur tra alterne vicende, la sua collocazione quale componente bizzarra e inscindibile del mollusco gravitazionale teorizzato da Albert Einstein.

Tra queste tracce subito emerge quella istintiva, culturale e psicologica, costituita dalla sensazione soggettiva dello scorrere del tempo, dalla percezione di un prima e di un dopo, accompagnata dalla constatazione di impermanenza dell’essere umano. Per cui c’è un inizio e c’è una fine. E poi il principio di causalità – ovvero il rapporto causa-effetto – con la consequenzialità temporale degli eventi esemplificata in una delle prime possibili elaborazioni mentali del cucciolo di animale: se piango mi accudiscono. E ancora, la traccia istituzionale e scientifica della seconda legge della termodinamica, la necessaria evoluzione da caldo a freddo, da bassa ad alta entropia.

Ma impegnandoci possiamo aggiungerne a piacere secondo il consueto esercizio di estrapolare tutto ciò che confermi le nostre convinzioni. Così il percorso radiale dell’onda elettromagnetica, la funzione d’onda quantistica, che collassa ma non si è seriamente ipotizzato il contrario, la traccia cosmologica di espansione dell’universo verso una situazione sempre più disordinata e la formazione dei buchi neri se si dà credito all’idea di infinito e all'emergere di una singolarità.

Chissà se nel piccolo di uomo e di animale nasce prima la sensazione del tempo che passa o sia prima apprezzato il principio di causa ed effetto, che gli insegna immediatamente che al pianto e al lamento corrisponde l’essere consolato e nutrito o comunque una reazione.

Certo è che piuttosto velocemente si attestano altri condizionamenti che valgono a scolpire la percezione soggettiva del tempo come ripetizione o come durata e soprattutto come limite per la consapevolezza di essere solo episodi destinati a morire.

Nonostante queste ed altre tracce, il tempo non è tuttavia un elemento fondamentale della natura. Non riusciamo infatti a definire il tempo in se stesso e lo costruiamo come variabile del tutto arbitraria, appurato che la vita biologica è a termine, mettendone in relazione il percorso con il verificarsi di eventi della natura quali il sole che sorge e tramonta, le fasi della luna, il movimento di un pendolo, il battito cardiaco o in generale un’oscillazione ed ogni sorta di vibrazione.

Cioè, non sappiamo cosa sia il tempo, ma per questioni pratiche abbiamo dovuto misurarlo facendo riferimento a quel che vedevamo del mondo intorno a noi: sarò di ritorno tra due albe e due tramonti, con la nuova luna, quando la clessidra sarà stata girata venti volte.

Superata nel secolo scorso l’idea di un tempo assoluto quale elemento fondamentale valido per l’intero universo, percepiamo oggi che il tempo non è un evento, ma un’utilità nel nostro mondo macroscopico ed impariamo da ultimo che la sua essenza non può comunque essere separata da quella dello spazio, qualsiasi cosa siano l’uno e l’altro.

Ma dobbiamo ammettere che la traccia termodinamica, in quanto opposta alla sopravvivenza stessa dell’uomo, è proprio il motivo principale su cui poggiamo la nostra percezione del tempo che passa e la consapevolezza dei limiti al nostro essere. Traccia assai tenace posto che la nostra posizione biologica va in qualche modo controcorrente rispetto al percorso dell’universo verso l’equilibrio, che prevede espansione e raffreddamento. Siamo infatti un sistema – quello biologico – che combatte per mantenersi in uno stato di bassa entropia, lontano dall’equilibrio termico, nutrendosi in modo piuttosto complicato dell’energia che in sostanza ci proviene dal sole.

Perché questo bisognerebbe accettarlo. Cioè che i caratteri della nostra coscienza di esistere siano solo un pregevole squilibrio che ci ha allontanato ma non affrancato da un percorso che sembra orientato in tutt’altro modo. Quello per cui tutto, pianeti e galassie, tutti noi e possibili miliardi di altre e diverse entità vitali disperse quali microscopiche ed impercettibili increspature dell’universo, si possa andare verso la deprimente eternità della morte termica.  


sabato, aprile 25, 2020

Il fumo giustifica i mezzi

Francia, 22 aprile 2020. Le Monde pubblica un articolo in cui si sottolinea che secondo i dati preliminari di una ricerca scaturita dall'osservazione clinica nell'hôpital de la Pitié-Salpêtrière (AP-HP) di Parigi, il tasso di fumatori tra i pazienti infetti da Sars-CoV-2 su un campione di circa 350 pazienti con età media di 65 anni sarebbe molto basso, circa il 5% del totale. Per la precisione, il 4.4% con età media 65 anni e il 5.3% con età media 44 anni (tenendo presente che il tabagismo diminuisce in Francia con l'età).

Nel dettaglio l''articolo fa riferimento:
** a uno studio cinese da cui risulterebbe che la percentuale dei fumatori ricoverati per il coronavirus è stata in Cina del 12.6% e quindi assai inferiore alla percentuale dei fumatori in Cina, che è del 28%
** a uno studio francese su 11 mila ospedalizzati secondo l'Assistance publique-Hôpitaux de Paris (AP-HP) per cui la percentuale di fumatori sarebbe dell'8.5% contro una percentuale di fumatori in Francia del 25.4%.
Questi sono i numeri.

La notizia viene comunque riportata su parecchi media italiani.
Il 23 aprile, secondo le notizie on line, l'OMS fa "chiarezza", contestando ogni possibile effetto salvifico del fumo rispetto al virus, ma riproponendo nella sostanza un'unica, generica osservazione per cui - letteralmente - "i fumatori con Covid-19 probabilmente soffrono di condizioni più gravi rispetto agli altri e che queste potrebbero portare a morte prematura". Probabilmente.
Probabilmente sì, ma pur concordando senz'altro sul fatto che i polmoni e il sistema circolatorio di un fumatore siano quasi certamente in condizioni assai peggiori e quindi più suscettibili ad ogni accidente rispetto a quelli di un non fumatore, constatiamo che il panico per una notizia in qualche modo "scandalosa" conduce in men che non si dica all'emissione di altro fumo a fin di bene, con il più totale disinteresse per i (pochi) numeri a disposizione.

Confermando l'impressione che sia stato ritenuto inopportuno indagare il merito, un memorandum dell'OMS cita poi quali ulteriori fattori di rischio, il maneggio di sigarette e narghilè. Cioè il fatto di toccare, magari scambiandosele, attrezzature da fumo... per portarle alla bocca.
Ora, ovviamente nessuno si sogna di invitare al tabacco chi non ne fa uso o non ne ha mai sentito il bisogno, né a a riprendere un'abitudine dannosa da cui ci si sia per avventura liberati. Anzi, i numeri delle vittime dirette o indirette del tabagismo parlano comunque da soli.
Ma trascurare pur piccoli fatti e ricorrere all'intervento dell'uomo nero, come fossimo bimbi che potrebbero pericolosamente avvicinarsi alla marmellata, sembra davvero un po' eccessivo.

mercoledì, aprile 22, 2020

La difesa del complotto


Questo non è un pezzullo di medicina, né di scienza e sapienza. Ce n’è già troppa dell’una e delle altre sui social e su ogni rasserenante pubblicazione, che, come il buon padre di famiglia, dice quel che ogni figlio vuol sentirsi dire: non è successo niente.

Il dott. Montagnier non è un tipo particolarmente simpatico. Ha già 88 anni, è francese, ha un aspetto sanguigno, forse poco autorevole e ha pestato negli ultimi anni code assai sensibili, patrocinando idee omeopatiche, antivaccinali o altrimenti pericolose.

Incidentalmente ha vinto un Nobel, ma tant’è. Chi non ne ha vinto uno?

Da ultimo si è espresso a favore di un’ipotesi manipolativa del nostro Coronavirus – nostro nel senso che ci fa compagnia da mesi e sembra intenda fermarsi in giro ancora un po’ – approvando in sostanza e forse senza particolare approfondimento uno studio, definito all’unisono dai nostri media, con certa stomachevole ironia, “manoscritto”, pubblicato da taluni biologi di New Delhi.

Infatti, nonostante la sovrabbondanza dei successivi allarmati dinieghi e contestazioni a base di improperi e motti di spirito, esiste veramente ed è tuttora in rete lo studio di un laboratorio indiano, pubblicato il 30 gennaio 2020 ma tenuto in sospeso per mancanza di revisione della comunità scientifica (“peer review”) e virtualmente ritirato per un approfondimento da parte degli stessi autori, da cui risulterebbe che la sequenza del 2019-nCoV (altrimenti detto SARS-CoV2) contiene quattro inserti dell' HIV-1. 

Per i biologi del laboratorio indiano è una cosa improbabile (unlikely) che questa circostanza si verifichi in natura e quindi ne hanno dedotto che potrebbe trattarsi di un virus ingegnerizzato.

Magari – dubbio aggiunto con orrore ai livelli più popolari – di un c.d. chimera virus, geneticamente manipolato per aumentarne il potenziale.

Nel caso, da chi? Non si sa, non si saprà mai e comunque non è compito degli scienziati occuparsene. Ma per accomunare altri candidati al più istintivo capro cinese, occorre ricordare che sui media statunitensi  (e non solo) si è parlato di ambigui studi sulle origini del SARS Coronavirus, trasferiti operativamente dagli USA in Cina (a Wuhan) e finanziati dal governo USA su iniziativa del NIAID - National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Anthony Fauci.

Ovvio che vada annotato e ripetuto che esistono da tempo abbondanti scritti assolutamente contrari all'ipotesi indiana (in particolare uno studio cino-americano pubblicato con rimarchevole velocità il 4/2/2020 e quello, successivo e meno tranchant, pubblicato su Nature Medicine il 17/3/2020). E poi pareri di segno diametralmente opposto alle deduzioni dei biologi indiani e al disinvolto patrocinio di Montagnier.

Così come sono stati riferiti e ancora sussistono dubbi e incertezze sull’origine e sul meccanismo di diffusione del virus anche da parte dell’establishment militare USA. Ma è stato già detto ed è comunque facile immaginare che le pressioni sul punto – cioè per non farne emergere definitivamente qualcosa, qualsiasi cosa – siano e saranno insuperabili.

Vero, falso o fuffa che sia, ovviamente non ci sono conclusioni. Quelle le possiamo lasciare ai milioni di saggi e scienziati che imperversano vantandosi a vario titolo di saperne in materia più dello stesso virus.

Le note a pie’ di pagina sono state omesse per cattiveria.



sabato, aprile 18, 2020

La difesa del dogma

«...un tale atteggiamento è considerato non privo di risvolti positivi [ed ammesso dallo stesso Popper, quando riconosce che]: "L'atteggiamento dogmatico consistente nell'aderire a una teoria il più a lungo possibile, ha una notevole importanza. Senza questo non potremmo mai scoprire quale è l'effettivo rilievo di una teoria - ce ne libereremmo prima di poter constatare la sua efficacia; e, di conseguenza, nessuna teoria potrebbe svolgere il proprio ruolo, [che consiste] nel conferire al mondo un ordine". Peccato però per il concetto di 'democrazia' nella scienza che sia proprio questo il momento in cui la straordinaria influenza delle élites dirigenti possa giocare le sue carte migliori, vale a dire nella scelta delle teorie che verranno testate ed insegnate per decenni prima che ce se ne possa sbarazzare, e naturalmente allora con altre teorie sempre suggerite da quei gruppi che sono in grado di controllare case editrici, politica editoriale delle riviste, concessione dei finanziamenti ai diversi progetti di ricerca, riconoscimenti pubblici, avanzamenti di carriera, etc.». (Umberto Bartocci - Albert Einstein e Olinto De Pretto, 2006)
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Per questo non stupisce che al sorgere di un'ipotesi 'controcorrente' - sia essa plausibile o peregrina - si accompagni il corrispettivo erigersi a "maître à penser" di un nutrito accrocchio di normalizzatori d'animo o di professione. Si tratta di semplici dilettanti o strutturati professorini, eroi della divulgazione o primedonne del web. Ma anche di moltissimi ordinari ed appassionati seguaci di una campana rassicurante e normalmente immutabile. 
Soggetti tutti costantemente impegnati nell'assicurarsi anche a futura memoria un posto quantomeno morale sul carro del vincitore, ben sapendo su quali ruote sarà poggiato. Chè, quand'anche il dogma dovesse all'occasione cedere di fronte ai fatti, esso sarà aggiustato e opportunamente reindirizzato dai medesimi soloni che ne erano stati un tempo strenui ambasciatori, rimasti naturalmente incollati - salvo possibili scivoloni - al gruppo che comunque decide.
E' ovvio che l'intensità dell'impegno richiesto nella predetta attività di normalizzazione, professionale o amatoriale, sia proporzionale alla consistenza dell'ipotesi scandalosa del momento. Cosa tanto più agevole quanto più chiaramente apodittica sia la teoria alternativa. 
Ne deriva che il nostro normalizzatore si guarderà bene dal dedicarsi alla confutazione di concrete possibilità alternative quando assai più allegramente potrà soffocare il dissenso scagliandosi, con un esempio che tutto copre, contro la prima ed immancabile ipotesi da baraccone.
E' infatti facile ridicolizzare l'idea di un intervento marziano e trascurare con disinvoltura il fatto che possa essere stato il tuo vicino di casa, nell'ombra, a rifilarti una bastonata sul crapino felice.