lunedì, marzo 31, 2008

Da Oslo ad Annapolis, percorsi senza pace

Grandi notizie su Haaretz. E' detto naturalmente in senso ironico, ci si stupisce che questi appunti di quotidiana attualità abbiano meritato la prima pagina: "Il primo ministro Ehud Olmert ha promesso lunedì al leader spirituale del partito Shas, Rabbi Ovadiah Yosef, che autorizzerà le costruzioni sulla terra della "sacca di Gerusalemme" che finora erano state congelate. Fonti del partito ultra-ortodosso Shas hanno riferito che "il primo ministro ha promesso ...inequivocabilmente che le costruzioni riguardanti le comunità di tutta la "sacca di Gerusalemme" non saranno intralciate e verranno scongelate senza indugio" [...] Nel frattempo il Consiglio Yesha per gli Insediamenti ha dichiarato che continuerà a costruire negli insediamenti del West Bank anche senza le necessarie autorizzazioni del governo [...] Peace Now, in un rapporto rilasciato lunedì, ha accusato il governo di procedere con le costruzioni ebraiche a Gerusalemme Est ad un ritmo senza precedenti".

Facciamo un passo indietro, di quindici anni. Oslo, Dichiarazione di principi (settembre 1993) e poi Interim Agreement (settembre 1995) con sette "Annexes", oltre a mappe, accordi atomizzati per singole questioni (Gaza e Jerico, Hebron), ecc. In realtà nulla poteva indurre ottimismo alla luce di quanto immediatamente dichiarato da Rabin sin dalla cerimonia tenuta in occasione della firma della Dichiarazione di principi, primo atto dei c.d. accordi di Oslo, il 13.9.1993. " We have come from Jerusalem, the ancient and eternal capital of the Jewish people". [ndr. period]

Come "confessato" da Shlomo Ben-Ami (dibattito vs Norman Finkelstein su Democracy Now!) Israele si diede subito da fare per tradire lo spirito degli accordi di Oslo e - a mio avviso - anche la lettera. Nella Dichiarazione di principi: (Articolo I, scopo dei negoziati) leggiamo: ("It is understood that the interim arrangements are an integral part of the whole peace process and that the negotiations on the permanent status will lead to the implementation of Security Council Resolutions 242 and 338"). Cioè: "E' inteso che gli accordi ad interim sono parte integrante dell'intero processo di pace e che le negoziazioni sullo status permanente condurranno all'attuazione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU n. 242 e 338". Nell'art. IV, Giurisdizione, leggiamo: "Le due parti vedono il West Bank e la Striscia di Gaza come una singola unità territoriale, la cui unità sarà preservata nel corso degli accordi ad interim" (questione poi riproposta negli accordi all'art. XXXI, n. 8). Gli Interim Agreements (Art. XXXI n. 7) furono ancora più chiari: "Nessuna delle parti inizierà o farà alcun passo che possa cambiare lo status del West Bank e della Striscia di Gaza nel corso delle negoziazioni sullo status permanente". Anche un riferimento alla risoluzione 194 (dell'Assemblea dell'ONU) quanto alla sorte dei profughi sarebbe rimasto lettera morta.

Cosa può indurre a pensare, oggi, che l'happening di Annapolis, con allegata Road Map (già contestata in 14 punti da Israele), 15 anni dopo gli "accordi" di Oslo rinnegati formalmente da Sharon e poi in pratica da tutti, possa avere miglior fortuna?

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Big news on Haaretz, ironically speaking of course. One marvels at the fact that the following daily feature deserved first page: “The municipality of Jerusalem on Monday approved the construction of 600 new homes in Pisgat Zeev, east of the Green Line.” [...] “Prime Minister Ehud Olmert promised the spiritual leader of the Shas Party, Rabbi Ovadiah Yosef, that he would authorize construction on “Jerusalem envelope” lands which have been thus far frozen, sources from the ultra-Orthodox Party said.” [...] “Meanwhile, the Yesha Council of Settlements said Monday it would continue to build in West Bank settlements, even without the necessary government authorizations.” [...] “Peace Now accused the government of stepping up Jewish construction in East Jerusalem at an unprecedented rate, in a report released Monday.”

Just a step back to fifteen years ago, to the so called
Declaration of Principles of 1993, then to the Interim Agreement(s) of 1995, with its seven “annexes”, plus maps, plus atomized deals (Gaza and Jericho, Hebron), etc. Nothing could really lead the world to optimism in the light of Yitzhak Rabin’s speech at the ceremony for the signing of the Declaration of principles, first act of the Oslo accords on September 13, 1993. “We have come from Jerusalem, the ancient and eternal capital of the Jewish people.” [Editor’s note: period]

According to Shlomo Ben-Ami’s confession (debating Norman Finkelstein on
Democracy Now!) Israel got moving without delay against the spirit of Oslo - I’d say also the letter (e.g. art. I of the Declaration: “It is understood that the interim arrangements are an integral part of the whole peace process and that the negotiations on the permanent status will lead to the implementation of Security Council Resolutions 242 and 338.” Art. IV: “The two sides view the West Bank and the Gaza Strip as a single territorial unit, whose integrity will be preserved during the interim period.” Art. XXXI n. 7 of the Interim Agreement: “Neither side shall initiate or take any step that will change the status of the West Bank and the Gaza Strip pending the outcome of the permanent status negotiations.”)

What make us feel that the Annapolis show & Road Map enclosed (denied since its birth in 14 points by Israel), fifteen years after the Oslo Accords that were officially repudiated by Ariel Sharon and, practically, by everybody, should have a better chance?

lunedì, marzo 24, 2008

Jenin Jenin

Jenin Jenin è il titolo del documentario diretto e prodotto dal regista ed attore palestinese Mohammad Bakri con Iyad Samudi, che fu ucciso poco dopo il completamento dell'opera dalle forze armate israeliane (nella foto un fotogramma del film). Il documentario mostra le testimonianze degli abitanti di Jenin, luogo che nell'aprile del 2002 fu teatro di scontri sanguinosi in occasione dell'operazione dell'esercito israeliano chiamata Defensive Wall. L'epilogo vide la città e il campo profughi di Jenin rasi al suolo e una moltitudine di vittime palestinesi. Numerosi gruppi per i diritti umani accusarono Israele di aver commesso crimini di guerra nell'attacco al campo. Jenin Jenin mostra fino a che punto l'oppressione e il terrore hanno minato la vita degli abitanti della città e documenta le fasi successive all'assedio portato dalle forze armate israeliane. Fu una vera e propria strage e il campo fu distrutto dai bulldozer. Ai giornalisti non venne permesso l'ingresso al campo e dopo la strage fu impedito l'accesso anche alle organizzazioni per i diritti umani. Al di là del documentario le atrocità della sortita dell'IDF nel campo di Jenin sono state documentate da ricercatori e attivisti che sono penetrati nel campo dopo le operazioni e sono state confermate dagli stessi soldati dell'esercito israeliano. Moshe Nissim rilasciò in proposito un'intervista a Yedioth Ahronoth, in cui descrisse l'uso di un bulldozer D-9 per radere al suolo le case del campo profughi. In un rinnovato sforzo di tacitare le accuse di aver commesso crimini di guerra, dopo il boicottaggio del film Jenin Jenin (sin dall'uscita il documentario è stato attaccato dal sistema giudiziario israeliano), alcuni soldati israeliani hanno citato in giudizio Mohammad Bakri (qui l'intervista rilasciata a Democracy Now!), accusandolo di diffamazione e chiedendo un risarcimento di 2 milioni e mezzo di NIS (New Israeli Shekels), circa mezzo milione di euro, per i danni che assumono di aver subito. I soldati (Ofer Ben Natan, Doron Keidar, Nir Oshri, Adam Arbiv e Yonatan Van Kaspel) che hanno 'denunciato' il film di Bakri e il suo autore non compaiono nel documentario, ma sostengono di aver sofferto "umiliazioni" e "danni irreparabili" a sé e alle loro famiglie a causa dei racconti dei protagonisti e testimoni delle atrocità commesse dall'esercito israeliano a Jenin. I soldati sostengono che le persone intervistate nel film di Bakri hanno inventato ed esagerato molte delle loro testimonianze, al di là del fatto che un gran numero dei crimini narrati nel documentario e sui quali è stata attirata l'attenzione (l'uso di civili come scudi umani, l'uccisione di disabili e ritardati, la demolizione di edifici con gli abitanti al loro interno) sono stati ripetutamente commessi dalle milizie israeliane contro i palestinesi. Il regista, Mohammad Bakri, attualmente sottoposto al processo, affronta un vero e proprio disastro finanziario e addirittura la minaccia della prigione. La causa intentata dai militi israeliani sembra oggi solo un ulteriore meccanismo per tacitare e delegittimare le voci dei palestinesi del campo profughi di Jenin. Sotto questo profilo il film di Mohammad Bakri è assai efficace perchè non si basa sulla semplice enumerazione delle vittime, ma vede le testimonianze sul campo di persone vere, bambini, vecchi, madri, che narrano, immediatamente dopo la strage e la distruzione, gli episodi in cui sono stati personalmente coinvolti. Tutto questo è più impressionante e pericoloso, per il sistema di pubbliche relazioni esterne orchestrato dal governo israliano, di una serie di dati in cui il numero delle vittime finisce per essere solo un elemento statistico.

Mohammad Bakri sarà a Milano in questi giorni nell'ambito della "Settimana della Cultura Palestinese - Realtà e memoria", promossa da Arci Milano e Teatro Verdi e patrocinata dalla Provincia. Questa prima edizione vedrà manifestazioni culturali dal 26 al 30 marzo 2008 e sarà dedicata al teatro, alla letteratura, alla fotografia, alla musica e al cinema. Qui il comunicato stampa della Provincia di Milano.

giovedì, marzo 20, 2008

John McCain, nihil sub sole novi

Con buona pace di chi ha promesso di cancellare la par condicio elettorale dai nostri media, osserviamo che sicuramente il principio non vale per le elezioni negli USA e per le libere opinioni dei blogger e poiché nei giorni scorsi abbiamo parlato del democratico Barack H. Obama, sembra giusto - sempre nell'ottica mediorientale del blog - rivolgere assai sinteticamente l'attenzione al candidato favorito, il top gun della parte avversa, quella repubblicana.
Anche il Senatore John McCain, ancora incerto di ottenere la nomination da parte del suo partito per le presidenziali USA, si porta avanti sulla questione israelo palestinese e negli scorsi giorni paga il tributo di rito alle politiche degli Stati Uniti nei confronti del conflitto, confermando l'atteggiamento americano standard verso lo Stato ebraico e i palestinesi. Nessuno ne dubitava già per il 'democratico' Obama (v. su questo blog) e nel caso di McCain la questione era scontata.
Visitando Israele in compagnia del Senatore Joseph Lieberman, McCain non si è staccato dal conveniente copione, in versione light pre-elettorale, del 'doppio binario'. Lo stesso che, in forme assai più pressanti, mina ogni possibe percorso di intesa nella regione tra i due popoli che se ne contendono la terra, a far tempo dal 1967. E dico dal 1967 perchè sembra che solo da quella data, dopo la Guerra dei Sei Giorni, gli USA siano stati indotti a percepire il neonato Israele come un costoso alleato e non come una seccatura.
Il Senatore repubblicano, comunque, ha colto l'occasione per esprimere vicinanza agli abitanti di Sderot e non si sa se in virtù delle espressioni di solidarietà e simpatia di McCain i residenti della tartassata città a est di Gaza abbiano mancato di ribadire al candidato Presidente USA la sensazione di essere abbandonati dal loro governo. Quest'ultimo evidentemente più interessato ad usarli come strumento di propaganda contro Hamas, che a proteggerli dallo stillicidio dei razzi casalinghi Qassam lanciati dai militanti palestinesi in via di dichiarata reazione ad ogni sortita di Tsahal (la Israeli Defense Force) nei Territori Occupati.
John McCain ha comunque osservato che "i residenti [di Sderot] vivono ovviamente sotto grave stress" e - riferendosi alla festività ebraica imminente - ha precisato che "gli allerta di 15 secondi [per raggiungere un rifugio] non sono il modo di passare il Purim". Richiesto il suo pensiero sulla reazione da assumere contro gli attacchi dei Qassam, il Senatore non ha saputo dare - secondo Arutz Sheva - una buona risposta, ma ha aggiunto: "se gli attacchi coi razzi arrivassero al confine degli Stati Uniti d'America, il popolo americano chiederebbe una risposta piuttosto vigorosa".
Su Hamas in particolare, tanto per non smentire le direttive che accomunano USA ed Europa, l'aspirante alla presidenza dell'impero occidentale si è potuto sbilanciare un po' di più. Così ha accolto la possibilità di sottolineare la differenza tra il terrorismo del movimento islamico e il collaborazionismo di Abu Mazen (termini ed enfasi, ovviamente, miei) ed ha osservato che non sa spiegarsi come sia possibile negoziare con una organizzazione "dedicata alla distruzione [di Israele]" dopo aver appreso dal primo ministro Olmert che (repetita iuvant) Hamas è armato e sponsorizzato dall'Iran e dalla Siria.
Poi, finalmente, una parola di pax romana, cioè quella del più forte o presunto tale. Non senza una punta di formale ma sottinteso disprezzo per l'ONU, per il 'Quartetto', per i palestinesi e per il resto del mondo, il Senatore dell'Arizona ha dichiarato che come futuro Presidente degli Stati Uniti intende patrocinare e raggiungere la pace tra le parti secondo i principi concordati - difficile immaginare il contrario - tra gli USA e Israele.

martedì, marzo 18, 2008

Lezioni di diritto

Alan Dershowitz, in questi giorni in visita in Israele, sostiene che le 'regole del diritto' devono adattarsi alla lotta contro la minaccia terroristica. Si lamenta poi della mancanza di relazioni tra la comunità ebraica USA e Israele e chiede agli ebrei d'America di visitare Israele. Il rinomato avvocato difensore di Klaus von Bulow e OJ Simpson, già acclamato alfiere dei diritti umani, nonché Felix Frankfurter Professor of Law all'Università di Harvard, viene qualificato correttamente - su Arutz Sheva - quale "franco difensore di Israele nei suoi libri, articoli, conferenze e dibattiti". E infatti risulta evidente come il potentissimo prof. di Harvard non riesca a dismettere le vesti dell'avvocato difensore e tutto il relativo armamentario in ogni sua manifestazione. Soprattutto - va da sé - nel perorare la causa di un cliente. Non senza ricorrere alle più discutibili arti del mestiere.
Di esempi ce ne sono a bizzeffe, dalla faziosa confezione del suo "The Case for Israel" all'intervento (infruttuoso) per impedire, prima, la pubblicazione del saggio critico che lo ha smascherato, "Beyond Chutzpah" e, poi (stavolta riuscendo nel suo intento), intervenendo con tutto il peso di un presunto nulla osta di Harvard (sulla genuinità del proprio Case for Israel) e con ogni altro riprovevole attacco personale, perchè fosse negata all'autore della suprema offesa, Norman Finkelstein, una cattedra alla cattolica Università DePaul di Chicago.
Proclamando ripetutamente il suo impegno e la sua equidistante bonomia verso una soluzione binazionale del conflitto israelo palestinese, Dersh non perde occasione per raccogliere tanto gli strali della più accesa destra israeliana - che evidentemente gli crede (v. commenti su Arutz Sheva) - quanto quelli di ogni altro osservatore, più o meno imparziale, dei fatti. Ma non bisogna lasciarsi ingannare, in realtà è tutta e solo strategia difensiva.
Nessuno può dimenticare l'appassionata difesa di Dersh delle indifendibili sortite di Barak e del suo entourage a Camp David, allorché affrontò ad Harvard [ndr. JFK School of Government - JFK Jr. Forum, 29 novembre 2005, nella foto] un Noam Chomsky forse più disattento del solito. Gli è che contro i fatti e la storia, visti, rivisti, documentati e riportati da più parti, nulla puote salvo l'arringa di un professionista. E poco importa, allora, se Chomsky colloca Ron Pundak - dal 2001 membro del Peres Center for Peace - a Camp David, anzicchè a Oslo, quando tutti i resoconti degli incontri di luglio-dicembre 2000 risultano storicamente, consapevolmente - e in parte dolosamente - orientati dalla delegazione israeliana capeggiata da Barak verso l'insuccesso (v. in particolare Charles Enderlin, Shattered Dreams e il saggio di Norman Finkelstein sull'atteggiamento di Dennis Ross).
Così Dersh, da buon avvocato, al JFK Jr. Forum agita in lontananza le tardive mappe virtuali presentate forse a Taba nel 2001 e in qualche modo relative alle indegne (e mitizzate come "generose") proposte di Barak ben sapendo che nessuno le analizzerà da vicino, né le discuterà. E si giova del malizioso attacco di uno spettatore per talune imprecisioni di Chomsky per segnare il punto davanti al suo giudice, in questo caso il pubblico di Harvard.
E allora se il suo cliente delinque, cioè contravviene alle regole del diritto (internazionale, umanitario) e i fatti sono fatti, sono chiari e sono di fronte a tutti, cosa si fa? Ovvio, si cambia la legge [ndr. in Italia siamo esperti in materia].
Così sembra che il professore abbia stabilito due obiettivi riguardo la sua visita allo Stato ebraico. Primo, manifestare il doveroso sostegno agli abitanti di Sderot e Ashkelon. Secondo, fare lezioni e tenere conferenze su come combattere la guerra al terrorismo, semplicemente ... 'aggiornando' le regole del diritto.
Sempre Arutz Sheva ci racconta che, parlando con Yishai Fleisher di IsraelNationalRadio, Dershowitz dichiara, senza neppure vergognarsi: "insegnerò come devono cambiare le regole del diritto per essere adatte alla nuova realtà dei terroristi suicidi che usano gli scudi umani e mettono le democrazie in una situazione difficile. Traggono vantaggio dalla nostra maggiore moralità forzando le democrazie a scegliere tra non fare nulla e uccidere inevitabilmente dei civili. Le regole attualmente favoriscono i terroristi contro le democrazie e le regole devono cambiare".
Perfetto, avvocato! Di diritto, di rovescio o anche aggredendo l'arbitro, ogni sistema è buono pur di fare il punto.

lunedì, marzo 17, 2008

Spies

Lo Shin Bet, agenzia israeliana di security interna, ha schierato una nuova arma sofisticata: il blog. Su un nuovo sito web lanciato domenica scorsa, quattro impiegati dello Shin Bet - nomi in codice: Nun, Alef, Het e Yud - bloggano sulla vita e sul lavoro all'agenzia. Dice Haaretz che a giudicare dai loro blog questa sembra piuttosto noiosa, gli agenti dalla segretissima organizzazione sembrano più preoccupati del salario e del fatto di essere a casa alle sei del pomeriggio per stare con i bambini, mentre patriottismo e avventura sono menzionati a stento. Il sito è rigorosamente in ebraico e sempre da Haaretz apprendiamo che A[lef], ingegnere programmatore, aveva appreso che lo Shin Bet cercava collaboratori nel campo dell'high tech e aveva quindi immaginato l'unità di contro-terrorismo dello show "24". Delusione! Scrive Alef: "chi non avrebbe voluto immaginarsi mentre lavorava nel centro di comando e controllo del CTU?". Ma i suoi post indicano che la vita reale può essere parecchio meno eccitante: "Benché sia veramente ingiusto, non ho avuto una sirena da mettere sull'auto e devo pure stare in mezzo al traffico". Forse si è sbilanciato troppo e chiude: "Questo post si auto-distruggerà in 10 secondi".

martedì, marzo 11, 2008

Il muro

La storia del conflitto arabo israeliano palestinese (oggi forse più israeliano ebraico palestinese) andrebbe letta dall'inizio o per lo meno dal 1882 - cioè dai pogrom in Russia - partendo, perciò, dal progressivo riposizionamento ebraico in terra araba, passando per l'appoggio interessato dell'Inghilterra a cavallo della prima Guerra mondiale e arrivando quindi all'epilogo della seconda Guerra mondiale e a quanto vi si può riferire, cioè a quanto servì per lavare la coscienza di un'Europa imbelle che aveva favorito o consentito la Shoah. E' vero che gruppi ebraici si erano trasferiti o erano ritornati in Palestina essenzialmente per motivi religiosi ben prima del mandato britannico sulla regione, ma ancora intorno al 1895 la popolazione ebraica era di circa 50.000 persone su un totale di circa 500.000 e questo non creava, né forse avrebbe mai creato troppi problemi visto che le popolazioni della zona, di qualsiasi provenienza fossero, erano riuscite per centinaia di anni a convivere in modo quasi pacifico. Sembra poi un fatto storico che in migliaia di anni, nella zona di cui parliamo, già terra di Canaan, la popolazione ebraica avesse affermato il proprio predominio per circa 500 anni (regni di Israele e di Giuda), dal 1200 a.c. al 600 a.c., prima di essere sconfitta ed esiliata da assiri e babilonesi, per poi ritornarvi fra gli altri abitanti e sudditi di quella che era diventata una provincia di Roma sotto il nome, appunto, di Palestina.

In ogni caso, fino al 1120 a.c. circa, la zona era abitata da popolazioni di ogni sorta (filistei o popoli del mare, provenienti forse da Creta, ex canaaniti, ebrei) e una permanenza ebraica istituzionalizzata e dominante, sotto Salomone e poi con i regni di Israele e Giuda, è durata - come detto - circa cinque secoli su migliaia di anni. Cioè un po' poco per sostenere che altre comunità non sentissero - e non sentano - legittimamente quella terra come propria. Si potrebbe poi discutere per decenni (molti lo fanno e alcuni lo scrivono) su quali e quante erano, da dove provenivano e dove andavano le popolazioni che hanno calpestato quella terra che, per comodità, continuiamo qui a chiamare Palestina. Transeat. Veniamo rapidamente ad un fatto difficilmente confutabile: benché questa sia stata terra degli ebrei, essa è stata anche e in pari misura terra di altri popoli, da ultimo prevalentemente arabi. E non si può pensare che una terra possa pacificamente passare di mano, quand'anche trascurata o incolta, cosa certo possibile senza le innegabili capacità dei pionieri ebrei nel periodo post 1882 e, più tardi, senza il credito di cui Israele avrebbe potuto disporre rispetto alle popolazioni indigene.

E' anche vero che le popolazioni locali non hanno avuto una formale e specifica identità nazionale palestinese fino al periodo di Nasser, ma si trattava comunque della terra su cui da centinaia o migliaia di anni le loro famiglie vivevano, prima che i conti su quella terra venissero (mal) fatti, un po' ad opera delle tragedie della storia e un po' a tavolino. Cioè in modo schematico: a) secondo gli interessi, i sensi di colpa e le anacronistiche abitudini coloniali dell'Europa; b) secondo le obiettive necessità e i timori del popolo ebraico, che aveva passato il vero antisemitismo, i pogrom e gli orrori nazisti; c) secondo gli interessi di gruppi radicali sionisti che poco o nulla avevano in comune, se non forse la teoria di lontane origini, con quella terra.

Per quanto interessante possa essere cercare di andare alla radice dei problemi di quella zona, la questione si è posta in modo traumatico con la "riconsegna" all'ìdeale sionista delle terre di Palestina, con collaterali e non cristalline operazioni diplomatiche e con gli accordi di spartizione, in senso lato, del 1915 (carteggio tra Mc Mahon e lo Sceriffo della Mecca), del 1916 (accordi anglo francesi Sykes - Picot) e del 1917 (dichiarazione di Balfour), con tutto ciò che di esasperato vi ha fatto seguito sino al 14 maggio 1948 (dichiarazione di indipendenza di Israele e fine del mandato britannico) e poi, di conflitto in conflitto (1948, 1956, 1967, 1973, Libano 1982, Libano 2006), fino ad oggi.

I percorsi di pace - ipocrita definizione di quello che non si è disposti a trasformare in pace - non hanno aiutato quei popoli, conviventi loro malgrado, nella stessa striscia di terra, neppure a recedere da interpretazioni della storia recente, di cui (quand'anche il suo stesso evolversi sia frutto di logiche diverse da un tranquillizzante bianco e nero e sia perciò costituito da un complicato avvicendarsi di toni grigi) solo una può essere corretta e l'altra è per questo certamente falsa. Per quanto ne è stata data notizia, la "cosa" più vicina ad una ragionevole ipotesi di accordo negli ultimi sessant'anni sembra essere stata sfiorata (ma solo sfiorata) a Taba, nel gennaio 2001 (dopo il fallimento del summit di Camp David patrocinato da Bill Clinton e immediatamente prima del governo di Sharon), a coronamento delle malriposte speranze sortite dagli accordi di Oslo del 1993. La "cosa" peggiore è invece probabilmente la cosiddetta "road map" di G.W. Bush e del "Quartetto" (USA, ONU, Europa, Russia) con la risibile appendice di Annapolis. Cioè l'ennesima riedizione di un esasperante percorso ad ostacoli, nato già morto. Non è inutile infatti sottolineare che il piano denominato "road map" non è stato accettato da Israele neppure nelle sue linee essenziali, che, per quanto fumose, sono state subito contestate in quattordici punti. La caparbia violenza delle operazioni e l'incombenza israeliana nei territori (omicidi mirati, strangolamento economico, land-grabbing, assedio di Gaza), le inopinate iniziative americane (sabotaggio delle scelte palestinesi, politica tracotante e comunque sbilanciata per il Medio Oriente), la martellante "reazione ai fianchi" palestinese (infiltrazioni, lanci di razzi Qassam su Sderot, Ashkelon) e un atteggiamento europeo schizofrenico e vassallo (degli USA, delle proprie paure, delle proprie colpe) hanno fatto il resto. Sino ad oggi tra le due genti il muro stigmatizzato dalla Corte Internazionale di Giustizia non è il solo e non è più solido del muro di voluta incomprensione e sfiducia che altri erigono ed alimentano da decenni.

venerdì, marzo 07, 2008

Two devaStates

Il 2 marzo scorso, chiudendo il suo pezzo dal titolo "Vergogna sugli arabi, vergogna sui musulmani, vergogna sull'umanità", dedicato alla trascorsa carneficina di Gaza, Khalid Amayreh si rivolgeva, con una parola a tutti. "...Un'ultima parola per la gente del mondo - scriveva - se pensate che i giudeonazisti ce l'abbiano solo con i palestinesi, sbagliate di grosso. I giudeonazisti cercano di dominare il mondo. Mirano alle vostre libertà, alle vostre risorse e al vostro futuro. I palestinesi sono solo il primo passo e poi verrà il vostro turno. Così, svegliatevi, parlate e fatevi sentire o controlleranno le vostre vite e vi renderanno schiavi come hanno reso schiavi gli Stati Uniti e molta dell'Europa occidentale. Il sionismo è semplicemente il nazismo dei nostri tempi, è un vero cancro. Se non lo sconfiggete vi ucciderà". Oggi, 7 marzo, Bradley Burston, in un suo articolo su Haaretz dedicato "Agli occidentali che 'capiscono' i terroristi", redatto in occasione della strage alla scuola rabbinica di Gerusalemme, inizia così: "Risparmiateci le spiegazioni. Risparmiateci le erudite giustificazioni imbevute di sociologia. Risparmiateci le ragioni per cui "credete" ai palestinesi quando fanno fuori gli ebrei a sangue freddo. Risparmiateci i riferimenti esatti per cui la situazione critica dei palestinesi è alla radice del terrorismo islamico sul mondo, che cesserebbe se i palestinesi dovessero ottenere completa giustizia. Risparmiateci. Potete credere, con la fede cieca degli speranzosi e di quelli in preda alla paura, che quando questa gente avrà finito con gli ebrei non verrà per voi. Risparmiateci il post-modernismo, il radical chic e le stupidaggini. Aprite gli occhi...". Domani, invece, potremmo fare qualcosa di nuovo, trascurare le generalizzazioni che trasformano l'ingiustizia in vendetta e l'infezione in metastasi.

mercoledì, marzo 05, 2008

L'uovo di Colombo

Non è la resistenza che provoca l'occupazione ma viceversa.

Re. Distr. GENERAL - A/HRC/7/17 - 21 January 2008 - Original: ENGLISH - HUMAN RIGHTS COUNCIL - Seventh session - Item 7 of the provisional agenda - HUMAN RIGHTS SITUATION IN PALESTINE AND OTHER OCCUPIED ARAB TERRITORIES - Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967, John Dugard [ABSTRACTS] «I. Critiche al Relatore Speciale [delle Nazioni Unite sulla situazione umanitaria in Palestina e negli altri territori arabi occupati] e al mandato. 2. Il Relatore Speciale è stato criticato dagli Stati interessati per una quantità di ragioni. Primo, perchè i rapporti sono ripetitivi. Secondo, perchè mancano di riferirsi al terrorismo. Terzo, perchè mancano di considerare le violazioni dei diritti umani commesse dai palestinesi. Queste critiche verranno brevemente considerate all'inizio del presente rapporto».

«B. Terrorismo - 4. Il terrorismo è un flagello, una grave violazione dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Nei rapporti non è stato fatto alcun tentativo di minimizzare la pena e la sofferenza che causa alle vittime, alle loro famiglie e alla comunità nel complesso. I palestinesi sono colpevoli di terrorizzare civili israeliani innocenti attraverso le bombe dei suicidi e i razzi Qassam. Allo stesso modo l'esercito israeliano (IDF) è colpevole di terrorizzare civili palestinesi innocenti attraverso incursioni militari, assassini mirati e bombe sonore che mancano di distinguere tra bersagli militari e civili. Tutti questi atti devono essere condannati e sono stati condannati. Il buon senso, comunque, stabilisce che deve essere tracciata una distinzione tra atti di insensato terrore, come quelli commessi da al-Qaeda ed atti commessi nel corso di una guerra di liberazione nazionale contro il colonialismo, l'apartheid o l'occupazione militare. Benchè tali atti non possano essere giustificati, bisogna capire che essi sono una penosa ma inevitabile conseguenza del colonialismo, dell'apartheid o dell'occupazione. La storia è piena di esempi di occupazione militare contrastata con la violenza e atti di terrorismo. L'occupazione tedesca fu contrastata da molti paesi europei nella seconda guerra mondiale; la South West Africa People's Organization (SWAPO) contrastò l'occupazione della Namibia da parte del Sud Africa; e gruppi ebraici contrastarono l'occupazione britannica della Palestina - fra l'altro facendo esplodere il King David Hotel, nel 1946, con pesanti perdite di vite umane, operazione di un gruppo diretto da Menachem Begin, che più tardi divenne primo ministro di Israele. Gli atti di terrorismo contro un'occupazione militare devono essere visti nel loro contesto storico. Ecco perchè dovrebbe essere fatto ogni sforzo per portare l'occupazione ad un rapido epilogo. Fino a quel punto non ci si può aspettare la pace e la violenza continuerà. In altre situazioni, per esempio in Namibia, la pace è stata raggiunta con la fine dell'occupazione, senza imporre, quale presupposto, la fine della resistenza. Israele non può aspettarsi la pace perfetta e la fine della violenza come precondizione alla fine dell'occupazione. 5. Un ulteriore commento sul terrorismo è necessario. Nell'attuale clima internazionale è facile per uno Stato giustificare le sue misure repressive quali risposte al terrorismo ed aspettarsi una risposta solidale. Israele sfrutta la presente paura del terrorismo fino all'estremo. Ma questo non risolverà il problema palestinese. Israele deve interessarsi di quanto è generato dall'occupazione in termini di violazione dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, e non invocare quale giustificazione il terrorismo come distrazione e pretesto per aver mancato di misurarsi con la causa basilare della violenza palestinese, l'occupazione».

sabato, marzo 01, 2008

Obama, the song remains the same

Barack (pronuncia: barak) Hussein Obama, un trittico ironico di nomi che sembra il percorso tra il preordinato insuccesso di Camp David e le torri gemelle passando dal rais iraqeno. Nomen omen, speriamo di no. Riguardando i suoi commenti nel maggio 2007, Shmuel Rosner, corrispondente da Washington per Haaretz, osservava che l'atteggiamento del candidato nero nei confronti di Israele era forte come quello di Clinton, solidale come quello di Bush e amichevole come quello di Giuliani. Rosner concludeva che "Obama è pro Israele. Punto". A suo credito e in linea con l'anima democratica che formalmente lo sostiene, si poteva dire e si disse (Bill Fletcher Jr. di Transafrica Forum) che Obama si era opposto all'invasione dell'Iraq e che aveva avuto il coraggio di affermarlo. Era tuttavia evidente nel corso dell'anno - cioè dalla presentazione della sua candidatura alle presidenziali USA nel febbraio 2007 - che l'ormai aspirante imperatore dell'Occidente avrebbe mantenuto una posizione assolutamente acritica rispetto a Israele. Lo aveva fatto innanzitutto e a chiare lettere per quanto riguardava la spropositata campagna libanese, l'aggressione alle infrastrutture, l'uso illegale delle cluster bomb e le bugie che lo Stato ebraico aveva offerto per giustificare la distruzione portata ai civili di quel paese. Nell'agosto 2007 la strada scelta da Obama per lastricare il suo possibile accesso alla Casa Bianca anche con l'appoggio della comunità ebraica americana era quindi segnata. Aveva rinnegato velocemente le incaute parole pronunciate in precedenza sulla sofferenza dei palestinesi in Medio Oriente, prendeva ora le distanze da Brzezinski (peccatore al sommo grado per essersi astenuto dal coro delle critiche a Jimmy Carter in occasione della pubblicazione del suo libro, Palestine, Peace Not Apartheid) e galleggiava dichiarando di avvalersi, per le questioni relative al Medio Oriente, della consulenza di Dennis Ross, architetto degli "sforzi di pace" di Clinton a Camp David. Il che sembrava finalizzato ad attirargli la fiducia dei donatori e la simpatia degli elettori pro Israele senza alienargli la base democratica contraria alla guerra. Non di meno, ancora nel dicembre 2007, sempre Shmuel Rosner appuntava su Haaretz che "un rapporto dell'American Jewish Committee dimostrava che [Obama] aveva ancora una lunga strada da percorrere" per raccogliere la fiducia della comunità ebraica. Nessuno lo avrebbe detto, visto che i tentativi di Obama si erano moltiplicati parlando all'AIPAC (American Israel Public Affairs Committee, la dichiarata America's Pro-Israel Lobby), promuovendo una legge per la distrazione di fondi dalle compagnie in affari con l'Iran e, ancora, proclamando, in un discorso nello Iowa, che i palestinesi "dovrebbero reinterpretare la nozione di 'diritto al ritorno' in un modo che preservi Israele come Stato ebraico", così da prevedere, al più, compensazioni ed altre 'concessioni' da parte di Israele, con buona pace della Convenzione di Ginevra e delle risoluzioni ONU. Ma il timore di Obama di non raggiungere il 'candore' e la parzialità sufficienti ad assicurargli l'appoggio dei potentati filo sionisti e dell'elettorato ebraico (combattuto tra i fumi della propaganda, il legame ad Israele e più sentite istanze democratiche) non è venuto meno. Il salto di qualità era quindi fatale. Ce ne riferisce Joshua Frank, co-editore di Dissident Voice, in un articolo del 29 febbraio 2008, rilanciato da Counterpunch con il titolo "I legami che uccidono", quello che segue.

«Nel tentativo di respingere le voci che lo vedono favorevole ai palestinesi, o - Dio non voglia - musulmano, Barack Obama ha messo in chiaro nel corso del dibattito finale dei Democratici per le elezioni presidenziali, di essere tutto tranne che quello. Pungolato sulla questione da Tim Russert della NBC, Obama ha detto di essere da tanto tempo "fedele amico di Israele", penando che quel paese sia uno dei "più importanti alleati [degli USA] nella regione" e addirittura aggiungendo di considerare la sicurezza di Israele "sacrosanct". La santificata conferma che manterrebbe lo sbilenco sostegno degli USA per Israele è arrivata lo stesso giorno in cui sette palestinesi sono stati uccisi dalle incursioni aeree israeliane a Gaza. Dai "negoziati di pace" ripresi in novembre, le forze armate israeliane hanno ucciso, secondo i rapporti, più di 200 palestinesi. Parlano a un gruppo di cento sostenitori di Israele a Cleveland, questa settimana, Obama ha assicurato alla folla che come presidente terrà l'Iran nel mirino per proteggere gli interessi israeliani. "Ora la minaccia più seria ...per Israele oggi, penso, sia dall'Iran. Là il regime radicale continua a perseguire la capacità di costruire un'arma nucleare e continua a sostenere il terrorismo nella region" - ha spiegato. "Le minacce di distruggere Israele non possono essere archiviate come retoriche. La minaccia iraniana è reale e il mio obiettivo come presidente sarebbe di eliminare quella minaccia". Dopo aver ripetuto che metterebbe fine alla guerra in Iraq come prima cosa, Obama ha promesso che porterebbe la sua attenzione ai vicini di quella regione. "Il mio approccio all'Iran sarà di diplomazia aggressiva: non toglierò dal tavolo alcuna opzione militare". Per il vero, Obama ha menzionato qualcosa che pochi Democratici a Washington avrebbero osato pronunciare: "penso che ci sia uno strappo all'interno della comunità pro-Israele che sostiene che se non adotti un approccio risoluto a favore del Likud tu sei anti israeliano e questa non può essere la misura della nostra amicizia con Israele". Dopo aver puntualizzato l'ovvio, in ogni caso, Obama ha lodato la recente invasione israeliana in Libano, l'inclinazione filo israeliana a Capitol Hill e la sua richiesta che Israele rimanga uno stato ebraico". "Qualsiasi negoziato di pace tra Israele e i palestinesi dovrà contenere l'abbandono da parte dei palestinesi del diritto al ritorno come è stato considerato nel passato", ha asserito. "E questo non significa che non ci possa essere una discussione sulla questione delle compensazioni". Che generosità! Ma cosa conta di fare Obama con gli oltre 1,4 milioni di arabi non ebrei che vivono nel paese? Continuare a trattarli come cittadini di seconda classe o semplicemente cacciarli fuori a pedate? Obama ha chiamato Israele "democrazia", ma come ex editore della Rivista Legale di Harvard si pensa che dovrebbe conoscere quello che il termine effettivamente significhi. Sicuramente gli arabi israeliani possono votare, ma non possono ottenere l'ufficio se sono democratici secolari che vogliono diritti civili per tutti i cittadini del paese. Non hanno protezione costituzionale (Israele non ha una costituzione formale) e possono solo possedere terra in certe zone come conseguenza di leggi inique che garantiscono uno speciale trattamento ai cittadini ebrei».