martedì, marzo 11, 2008

Il muro

La storia del conflitto arabo israeliano palestinese (oggi forse più israeliano ebraico palestinese) andrebbe letta dall'inizio o per lo meno dal 1882 - cioè dai pogrom in Russia - partendo, perciò, dal progressivo riposizionamento ebraico in terra araba, passando per l'appoggio interessato dell'Inghilterra a cavallo della prima Guerra mondiale e arrivando quindi all'epilogo della seconda Guerra mondiale e a quanto vi si può riferire, cioè a quanto servì per lavare la coscienza di un'Europa imbelle che aveva favorito o consentito la Shoah. E' vero che gruppi ebraici si erano trasferiti o erano ritornati in Palestina essenzialmente per motivi religiosi ben prima del mandato britannico sulla regione, ma ancora intorno al 1895 la popolazione ebraica era di circa 50.000 persone su un totale di circa 500.000 e questo non creava, né forse avrebbe mai creato troppi problemi visto che le popolazioni della zona, di qualsiasi provenienza fossero, erano riuscite per centinaia di anni a convivere in modo quasi pacifico. Sembra poi un fatto storico che in migliaia di anni, nella zona di cui parliamo, già terra di Canaan, la popolazione ebraica avesse affermato il proprio predominio per circa 500 anni (regni di Israele e di Giuda), dal 1200 a.c. al 600 a.c., prima di essere sconfitta ed esiliata da assiri e babilonesi, per poi ritornarvi fra gli altri abitanti e sudditi di quella che era diventata una provincia di Roma sotto il nome, appunto, di Palestina.

In ogni caso, fino al 1120 a.c. circa, la zona era abitata da popolazioni di ogni sorta (filistei o popoli del mare, provenienti forse da Creta, ex canaaniti, ebrei) e una permanenza ebraica istituzionalizzata e dominante, sotto Salomone e poi con i regni di Israele e Giuda, è durata - come detto - circa cinque secoli su migliaia di anni. Cioè un po' poco per sostenere che altre comunità non sentissero - e non sentano - legittimamente quella terra come propria. Si potrebbe poi discutere per decenni (molti lo fanno e alcuni lo scrivono) su quali e quante erano, da dove provenivano e dove andavano le popolazioni che hanno calpestato quella terra che, per comodità, continuiamo qui a chiamare Palestina. Transeat. Veniamo rapidamente ad un fatto difficilmente confutabile: benché questa sia stata terra degli ebrei, essa è stata anche e in pari misura terra di altri popoli, da ultimo prevalentemente arabi. E non si può pensare che una terra possa pacificamente passare di mano, quand'anche trascurata o incolta, cosa certo possibile senza le innegabili capacità dei pionieri ebrei nel periodo post 1882 e, più tardi, senza il credito di cui Israele avrebbe potuto disporre rispetto alle popolazioni indigene.

E' anche vero che le popolazioni locali non hanno avuto una formale e specifica identità nazionale palestinese fino al periodo di Nasser, ma si trattava comunque della terra su cui da centinaia o migliaia di anni le loro famiglie vivevano, prima che i conti su quella terra venissero (mal) fatti, un po' ad opera delle tragedie della storia e un po' a tavolino. Cioè in modo schematico: a) secondo gli interessi, i sensi di colpa e le anacronistiche abitudini coloniali dell'Europa; b) secondo le obiettive necessità e i timori del popolo ebraico, che aveva passato il vero antisemitismo, i pogrom e gli orrori nazisti; c) secondo gli interessi di gruppi radicali sionisti che poco o nulla avevano in comune, se non forse la teoria di lontane origini, con quella terra.

Per quanto interessante possa essere cercare di andare alla radice dei problemi di quella zona, la questione si è posta in modo traumatico con la "riconsegna" all'ìdeale sionista delle terre di Palestina, con collaterali e non cristalline operazioni diplomatiche e con gli accordi di spartizione, in senso lato, del 1915 (carteggio tra Mc Mahon e lo Sceriffo della Mecca), del 1916 (accordi anglo francesi Sykes - Picot) e del 1917 (dichiarazione di Balfour), con tutto ciò che di esasperato vi ha fatto seguito sino al 14 maggio 1948 (dichiarazione di indipendenza di Israele e fine del mandato britannico) e poi, di conflitto in conflitto (1948, 1956, 1967, 1973, Libano 1982, Libano 2006), fino ad oggi.

I percorsi di pace - ipocrita definizione di quello che non si è disposti a trasformare in pace - non hanno aiutato quei popoli, conviventi loro malgrado, nella stessa striscia di terra, neppure a recedere da interpretazioni della storia recente, di cui (quand'anche il suo stesso evolversi sia frutto di logiche diverse da un tranquillizzante bianco e nero e sia perciò costituito da un complicato avvicendarsi di toni grigi) solo una può essere corretta e l'altra è per questo certamente falsa. Per quanto ne è stata data notizia, la "cosa" più vicina ad una ragionevole ipotesi di accordo negli ultimi sessant'anni sembra essere stata sfiorata (ma solo sfiorata) a Taba, nel gennaio 2001 (dopo il fallimento del summit di Camp David patrocinato da Bill Clinton e immediatamente prima del governo di Sharon), a coronamento delle malriposte speranze sortite dagli accordi di Oslo del 1993. La "cosa" peggiore è invece probabilmente la cosiddetta "road map" di G.W. Bush e del "Quartetto" (USA, ONU, Europa, Russia) con la risibile appendice di Annapolis. Cioè l'ennesima riedizione di un esasperante percorso ad ostacoli, nato già morto. Non è inutile infatti sottolineare che il piano denominato "road map" non è stato accettato da Israele neppure nelle sue linee essenziali, che, per quanto fumose, sono state subito contestate in quattordici punti. La caparbia violenza delle operazioni e l'incombenza israeliana nei territori (omicidi mirati, strangolamento economico, land-grabbing, assedio di Gaza), le inopinate iniziative americane (sabotaggio delle scelte palestinesi, politica tracotante e comunque sbilanciata per il Medio Oriente), la martellante "reazione ai fianchi" palestinese (infiltrazioni, lanci di razzi Qassam su Sderot, Ashkelon) e un atteggiamento europeo schizofrenico e vassallo (degli USA, delle proprie paure, delle proprie colpe) hanno fatto il resto. Sino ad oggi tra le due genti il muro stigmatizzato dalla Corte Internazionale di Giustizia non è il solo e non è più solido del muro di voluta incomprensione e sfiducia che altri erigono ed alimentano da decenni.

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