lunedì, agosto 13, 2007

La truffa del processo di pace in Medioriente

«Quando Ehud Olmert e George Bush si sono incontrati alla Casa Bianca, in giugno, hanno concluso che l'esautorazione violenta di Fatah da parte di Hamas a Gaza - che ha annullato il governo di unità nazionale palestinese patrocinato dai Sauditi alla Mecca in marzo - aveva dato al mondo una nuova 'finestra di opportunità' (mai un processo di pace fallito aveva goduto di tante finestre di opportunità). L'isolamento di Hamas a Gaza - concordavano Olmert e Bush - avrebbe consentito di assicurare concessioni generose al presidente palestinese Mahmoud Abbas, offrendogli la credibilità di cui aveva bisogno davanti al popolo palestinese per prevalere su Hamas. Sia Bush che Olmert hanno discusso a non finire sul loro impegno per una soluzione 'a due stati' del conflitto israelo palestinese, ma è la loro determinazione a distruggere Hamas piuttosto che a costruire uno stato palestinese, che anima il loro rinnovato entusiasmo nel far sì che Abbas appaia quello buono. Ecco perchè la loro aspettativa che Hamas venga sconfitto è illusoria. I moderati palestinesi non prevarranno mai su quelli considerati estremisti dal momento che ciò che viene considerato moderazione per Olmert è l'acquiescenza palestinese allo smembramento del proprio territorio da parte di Israele. Alla fine quello che Olmert e il suo governo sono disposti ad offrire ai palestinesi verrà respinto da Mahmoud Abbas non meno che da Hamas. Ugualmente illusorie sono le aspettative di Bush in merito a ciò che verrà raggiunto con la conferenza da lui recentemente annunciata per l'autunno prossimo (adesso la conferenza è stata degradata ad 'incontro'). Secondo lui tutte le passate iniziative di pace sono fallite in gran parte, se non esclusivamente, perchè i palestinesi non erano pronti per un loro stato. L'incontro si focalizzerà quindi strettamente sulla costruzione e la riforma delle istituzioni palestinesi sotto la tutela di Tony Blair, il neoaccreditato inviato del Quartetto. Nei fatti tutte le passate iniziative di pace non sono approdate a nulla per un motivo che, né Bush, né l'Unione Europea, hanno avuto il coraggio politico di riconoscere. Il motivo è il consenso raggiunto tanto tempo fa dall'establishment israeliano sul fatto che Israele non consentirà mai la nascita di uno stato palestinese che ostacoli l'effettivo controllo militare ed economico israeliano nel West Bank. Certamente Israele consentirebbe - meglio, insisterebbe con - la creazione di un certo numero di enclavi isolate che i palestinesi potrebbero chiamare stato, ma solo al fine di prevenire la creazione di uno stato binazionale in cui i palestinesi avrebbero la maggioranza. Il processo di pace in Medioriente potrà ben essere l'inganno più spettacolare nella storia della diplomazia moderna, dal momento che al fallimentare summit di Camp David e nei fatti assai prima, l'interesse di Israele in un processo di pace - diverso da quello di ottenere il consenso palestinese ed internazionale al mantenimento dello status quo - è stato un copertura per la sistematica confisca di terra palestinese e per un'occupazione il cui scopo, secondo l'ex capo di stato maggiore Moshe Ya'alon, è quello di 'inserire profondamente nella coscienza dei palestinesi il fatto che essi sono un popolo sconfitto'. Nel suo riluttante abbracciare gli accordi di Oslo e nella sua avversione per i coloni, Yitzhak Rabin sarebbe potuto essere l'eccezione, ma anch'egli non considerava possibile una restituzione dei territori palestinesi oltre quanto previsto nel cosiddetto Piano Allon, che consentiva ad Israele di trattenere la Valle del Giordano ed altre parti del West Bank...». [Henry Siegman - The London Review of Books - Vol 29, dd. 16 agosto 2007]

Sarebbe incredibile se, nonostante il proliferare di piani, conferenze, processi e percorsi di pace, la soluzione della questione israelo (ebraico) palestinese - essenzialmente 'non complicata' secondo il diritto internazionale ed umanitario - non sortisse alcun risultato, senza una spiegazione altrettanto chiara e semplice, dettata dal rifiuto spontaneo o coatto di vedere l'iniquità di una situazione che il contributo degli agenti internazionali occidentali ha originato e non vuole riconoscere. Il prenderne atto non giustifica certo l'ignoranza e la sufficienza con cui gli stessi agenti colpevoli si accostano al problema (con la inutile e rassegnata levità di un ramoscello d'olivo o l'arroganza di chi confida nella propria posizione di forza e vede, sbagliando, la possibilità di sfruttare a tempo indefinito un 'vantaggio' che la storia insegna altro non può essere che contingente), ma suggerisce l'esistenza di un imprescindibile punto di partenza, negato o avversato da molti, soffocato da altri nella retorica, nell'insipienza, nella malafede. Come sempre accade, infatti, il 'pre-occuparsi' di un problema risulta un comodo alibi per non 'occuparsene', in attesa di tempi migliori che non arrivano mai o - nell'ambito specifico - dell'opportunità ormai codificata e recepita in ogni dirigenza israeliana, di raggranellare ancora un po' di vantaggio (terra, posizione, acqua) sulla pelle degli occupati e loro sodali.

Risulta pertanto insopportabile vedere come il peccato originale israeliano, costituito dalla violenta appropriazione di terra altrui con il peloso benestare di quella parte del vecchio continente che scelse di non essere assassina per rimanere colonizzatrice, possa essere perpetuato e coccolato solo grazie a due precondizioni di fatto: il supposto debito morale europeo sopravvalutato in progressione esponenziale; l'altrettanto enfatizzato e virtuale interesse degli USA nella regione. Qualcuno sostiene, inoltre, probabilmente a buona ragione, che questo interesse americano non esista (o non esista più) ma venga oggi spudoratamente concimato dall'azione indefessa della lobby filoisraeliana. E che questo ultimo pensiero colga nel segno è dimostrato dalla violenta (ma sempre più scomposta) 'reazione' dei potentati filosionisti USA e, per quanto di loro pertinenza, europei, nei confronti di chi abbia l'ardire di teorizzare che la quantità di cattiva coscienza israeliana nei territori occupati, sia direttamente proporzionale - cioè proceda di pari passo - da un lato con la proclamata, fasulla reviviscenza di fenomeni di nuovo antisemitismo, dall'altro con un rinnovato allarmismo circa la sopravvivenza stessa dello stato ebraico. Illustrando con semplicità questa situazione, Alexander Cockburn rammenta che «nei vent'anni passati ho imparato che c'è un modo rapido per determinare esattamente quanto si sta comportando male Israele, c'è un vivace incremento nel numero degli articoli che accusano la "sinistra" di antisemitismo».

Ai portavoce sempre più numerosi e autorevoli di doveroso rimprovero e critica della violenza israeliana nei territori occupati fanno infatti e non a caso da immediato contraltare, voci disposte ad abbracciare con grande strepito l'idea di un improbabile rigurgito di odio 'razziale', comodamente indirizzato, per l'occasione, verso il sacrosanto disgusto per un comportamento politico, sociale, militare, qualificato iniquo secondo ogni regola o convenzione. Vista la palese inopportunità di discorrerne nel mondo occidentale in anacronistici termini di razza, di costumi o di religione, la vecchia accusa di antisemitismo viene quindi abbastanza agevolmente accomodata verso chi critichi il comportamento dello stato ebraico. Il gioco è fatto, l'antisionismo diventa antisemitismo, Israele diventa, così, 'l'ebreo delle nazioni' e allo stesso modo può avvampare l'insopportabile, truffaldino allarmismo di chi vorrebbe individuare nelle critiche aspre ma legittime, la ratificazione o la connivenza con una minaccia esistenziale diversa da quella a cui proprio le operazioni dello staterello teppista e militarmente ipernutrito forniscono il detonatore.

Al nuovo percorso-truffa ideato dall'establishment filo-israeliano, con ciò intendendo comprendere sia la dirigenza USA, ricattata dalla Lobby e rafforzata dall'ignoranza, sia quella europea, ricattata dalla paura e da un anacronistico ed ormai male indirizzato senso di colpa, è quindi inutile rispondere con ulteriori teorie o criticare senza costrutto - come tuttavia viene spontaneo - l'insipiente prosopopea delle scadenti pedine nostrane sulla questione mediorientale, quanto utile è tornare ai fatti, i pochi fatti certi che il diritto con tutti i suoi limiti ci concede e la legittimità internazionale impone, e pretendere la doverosa considerazione di quanto rappresentato da pochi semplici numeri registrati alle Nazioni Unite: 181, 194, 242, 338. Non sono da giocare al lotto e si può dunque pretendere da coloro che parlano in nostro nome e non sempre degnamente ci rappresentano che abbiano almeno idea di cosa si tratti.

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