Da 
destra e da manca si dice che delle miserie sessuali di un ex presidente
 del Consiglio interessi poco agli italiani o, più prosaicamente, che 
non freghi niente a nessuno. E ancora, che i magistrati italiani 
dovrebbero occuparsi di cose più importanti per il Paese. Il tutto con 
quella sufficiente superficialità che trasuda, di solito, dal miscuglio 
di comprensibile ignoranza e ingiustificata arroganza di chi non ha idea di leggi e di processi e per i propri limitati scopi non vuole nemmeno averne.
Sono i proclami diffusi da note bande mediatiche, testate quantomeno 
equivoche e pasionarie (ambosessi) della politica di contorno, che il 
più delle volte autorizzano il sospetto che chi parla o scrive sia più 
adatto al libro paga di un satrapo che ad esprimere in pubblico le 
proprie opinioni. Ma sono anche le grida della piazza meno qualificata e
 in più, nell'era di internet, le teorie twittaiole, da mezza frase e un
 quarto di pensiero, che atterrano a centinaia e migliaia sugli schermi 
dei computer.
Ma non dovrebbe essere difficile capire che il 
problema non è un politicante indecoroso, che la questione è generale, 
esorbita dalle piccolezze di questo o di quel personaggio passato, 
presente o (Dio non voglia) futuro, e coinvolge l'indispensabile senso 
di giustizia di una nazione. 
Infatti certamente lecita è la 
pretesa di tutti i cittadini di non essere rappresentati davanti al 
mondo politico e alle nazioni da minuscoli personaggi che, magari 
attraverso le proprie dubbie fortune e tramite i buoni uffici dei 
relativi onnipresenti lacché, finiscano per trasferire impuniti nelle 
istituzioni la propria sfacciata propensione a delinquere, per 
imbrattarle di ridicolo, per ammantarle di un inammissibile fumus da 
lupanare. Ma non è tutto.
Guardando infatti all'abisso di mille
 e mille processi penali in base ai quali "in nome del Popolo Italiano" 
centinaia di migliaia di piccole persone vengono e verranno punite per 
un delitto che dopo un dibattimento da pochi minuti si riterrà 
sufficientemente provato e che spesso si intuisce esser frutto di 
miseria culturale, morale ed economica, la coscienza di questa nazione 
ha il dovere di interessarsi e chiedere che almeno davanti alla legge - 
che conosce le regole ma non deve premiare furbizia né fortuna - si sia 
per una volta uguali.
E proprio per tutti, per gli ultimi, 
comprese quelle piccole persone che non hanno nulla e per questo non 
contano nulla, per quelli che davanti al giudice non sono altro che una 
disturbante annotazione statistica, deve sussistere la pretesa che, 
seppur si possa essere condannati in base alla legge, non basti 
possedere danaro, uomini e mezzi, per valere e contare di più davanti 
alla stessa legge.
mercoledì, maggio 22, 2013
domenica, maggio 05, 2013
The banality of male *
Questo sentimento, questo timore, si riflette nella paura di contravvenire alla regola che si vuole imposta dalla divinità ed essere per questo puniti e deve, nel disegno di chi ha confezionato il sistema, indirizzare le azioni della comunità per conseguire i vantaggi preordinati alla creazione del sistema stesso, quali sono stati – storicamente, a titolo esemplificativo – la conservazione del patrimonio e l’aspirazione ad una relativa quanto spesso sterile tranquillità sociale.
In molti casi, ma per lo stesso motivo, la paura è pura manifestazione dell’apparato maschile che ha creato il sistema e sotto questo aspetto è stata per millenni associata alla sottoposizione della donna all’uomo, inteso come maschio, che ne ha poi fatto applicazione nel sistema politico laddove l’autorità del potere si è infine sostituita o aggiunta alla presunta autorità di dio, sovente peraltro corrotta dalla innaturale ed interessata concezione del piacere fisico come situazione premiale per l’uomo, indebita per la donna e peccaminosa per entrambi.
Ma se non c’è la paura, il sistema – qualsiasi sistema, sia esso religioso o sociale – con il venir meno della regola cui la paura è preordinata, crolla.
Così, un sistema ispirato al primitivo principio per cui la forza fisica nel breve periodo prevale e in cui un autore maschio ha disegnato dio a propria immagine anche per trarne un’effimera convenienza, si ribella al dissolversi della paura da cui deriva la sua stessa esistenza. E lo fa nel modo più rozzo e banale, con la violenza.
Sotto un diverso profilo occorre poi aggiungere che al mantenimento del sistema che ha visto nel maschio l’incontrastato dominus di ogni situazione, si è aggiunta fino a tempi recenti (ed anche oggi) la volonterosa collaborazione, in un ruolo subordinato e spesso parassitario, di una donna che ha preferito adeguarsi acriticamente al sistema, facendolo proprio, per raccoglierne qualche residuale vantaggio, ma rendendosi per ciò stesso la peggiore – inconsapevole o subdola – nemica di se stessa.
Con questo non si vuole certo dire che un amante reietto o un padre ignobile elaborino pensieri più profondi di una pozzanghera per giungere a maltrattare e uccidere – ritenendosi abbandonati e disonorati – la compagna o la figlia viste come fedifraghe, ma solo che il loro patrimonio genetico e culturale, così come quello delle donne che non vi si oppongono e per questo lo sostengono, stenta a disfarsi della patologia di un giogo durato millenni, che, fuor della loro testa, è solo volgare ed incancrenito allineamento agli anacronistici vantaggi cui era ispirato.
[La banalità del maschio] *
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