lunedì, luglio 30, 2007

Moshe Dayan, pentimento dalla tomba

«Nel 1976, il generale e uomo politico Moshe Dayan si trovava nel marasma politico. La sua posizione era notevolmente sbiadita per gli abbagli presi nella preparazione della guerra dello Yom Kippur dell'ottobre 1973. Dayan sperava in una sorta di rientro politico e per questo proibì espressamente al giornalista Rami Tal, suo amico personale, di pubblicare i risultati di una lunga serie di interviste a lui rilasciate. Tal ha ricevuto di recente il permesso dalla figlia di Dayan, Yael, di pubblicare quel materiale. La prima intervista ebbe luogo il 22 novembre 1976». Uno stralcio dal sito israeliano haGalil onLine [La traduzione dall'ebraico è di Reuven Kaminer, dall'inglese è mia - link non più funzionante].

«Rapacità, semplice rapacità! DAYAN: ...Ma quello che volevo dire era che in due casi io non compii i miei doveri come Ministro della Difesa perchè non prevenni cose che ero certo dovessero essere fermate. Il primo episodio fu nel quarto giorno della Guerra dei Sei Giorni, quando una delegazione dei kibbutzim si incontrò con Eshkol per convincerlo ad iniziare una guerra contro la Siria. Li aveva mandati Dado [il generale David Elazar], che era il comandante del distretto nord ed aveva paura di essere lasciato fuori dalla guerra, così spedì i membri del kibbutzim. Quelli arrivarno ed inscenarono uno grande spettacolo per Eshkol: "Che succede? Ci stai abbandonando? Vuoi che i siriani restino indisturbati?" Robaccia di questo tipo. TAL: E tu dici che questo era superfluo? DAYAN: Era più che superfluo. Vedi, tu puoi dire cose come "i siriani sono dei furfanti, dovrebbero essere sistemati ed è questo il momento" e cose del genere, ma questa non è politica. Tu non sistemi il nemico perchè è un furfante, ma perchè ti minaccia. E i siriani, al quarto giorno di guerra, non erano una minaccia per noi. TAL: Ma si erano sistemati sulle Colline del Golan e... DAYAN: Lascia stare. So come sono iniziati almeno l'80% degli incidenti laggiù. Secondo me più dell'80%, ma diciamo l'80%. Succedeva così: mandavamo un trattore ad arare in qualche posto di nessun interesse, nella zona demilitarizzata, sapendo in anticipo che i siriani avrebbero iniziato a sparare. Se non cominciavano a sparare, avremmo detto al trattore di andare più avanti, fino a che i siriani non avessero iniziato ad innervosirsi e cominciato a sparare. Allora noi avremmo iniziato a fare fuoco con l'artiglieria e più tardi anche con l'aviazione, questo era il sistema. Lo misi in atto, e lo stesso fecero Laskov e Tzur [due precedenti comandanti in capo]. Lo applicò Yitzhak Rabin quando era lì (come comandante del distretto nord agli inizi degli anni sessanta), ma mi sembra che fosse Dado [David Elazar] più di chiunque altro a divertirsi con questi giochetti». TAL: Sono piuttosto stupito per quello che dici, ma perchè succedeva? [Dayan premette alla sua risposta un'analisi degli accordi di armistizio ed aggiunge] DAYAN: Cosa voglio dire con questo? Che allora pensammo - e il fatto continuò per un bel po' di tempo - che potevamo mutare le linee degli accordi di armistizio con azioni militari che erano qualcosa meno della guerra. Cioè, rubando un po' di terra e penzolando lì intorno finché il nemico non fosse sparito lasciandocela. Può essere assolutamente detto che questo sistema fosse in qualche modo ingenuo da parte nostra, ma devi ricordare che non avevamo l'esperienza di uno Stato...».

sabato, luglio 28, 2007

Caso Cipriani, il diritto e il rovescio

Il "famoso" decreto di estradizione nei confronti di Benedetto Cipriani in data 12 novembre 2005, opera dell'Ing. Castelli, è introvabile. Dal sommario della Gazzetta Ufficiale, a far tempo dal 12 novembre di quell'anno a tutto il 30 aprile 2006, semplicemente non si trova. O almeno io non lo trovo. Nel frattempo è valsa vale la pena di leggere la risposta di Mastella all'interrogazione di D'Elia circa l'esecuzione di quel provvedimento. Un piccolo capolavoro. Il ministro principia rammentando proprio le parole che la Corte Costituzionale (chiaramente, con la sentenza 223 del 1996) non avrebbe voluto più sentire ("Nel decreto è specificato che, se il Cipriani sarà condannato, nei suoi confronti non potrà essere irrogata e comunque eseguita la pena capitale"). E' evidente che, elidendo il secondo comma dell'art. 698 del codice di procedura penale (che parlava delle "assicurazioni" dello stato richiedente), la Corte ha inteso togliere dal mondo del diritto italiano la possibilità di considerare le "garanzie" in qualsiasi modo offerte all'estero. All'osservazione iniziale - che ha quindi, nel caso, il pregio di una chiacchiera da bar - sempre Mastella fa seguito sulla stessa falsariga ("Il governo degli Stati Uniti ha formalmente comunicato con nota verbale di aver accettato integralmente la condizione prevista dal decreto di estradizione" ecc. ecc.). Dopodiché il ministro passa a fare un po' di confusione tra fatti e reati ("...La sentenza, infatti, contempla l'ipotesi in cui la domanda di estradizione sia avanzata per un reato punibile con la pena capitale", "Nel caso del Cipriani, invece, l'estradizione fu domandata e concessa per un reato che, secondo l'ordinamento ..."). Infatti la norma di cui all'art. 698 cpp, nella parte dichiarata incostituzionale, non parlava di un "reato" punibile con la pena di morte, ma di un "fatto per il quale è prevista la pena di morte". La questione è piuttosto chiara, elidendo il secondo comma dell'art. 698 cpp, la Corte Costituzionale ha automaticamente tolto ogni margine di discrezionalità in relazione alla costruzione (ondivaga) del capo di imputazione, che è cosa ben diversa dal fatto (in se stesso). E per quel "fatto" - appunto - negli USA è prevista la pena di morte quand'anche la Procura e lo Stato del Connecticut abbiano deciso di contestare un reato che non la preveda, al solo scopo di ottenere l'estradizione, "assicurando" poi che il titolo del reato non potrà essere mutato (proprio come richiesto - sembra - nel decreto di Castelli all'alba del novembre 2005). Alla discrezionalità del nostro ministro abbiamo sostituito quella americana. Complimenti! Siamo in ogni caso ben lungi da quei principi assoluti che la Corte Costituzionale ha inserito nel corpo della sentenza 223/96 e in ispecie con il principio (disatteso - a mio parere - anche dal Consiglio di Stato), per cui: "..il divieto contenuto nell'art. 27, quarto comma, della Costituzione, e i valori ad esso sottostanti - primo fra tutti il bene essenziale della vita - impongono una garanzia assoluta. Non hanno fondamento i dubbi della parte privata sulla sussistenza di rimedi giudiziari nell'ordinamento statunitense a tutela della vincolatività dei trattati internazionali stipulati dal governo federale" [...] "L'assolutezza del principio costituzionale richiamato viene infirmata dalla presenza di una norma che demanda a valutazioni discrezionali, caso per caso, il giudizio di affidabilità e di effettività delle garanzie accordate dal Paese richiedente". E' solo il caso di aggiungere che, per converso e contrariamente a quello che sembra il lampante insegnamento della Corte, nella motivazione della sentenza il Consiglio di Stato ha stabilito che - nel caso - "La garanzia non deriva, in definitiva, dalle assicurazioni fornite dal Dipartimento della Giustizia statunitense ma dal sistema delle fonti normative applicabili in quel Paese dal Giudice penale". Di nuovo, si sostituisce alla discrezionalità del ministro, in Italia, quella del giudice (o del sistema) del paese in cui uno come Bush ha dato ingresso al Patriot Act!!

Da Anna, la compagna di Benedetto Cipriani, 28 luglio 2007: «Mi è giunta stamattina una lettera dagli USA.Finalmente ho notizie di Ben. Nuove non di certo completamente buone. Voglio riportare un sunto riguardo le vicende giuridiche. La giustizia americana non vuole che Ben torni in Italia per scontare la pena dato che non ha alcun accordo riguardo il rimpatrio da rispettare con il ministro Mastella. Qui ritiriamo in ballo il famoso decreto di cui nulla si sa,a cui non ci è dato accedere chissà perchè. Ribadisce Ben, a tal punto, che nemmeno il suo avvocato è a conoscenza del suddetto, per il momento. Già li si parla (e questo è un altro punto a favore della tesi di verdetto già emesso) di una condanna a 180 anni. Riguardo ancora il decreto, in esso dovrebbe essere specificato che a ben non sia inflitta la penna di morte avrebbe dovuto rispettare l'accordo di non mutare il capo d'accusa in modo da poter applicare la pena di morte, chi ci dice che questo non verrà fatto? Ho letto un Ben molto provato. Vogliamo ridargli un pò di fiducia,trasmettergli la nostra vicinanza e solidarietà di italiani cittadini dell'Italia e non di una "italietta" pronta a piegarsi davanti alle stelle e strisce? Scrivete a Benedetto, di seguito allego il suo recapito. Ringrazio e chiedo ancora scusa per gli errori, dovuti principalmente alla preoccupazione ed all'emozione: Ben Cipriani - IM 351906 - MacDougall/Walker Correctional Institution - 1153 East St. - South Suffield - 06080 - CT - USA

Ciao Anna, vedo cosa posso fare per diffondere il tuo appello. Intanto ti rispondo. Mastella (nella risposta a D'Elia) riempie il suo discorso di una "assolutezza" che la Corte Costituzionale ha escluso essere sufficiente. Dice il ministro: "Il governo degli Stati Uniti ...ha formalmente comunicato, con nota verbale del 27 giugno scorso, di aver accettato integralmente la condizione prevista nel decreto di estradizione che esclude la pena di morte" - e aggiunge in seguito - "Tale assolutezza trova del resto inequivoca conferma nell'ulteriore impegno, pure assunto formalmente dagli Stati Uniti con la stessa nota verbale, di consentire al Cipriani, in caso di condanna e su sua richiesta, di scontare parte della pena in Italia". Il Consiglio di Stato ha parimenti giustificato la propria decisione statuendo che "il reato per cui è accusato Benedetto Cipriani non prevede la pena capitale e i fatti per i quali l'estradizione è stata richiesta dagli USA non possono essere ivi riqualificati come elementi costitutivi di un reato punibile con la pena capitale, pena la violazione di una norma pattizia speciale e imperativa, recepita nell'ordinamento dello Stato richiedente". Questo significa, in soldoni, che gli USA si sono impegnati (pattiziamente, nel trattato Italia - USA) a non riqualificare il fatto con altro che preveda la pena di morte.Per quanto in concreto una decisione di segno diverso provocherebbe un incidente diplomatico e una bufera politica, questa garanzia non è ritenuta sufficiente dalla Corte Costituzionale, che, come ho già scritto, ha sentenziato che: "...non hanno fondamento i dubbi della parte privata sulla sussistenza di rimedi giudiziari nell'ordinamento statunitense a tutela della vincolatività dei trattati internazionali stipulati dal governo federale". In altre parole, la Corte Costituzionale non ritiene in generale sufficienti a garantire il principio assoluto di esclusione della pena di morte per un estradato, i rimedi eventualmente destinati a far rispettare il trattato stipulato fra Italia e USA nei singoli Stati dell'unione. Mi chiedo poi che significato e che valore possa avere l'impegno a far scontare "parte" della pena in Italia, ma senza leggere il decreto (e forse anche leggendolo) sembrano solo parole.

mercoledì, luglio 25, 2007

Proposta Olmert, uno scadente deja vu

"Il premier israeliano Ehud Olmert tende la mano al presidente dell'Anp Abu Mazen. Secondo il quotidiano dello Stato ebraico 'Haaretz', Olmert avrebbe offerto ad Abu Mazen un "accordo di principio" sulle caratteristiche del futuro Stato palestinese e sui legami con Israele da discutere fin da ora", così se ne esce il Corriere della Sera (Agr) all'alba del 25 luglio 2007. E quelle parole, "tende la mano", lasciano uno strato di unto metaforico che nessun pragmatico solvente riesce altrettanto metaforicamente a mitigare. Ma passiamo al merito di questa mano tesa.
Evidentemente per il premier israeliano Olmert il tempo si è fermato all'estate del 2000 e con fenomenale improntitudine tenta di ricondurre un capintesta palestinese oggi largamente delegittimato, il presidente Mahmoud Abbas, per le vie del totale insuccesso già percorse dal - pur sempre da molti compianto - padre-padrone Arafat.
Dopo aver letto le linee generali della proposta come riportate in un articolo apparso oggi su Haaretz, qualsiasi negoziatore palestinese degno di questo nome non potrebbe che alzarsi dal tavolo e salutare chiedendo - se del caso - chi sia l'artefice di questa buffonata a mezza strada tra il deja vu e l'incubo.
Dopo il disastro di Oslo, delle "dichiarazioni di principi" e loro corollari, delle fasulle offerte orali (con trucco) di Barak, la cui "generosità" viene tuttora pagata dalla gente (quella normale, quella che pensa a vivere o sopravvivere ed allevare i figli) di Palestina e Israele, leggiamo che il "Prime Minister Ehud Olmert is offering to hold negotiations toward an "Agreement of Principles" for the establishment of a Palestinian state on most of the territory of the West Bank and the Gaza Strip". In pratica un nuovo accordo a priori "sui principi", necessitato dal fatto che - testuali parole - "sarà molto difficile raggiungere un accordo sulle questioni relative allo status finale, quali i confini, Gerusalemme e i rifugiati" (e non parliamo per pudore degli insediamenti). Il resto a seguire, se e quando, sui punti che misero anche Arafat nell'impossibilità di elemosinare oltre.
Nelle piacevolezze della proposta, qui solo due esempi, si ripropone il medesimo vecchio escamotage di derivazione Beilin-Abu Mazen del 95, su tutti i punti poi ripresi a Camp David e, con qualche piccola eccezione, a Taba. Così è per Gerusalemme (non è uno scherzo! "The Palestinians will be able to declare Jerusalem their capital. In the past Olmert has hinted that he would be willing to withdraw from the Arab neighborhoods of East Jerusalem "on the edge," which have never been considered part of the historical city") laddove si tenta nuovamente di confinare la capitale palestinese al villaggio periferico di Abu Dis. E così è per gli insediamenti che permarrebbero - con tutto il contorno di esercito israeliano - nel cuore del West Bank ("large settlement blocs that will remain under Israeli control in the West Bank"), con il miraggio di improbabili compensazioni, che non pongono certo rimedio alla parcellizzazione del territorio del West Bank.
Il resto è sulla medesima falsariga ed ha il medesimo significato - il governo israeliano non persegue alcun concreto disegno di pace - e uno scopo in più: tentare in extremis la via della soluzione a due stati, ormai approdata alla fase enfisematoso colliquativa del cadavere.
Si spera, ma è forse una vana speranza, che non segua, ora, da parte europea, il coro dei più ingenui e dei più in malafede che non mancheranno di apprezzare o di spacciare questa indecorosa commediola quale segno di apertura e di buona volontà.
Si tratta in effetti di un muro ed è tanto alto e massiccio che neppure Mahmoud Abbas avrà la faccia tosta di riproporre alla sua gente questo reiterato tentativo di "pax romana", nemmeno a quella piccola quota che ritiene obtorto collo questione di sopravvivenza collaborare alla gestione della propria prigione a cielo aperto piuttosto che soccombere alla fame e - per un altro mezzo secolo - alla violenza e alle umiliazioni sotto un regime di apartheid.

martedì, luglio 24, 2007

Benedetto Cipriani, costruzioni o ricostruzioni

Oggi un giudice del Connecticut è chiamato a decidere se ci sono prove sufficienti per sostenere l'accusa in giudizio contro il nostro connazionale. Può essere utile un breve racconto della vicenda secondo la stampa americana (in particolare v. Journal Inquirer).

Benedetto Cipriani avrebbe assoldato Jose Guzman (26 anni, di Orlando), Erik Martinez (24 anni, di Hartford) e il cugino di Martinez, Michael Castillo (23 anni, di East Hartford), per uccidere Robert (Bobby) Stears, marito di una donna - Shelly - con cui aveva dal luglio 2001 - o aveva avuto, secondo lo stesso Cipriani - una relazione. Le autorità del Connecticut sostengono che Cipriani avrebbe deciso di uccidere Bobby Stears, 42 anni, dopo che Shelley si era rifiutata di lasciare il marito. Jose Guzman, uno dei tre sicari (che avrebbe materialmente esploso i colpi mortali contro Stears, il suo socio d'affari, Barry, e un loro impiegato, Lorne Stevens), si è dichiarato colpevole ed ha ammesso di aver colpito a morte i tre uomini dopo aver accettato di compiere l'omicidio su commissione per conto di Cipriani. Secondo le autorità di polizia anche Martinez avrebbe indicato Benedetto Cipriani quale leader del complotto.Barry Rossi (43) e Lorne Stevens (38), erano nello stesso garage B&B, gestito da Stears e Rossi, nel pomeriggio di venerdì 30 luglio 2003, quando, intorno alle 17.15, Jose Guzman - uno dei presunti killer - avrebbe affrontato Stears mentre questi stava lasciando il negozio, strattonandolo giù dal suo mezzo e riportandolo a forza nel garage. Una volta entrati, Guzman avrebbe ordinato ai tre sotto minaccia di un'arma di stendersi a faccia in giù. La polizia dice che ad ognuno dei tre uomini è stato poi sparato un colpo in testa. Successivamente un uomo che si era recato al garage per ritirare l'auto della moglie ha trovato i tre uomini agonizzanti e ha chiamato la polizia. La polizia sostiene che inizialmente Cipriani è stato rintracciato tramite le dichiarazioni di un uomo d'affari dei dintorni.
Questi avrebbe riferito che circa due settimane prima degli omicidi aveva visto per due volte un'auto con targa di New York parcheggiata fuori dal garage. Lo stesso testimone ha dichiarato di aver parlato, la seconda volta, con il conducente - la polizia dice che era Cipriani - e di aver preso nota della targa dell'auto. Quella stessa notte la polizia, ha interrogato Shelly Stears, che ha dichiarato di avere avuto una relazione con Cipriani. Questi - secondo la Stears - si era arrabbiato, circa un anno prima, perchè l'amante aveva rotto la relazione e voleva sistemare il prorio matrimonio. Ma la stessa Stears ha detto alla polizia di aver poi ripreso il rapporto con Cipriani e che quest'ultimo le aveva comprato dei regali.Il giorno degli assassini, sempre secondo la polizia, Shelly Stears avrebbe dichiarato di aver parlato con Cipriani intorno alle 16, circa un'ora prima degli omicidi e che Cipriani le disse che stava lasciando il suo lavoro a New York. Shelly Stears ha detto che Cipriani la chiamò poi altre due volte quel giorno e nel corso di una di queste conversazioni, intorno alle 18.15, le avrebbe chiesto dove fosse il marito. Il giorno dopo gli omicidi, la polizia di stato si recò presso la casa di Cipriani a Meriden, dove lo stesso confermò di avere avuto una relazione con Shelly Stears. Secondo la polizia egli disse che sapeva dell'autorimessa B&B da Shelly Stears, ma di non esserci mai stato, in apparente contraddizione con quanto un testimone (v. sopra) aveva dichiarato alle autorità. Secondo il rapporto della polizia Cipriani si sarebbe dimostrato inizialmente collaborativo, ma ad un certo punto avrebbe rifiutato di discutere le indagini. Il 7 agosto 2003, cioè una settimana dopo, nel giorno del suo compleanno, Benedetto Cipriani sarebbe infine volato in Italia.

Guzman, Castillo e Martinez sono stati arrestati solo nel dicembre 2003, dopo che un parente di Martinez avrebbe dichiarato alla polizia di aver dato un passaggio ai tre uomini, uno o due giorni dopo gli omicidi, fino ad uno supermercato di Wallingford per prendere dei soldi (5000 dollari). L'uomo avrebbe detto di aver chiesto loro in quell'occasione il motivo per cui avevano ricevuto quel danaro e che allora Martinez gli disse che Guzman aveva sparato a Stears, Rossi e Stevens. E' da sottolineare che, secondo la NBC (articolo del 18 dicembre 2003), proprio questo parente di Martinez avrebbe consentito alla polizia una svolta nelle indagini, rilasciando le proprie dichiarazioni dopo un arresto casuale per motivi di droga.
La madre di Martinez avrebbe inoltre incontrato Cipriani e la polizia afferma che così quest'ultimo avrebbe ingaggiato gli uomini per compiere gli omicidi. La sorella di Shelly Stears, Laurie Romaneck, avrebbe poi dichiarato alla polizia che la sorella le aveva riferito di essere spaventata da Cipriani e che questi una volta le aveva detto di volerle "portare via tutto quello che le era caro". Sempre secondo la Romaneck, Cipriani avrebbe pure minacciato Shelly di "andare al negozio e ammazzarli tutti". Per parte sua Shelly Stears ha dichiarato alle autorità di non aver mai discusso con Cipriani l'ipotesi di far del male o uccidere il marito. Gli investigatori dicono di aver trovato infine un legame tra il presunto mandante e i tre sicari esaminando le registrazioni telefoniche ottenute in base a un mandato.

Questa è - ripetiamo - la campana, in più punti inconsistente, della polizia e del procuratore di Hartford (USA).

Due dei presunti sicari hanno tuttavia accettato un accordo, confessando il loro ruolo negli omicidi e il terzo sta aspettando il processo. L'uomo che ha sparato, Jose Guzman, passerà la vita in prigione senza possibilità di rilascio, mentre Erik K. Martinez, che avrebbe acquistato l'arma, si è accordato per una condanna alla reclusione per un periodo tra i 25 e i 40 anni di prigione. E' sintomatico che, come parte dell'accordo, i due uomini testimonieranno contro Cipriani. La selezione dei giurati per il processo a Michael Castillo, l'uomo che secondo la polizia avrebbe trasportato Guzman al luogo dell'omicidio, dovrebbe invece iniziare questa settimana.

Risponde il 25 luglio su questo blog, Anna, la compagna di Benedetto Cipriani, con alcuni doverosi e significativi chiarimenti.

«Salve,sono Anna... Ho appena letto ed intendo ribadire che più di ricostruzione si tratta di costruzione.
Per ovvi motivi ritengo infatti che tutto quella che è stato scritto sia solo una comoda storia per cercare di dare un nome al mandante. Il giornale omette di riportare che tabulati telefonici richiesti dagli avvocati di Ben non collimano con quelli fatti pervenire dalle autorità statunitensi.
Che la signora Stears,unitamente alla signora Rossi (insospettabili?) sono le uniche che hanno beneficiato di una assicurazione sulla vita, guardacaso sottoscritta con particolari condizioni (ad hoc, nel caso specifico) e che per via di questa sono giunte notoriamente ai ferri corti.
Che la suddetta era stata alle dipendenze del marito nel B&B e da questi licenziata.
Che il marito della signora aveva un tenore di vita di gran lunga superiore a quello derivante dai proventi di una autofficina.
Che,- de relato - la signora non era nuova ad amicizie extraconiugali, quindi non solo con il Cipriani, per cui potrebbe in astratto essersi rivolta a qualcun altro per sbarazzarsi del marito (e anche dell'amante dato il caso) inopportuno e così godere del premio di assicurazione.
Come mai la signora, definita dai giornali locali esclusivamente come responsabile morale del delitto, non è stata mai sentita, in altra veste, dalle autorità d'oltreoceano?
Altra cosa abbastanza strana (o di prassi negli States?) il fatto che a Ben sia stata già sequestrata e poi venduta la sua casa per indennizzare gli eredi delle vittime.
Ma negli States non si è innocenti,come in Italia,fino a quando non ci sia stato un verdetto,sino al terzo grado di giudizio,al di sopra di ogni ragionevole dubbio?
Allora il processo è già scritto e con esso l'esito,di colpevolezza naturalmente.
Perchè considerare il delitto di stampo passionale ed abbandonare altre piste?
Forse perchè è la soluzione più facile comoda e spicciativa?
Forse perchè nella terra di libertà non si bada tanto ad avere IL colpevole ma UN colpevole?
Per me, per tutti noi Ben rimane innocente sin quando una giuria (siamo negli STATES) non lo riterrà colpevole. Ma il processo e la giuria saranno incondizionati ed incondizionabili? Il dubbio è forte e presente, visto i precedenti. E chi vigilerà?
Resta il fatto per ora che non riusciamo a capire come mai da Ben non ci giunga alcuna notizia. Che gli sia vietato o impedito? Non possiamo pensare che Ben di sua spontanea volontà non sia ricorso alla posta per darci sue notizie. Ci domandiamo delle sue condizioni fisiche, se ha bisogno di denaro per provvedere alle sue necessità.
Se il consolato italiano si è interessato a lui e se lo tutela adeguatamente.
Da parte delle autorità italiane tutto tace, impegnate come sono a cercare di risolvere o, finire di complicare, tutt'altri pasticci.
A mo' di Pilato l'Italia si è lavata le mani?
Chi e come controllerà che i patti tra il nostro stato e quello americano, che hanno consentito l'estradizione, vengano rispettati? E se no, in che modo Ben sarà tutelato?
Ben nota è la sudditanza che cert'uni italiani hanno nei confronti degli USA, a tal punto che la moglie di Calipari non potrà mai guardare negli occhi,in una aula di giustizia, l'assassino di suo marito,in quanto cittadino americano e come tale altamente tutelato dal governo. Altro esempio, il caro ministro, che in barba alla moratoria sulla pena di morte, dimentico delle scappatoie legali ricorse dagli americani, rammaricato dai diverbi diplomatici che sarebbero potuti sorgere, ha conccesso, subitaneamente l'estradizione. E visto che era combattutto tra l'idea di dimettersi e quella di restare (la più votata) voleva forse essere ricordato come il "giustoestradatore".
A tal proposito mi chiedo se sia il caso di ritirare, per non creare ulteriori questioni diplomatiche, dalla nostra TV la pubblicità di un noto caffè che paragonando il nostro a quello americano definisce quest'ultimo acqua!
NOBLESSE OBBLIGE!»
Anna

lunedì, luglio 23, 2007

Abunimah: "Superare il complotto contro la Palestina"

[Quanto segue è - quasi per intero - un significativo articolo di Ali Abunimah, pubblicato su Electronic Intifada del 18 luglio 2007]

"Siate certi che gli ultimi giorni di Yasser Arafat sono contati, ma consentiteci di finirlo a nostro modo, non a vostro modo. E siate pure sicuri che ...darò la mia vita per mantenere le promesse che ho fatto davanti al presidente Bush". Queste parole sono state scritte da Mohammed Dahlan - il signore della guerra le cui forze, appoggiate dagli USA e da Israele, sono state scacciate da Hamas nella Striscia di Gaza il mese scorso - in una lettera del 13 luglio 2003 all'allora ministro della difesa israeliano Shaul Mofaz e pubblicate sul sito di Hamas il 4 luglio di quest'anno.
Dahlan che nonostante il suo fallimento nel mantenere il controllo di Gaza rimane un autorevole consulente del presidente dell'ANP, Mahmoud Abbas, delinea il complotto per deporre Arafat, per distruggere le istituzioni palestinesi e rimpiazzarle con una leadership collaborazionista asservita a Israele.
Dahlan scrive della sua paura che Arafat voglia riunire il consiglio legislativo palestinese e chiedere di ritirare la fiducia all'allora primo ministro Mahmoud Abbas, che era stato nominato in precedenza, nel 2003, su insistenza di Bush, per limitare l'influenza di Arafat. Dahlan ha scritto che per prevenirlo era necessaria "coordinazione e collaborazione da parte di tutti", così come "sottoporre [Arafat] a pressione in modo che non possa fare questo passo". Dahlan rivela che "abbiamo già iniziato i tentativi di polarizzare il punto di vista di molti membri del consiglio legislativo con l'intimidazione e la corruzione, in modo che siano dalla nostra parte e non dalla sua [di Arafat]".
Questa lettera è un piccolo ma vivido elemento di prova da aggiungere alla esistente montagna di cospirazioni in cui la leadership di Abbas è coinvolta. In questo mese, da quando Abbas ha accreditato un "governo di emergenza" condotto da Salam Fayad, in stile Vichy, i capi storici di Fatah hanno manifestato la loro opposizione alle operazioni di Abbas, specificamente respingendo il suo ordine che i combattenti della resistenza palestinese vengano disarmati mentre l'occupazione israeliana procede indisturbata.
Ciò evidenzia che lo strappo tra i palestinesi non è oggi tra Hamas e Fatah, né tra "estremisti" e "moderati", o "islamisti" e "laici", ma tra la minoranza che ha affidato le propria fortuna alla collaborazione con il nemico, da una parte, e quelli che sostengono il diritto e il dovere di resistere, dall'altra.
I leader israeliani sono, per lo meno, di una chiarezza cristallina su quello che si aspettano dai loro servitori palestinesi. Così Ephraim Sneh, fino a tempi recenti vice ministro della difesa, esprime il consenso dell'establishment isreliano: "La missione più urgente e importante per Israele oggi è prevenire il fatto che Hamas prenda il controllo del West Bank. E' possibile farlo indebolendo Hamas attraverso tangibili progressi diplomatici, aiutando l'effettivo ed efficace funzionamento del governo del primo ministro palestinese Salam Fayad, creando le condizioni per un totale fallimento del regime di Hamas nella Striscia di Gaza" ("Come fermare Hamas", Haaretz, 17 luglio 2007) [...]

Dalla firma degli accordi di Oslo, Israele ha fatto tutto ciò che ha potuto per minare le prospettive di una sovranità statale palestinese, azzoppando significativamente l'Autorità Nazionale Palestinese. Che c'è dietro la decisione israliana di sostenere la leadership collaborazionista di Abbas? Perchè semplicemente non lasciare che collassi e dichiarare la vittoria?
I leader israliani sanno che mantenere il supporto ad uno "stato ebraico" etnico dipende dal nascondere la realtà che gli ebrei non costituiscono più la maggioranza della popolazione in Israele, West Bank e Striscia di Gaza, il territorio controllato dallo stato israeliano. Israele necessita della foglia di fico di una sovranità palestinese per togliere milioni di persone dai suoi registri, allo stesso modo in cui il Sud Africa dell'apartheid cercò di stendere la coperta delle "terre nere indipendenti" - Bantustans - per prolungare il controllo da parte dei bianchi e dargli una patina di legittimità. Se l'Autorità Palesinese collassa, Fatah, che non ha base poplare, collasserà con essa.
Quanto ad Hamas, esso sta ad un incrocio. Può sopravvivere al collasso dell'Autorità Palestinese ma che cosa diventerà? E' sorto da un segmento povero della socieà palestinese, da masse mobilitate con la religione, eppure porta un consenso assai più ampio per la sua resistenza contro Israele da parte dei palestinesi resi orfani dai loro leader voltagabbana ed affamati di una alternativa di principio. Hamas ha l'opportunità di articolare un'agenda che sia all'altezza delle aspirazioni della società palestinese in tutti i suoi aspetti, o può cascare nella trappola che gli viene preparata. [...]

Hamas si sta predisponendo ad accettare una soluzione a due stati proprio ora che la realtà del fatto che questa soluzione, suscettibile di salvare Israele come enclave di privilegi ebraici, sta sfuggendo di mano, comincia ad illuminare pure i sostenitori dell'industria del processo di pace di Oslo. Quanto più la soluzione a due stati "diventa meno probabile" - osserva Aaron David Miller, venticinquennale veterano del Dipartimento di Stato e anziana autorità nell'amministrazione Clinton al summit di Camp David del 2000 - "si parla sempre più tra i palestinesi di una soluzione ad uno stato, che naturalmente non è per nulla una soluzione e che significherebbe la fine di Israele come stato ebraico". ("La pace è fuori portata?", The Los Angeles Times, 15 luglio 2007)
Danny Rubinstein, columnist di Haaretz, prevede che "presto o tardi Hamas fallirà nella sua guerra contro Israele. Ma questo non significa che ci sia un ritorno ai giorni di Oslo ed alla visione di due stati". Piuttosto - teme - "ci saranno richieste sempre più pressanti da parte degli arabi palestinesi, che costituiscono circa metà degli abitanti di questa terra, che diranno: nelle condizioni attuali non possiamo stabilire un nostro stato e ciò che ci rimane da fare è chiedere diritti civili alla nazione che è nella nostra terra. Adotteranno gli slogan della battaglia degli arabi che sono cittadini israeliani e chiedono equità e la definizione di Israele come stato di tutti i suoi cittadini". ("Niente da vendere ai palestinesi", 16 luglio 2007)

Così possiamo capire che Abbas è ora per Israele l'ultima speranza nella lotta contro la democrazia. Una coalizione tanto patetica non può resistere alla via della liberazione.

giovedì, luglio 19, 2007

Ministri UE a Tony Blair, la solita zuppa

La vecchia Europa, da par suo, "arriva lunga". Sono passati sessant'anni dai nefasti della seconda guerra mondiale e dal corollario di sciagure iniettato in Palestina grazie alle interessate iniziative britanniche. Ne sono passati quaranta dalla guerra dei sei giorni, sette anni dal definitivo funerale del programma di Oslo, in realtà un aborto o al più un tentativo di tenere in vita il bambino senza fornirgli alcun nutrimento. Autoproclamatici membri, in quanto europei, dell'improbabile Quartetto finalizzato ad implementare una ancor più improbabile Road Map, leggiamo oggi i buoni propositi trasfusi nella lettera con la quale dieci ministri degli Esteri UE (tra di essi Massimo D'Alema) danno il viatico al nuovo inviato speciale in Medio Oriente (1).

E chi è costui? E' l'ex premier britannico, Tony Blair, già definito "uno degli artefici della distruzione proprio di quelle istituzioni che è stato ora incaricato di far rivivere" ed inviato speciale, appunto, oggi, di quell'organismo - il Quartetto - che è considerato in Palestina "organo vuoto, costruito per fornire legittimità alle incrollabili politiche filo israeliane dell'amministrazione Bush". (Osamah Khalil). E questo accade ancora una volta - come è stato rilevato - in esatta corrispondenza con il punto più basso della popolarità di un presidente americano uscente per gratificare Washington di un presentabile ed erudito portavoce delle fallimentari - o criminali - politiche americane in Medio Oriente. Clinton docet, ricordiamo Camp David, "invariabilmente questi tentativi di risolvere il conflitto arabo israeliano capitano quando il presidente USA è al suo punto di massima debolezza in politica interna".

Sia quel che sia (il discorso in realtà sarebbe poco complicato, ma abbastanza lungo) leggiamo questa lettera senza saltare a piè pari, per una volta, i convenevoli di rito e il preambolo in consueto stile "stracciamento di vesti". Fin dalle premesse possiamo capire che la posizione espressa al neo inviato speciale pecca di una condiscendente anzianità di vedute o addirittura, in taluni punti, di insipiente opportunismo. Lo possiamo constatare dalla subitanea enumerazione dei "fattori ostili" alla pace, come dal proposito di rivivificare la dirigenza dell'ANP (Fatah) giustamente ripudiata dal proprio popolo, come dal riproporre in extremis la soluzione a due Stati alla cui agonia tutti i membri del cosiddetto Quartetto hanno contribuito, per azione o per omissione. Occorre infatti una certa improntitudine nello stigmatizzare innanzi a tutto il "colpo di forza di Hamas" e molta malcelata piaggeria nel parlare di "attendismo americano", per poi mitigare - ma solo in seconda battuta - l'atteggiamento nei confronti del governo palestinese - quello eletto - e lasciar cadere in un silenzio consolatorio l'imbarazzante evidenza di una strategia americana fondata sui voleri delle lobby (anche, ma non solo, quella filo israeliana) e dei neoconservatori. La lettera aperta dei ministri UE non è poi esente da voli di fantasioso ottimismo, qual è l'idea della "concertazione rinnovata" del Quartetto e della Lega Araba e di rimarchevole miopia laddove si confida nel flirt di dubbia consistenza tra un presidente palestinese, delegittimato con l'intero suo entourage, e un premier israeliano a dir poco ondivago ed anelante al beneplacito della junta militare che governa il paese. Il tutto senza considerare che la dirigenza dell'ANP ha dimostrato di influire ben poco sulla gente che - ripetutamente tradita - l'ha buttata fuori da Gaza e messa ai margini di un percorso che dagli anni ottanta avrebbe dovuto avere come obiettivo la fine dell'occupazione e non l'autoreferenziale mantenimento a spese dei palestinesi di una struttura dirigenziale incapace, largamente antidemocratica e corrotta.

I dichiarati obiettivi della missiva non si scostano poi dalla retorica. L'idea di negoziati sullo statuto finale senza preliminari si scontra con la possibilità già prevista di un "percorso in fasi successive" già tragicamente sperimentato con gli accordi di Oslo ed il cui spirito e la cui lettera venivano largamente traditi dalle scelte espansionistiche israeliane mentre l'inchiostro era ancora fresco. L'utopia di fissare obiettivi realistici per la questione di Gerusalemme e dei rifugiati di per sé non significa niente se questi obiettivi sono affrontati - come è già accaduto - nel timore di un muro israeliano di illegittima ed inopinata intransigenza. Pacchi di risoluzioni ONU, intere enciclopedie e sessant'anni di violenza sono lì a ricordarci che non ci sono alternative al Diritto per aspirare alla definizione di una situazione illegittima e che la "sicurezza di Israele" non potrà mai prescindere dalla giusta definizione di un problema di sovranità in senso proprio, di confini surrettiziamente mai delimitati e di insediamenti abusivi. L'esplicito obiettivo di ottenere da Israele quasi a titolo di concessione per facilitare questo ennesimo percorso di pace la restituzione della totalità delle tasse dovute ai palestinesi, la liberazione di migliaia di prigionieri politici, il congelamento - bontà loro - della colonizzazione illegittima, sembra infine addirittura umiliante trattandosi nel caso della giusta pretesa di ottenere per i palestinesi un immediato anticipo sul doveroso ripristino della legittimità internazionale.

Ma - come sovente accade - il piatto forte dello scritto è alla fine, laddove è previsto che il rinnovato impegno del Quartetto sia finalizzato a "far diventare realtà la visione di due Stati, israeliano e palestinese, che vivono l'uno accanto all'altro in pace e in sicurezza", parole già sentite, già scritte e per decenni e mai corroborate dai fatti. Parole che ripropongono un'alternativa da moltissimi ormai considerata agonizzante in favore di una fatale per quanto dolorosa "One State Solution" (2).
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(1) Caro Tony, dopo dieci anni passati al servizio della Gran Bretagna, e mentre il mondo si stava già rammaricando di vederla lasciare le luci della ribalta, lei ha accettato una missione più complessa, addirittura più impossibile di tutte quelle in cui si era finora impegnato. Impossibile? Il compito, effettivamente, è tale da scoraggiare più di una persona.
Alla storia apparentemente senza fine di una pace tra Israele e i Palestinesi, si aggiunge oggi un insieme di fattori ostili: il colpo di forza di Hamas a Gaza ovviamente, le difficoltà politiche interne israeliane, l'attendismo degli Stati Uniti, la mancanza di convinzione dell'Europa, nonostante l'azione meritoria di Javier Solana, e soprattutto quella terribile sensazione di impotenza che sembra propagarsi in tutta la comunità internazionale.
C'è indubbiamente di che scoraggiarsi. E tuttavia, non possiamo impedirci, rallegrandoci della sua decisione di accettare questa missione, di provare un improbabile ottimismo. Prima di tutto, poiché noi conosciamo il suo coraggio, il suo senso del bene comune e la sua determinazione. Ma anche perché l'ampiezza della crisi ha provocato una presa di coscienza salutare, che paradossalmente rende finalmente possibile il progresso.
Tanto vale riconoscerlo subito, la prima constatazione di questa analisi è quella di un insuccesso condiviso che non possiamo più ignorare: la "road map" è fallita. Lo status quo che prevale dal 2000 non porta a nulla, lo sappiamo. Le condizioni troppo rigide che avevamo l'abitudine di imporre come preliminari alla ripresa del processo di pace non hanno fatto altro che aggravare la situazione.
L'immobilità timorosa della comunità internazionale ha provocato troppi danni. Questo bilancio negativo ci impone di cambiare approccio. Ci autorizza soprattutto a vedere più lontano. L'Europa ha il dovere di dirlo ai suoi amici sia israeliani che palestinesi. Poiché, se si accetta di cambiare prospettiva, se ci si azzarda a vedere la situazione con occhi nuovi, la situazione attuale offre anche le sue opportunità. Ne citeremo due. Per prima cosa, la presa di Gaza da parte di Hamas. Da questa sconfitta può nascere una speranza. Il rischio di guerra civile in Cisgiordania, le minacce della divisione di fatto della Palestina e del ritorno degli scenari giordano e egiziano di prima del 1967 possono effettivamente dare uno scossone. Il Presidente dell'Autorità Palestinese, con la sua tenacia nel favorire la pace e il dialogo e nel denunciare coraggiosamente il terrorismo, ci invita all'ottimismo.
Altro motivo di sperare: la determinazione dell'Arabia Saudita, degli Emirati e del Qatar a fianco dell'Egitto e della Giordania. Questi nuovi protagonisti sono in grado, con le loro considerevoli risorse, di portare un aiuto decisivo.
Questi due punti, caro Tony, ci autorizzano a ridefinire i nostri obiettivi. Sostenuti da una concertazione rinnovata del Quartetto e della Lega Araba (con Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Siria, Emirati) che associ le due parti (Olmert e Mahmud Abbas), questi obbiettivi dovrebbero ragionevolmente essere quattro:
a) Offrire una speranza, una vera soluzione politica ai popoli della regione. Questo passa attraverso negoziati, senza preliminari, sullo statuto finale, salvo che il percorso avvenga per fasi successive. Comprendendo le questioni di Gerusalemme, i rifugiati e le frontiere, questi negoziati permetteranno di fissare un obiettivo condiviso e realistico.
b) Prendere in considerazione il bisogno di sicurezza di Israele. Vale la pena esaminare l'idea di una forza internazionale robusta del tipo Nato o Onu capitolo VII. Questa avrebbe ogni legittimità ad assicurare l'ordine nei territori e a imporre il rispetto di un necessario cessate il fuoco. I rischi, ovviamente, sono elevati, ma questa forza può essere funzionante e sicura se noi rispettiamo due condizioni: che accompagni un piano di pace senza sostituirvisi e che si appoggi su un accordo inter-palestinese.
c) Ottenere da Israele provvedimenti concreti e immediati a favore di Mahmud Abbas, tra i quali il trasferimento della totalità delle tasse dovute, la liberazione di migliaia di prigionieri che non abbiano le mani macchiate di sangue, la liberazione anche dei principali leader palestinesi per assicurare il ricambio in seno a Fatah, il congelamento della colonizzazione e l'evacuazione degli
insediamenti selvaggi. Nessuno di questi provvedimenti può essere contestato per motivi di sicurezza. L'Europa e il Quartetto devono dirlo con fermezza e amicizia a Israele. È troppo tardi per tergiversare.
d) Non spingere Hamas a rilanciare. Questo implica riaprire le frontiere tra Gaza e l'Egitto, facilitare il passaggio tra Gaza e Israele, e incoraggiare l'Arabia Saudita e l'Egitto, come il Presidente Mubarak ha proposto, a ristabilire il dialogo tra Hamas e Fatah.
Questi quattro obiettivi sono alla nostra portata. Nonostante le circostanze drammatiche, nonostante le ferite e gli odi, ci troviamo di fronte a una occasione storica - forse l'ultima. Conosciamo la sua immaginazione. Siamo quindi certi che lei saprà trattare queste problematiche in modo globale. Da qui l'importanza di riunire senza indugio una Conferenza internazionale che comprenda tutte le parti del conflitto. Caro Tony, lei ha lo straordinario privilegio di poter far diventare realtà, la visione di due Stati, israeliano e palestinese, che vivono l'uno accanto all'altro in pace e in sicurezza. Sappia, che, in ogni giorno della sua missione, potrà contare sul nostro sostegno e la nostra adesione incondizionata.
(Lettera firmata dai 10 ministri degli Affari Esteri degli Stati mediterranei dell'Unione Europea, riuniti il 6 luglio 2007 a Portorose, Slovenia)
Ivailo Georgiev Kalfin (Bulgaria)
Yiorgos Lillikas (Cipro)
Bernard Kouchner (Francia)
Dora Bakoiannis (Grecia)
Massimo D'Alema (Italia)
Michael Frendo (Malta)
Luís Amado (Portogallo)
Adrian Cioroianu (Romania)
Dimitrij Rupel (Slovenia)
Miguel Ángel Moratinos Cuyaubé (Spagna)
(Luglio 2007)

(2) «...In spite of the fact that Abu Mazen's effort enjoys broad international and Arab support, the chances that it will succeed are slim. The reason is well known: Abu Mazen and Fatah have nothing to sell the Palestinian public. The vision of the independent state in the West Bank and Gaza, with East Jerusalem as its capital, gradually dissipated during the years of the Oslo process. What finally destroyed it were the continuing violence and terror, the number of settlers, which doubled (from about 100,000 in 1990 to about 200,000 in 2000), and the new Jewish neighborhoods in Jerusalem and its environs. Instead of reconciliation and coexistence, is the feeling, we got an intifada, murderous attacks, separation walls, settlement blocs and an apartheid state. The Palestinian public knows that it is impossible to turn back the clock. It was not corruption and an absence of leadership that brought down the Fatah movement, and neither are they not what is causing it to fail now - but rather the fact that the political path of Abu Mazen and his friends has reached a dead end, and cannot be resurrected. [...] Sooner or later Hamas will fail in its war against Israel. But that does mean that there will then be a return to the days of Oslo and the two-state vision, which has withered and died since September 2000. Rather, there will be increasingly strong demands by Palestinian Arabs, who constitute almost half the inhabitants of this land, who will say: Under the present conditions we cannot establish a state of our own, and what remains for us is to demand civil rights in the country that is our homeland. They will adopt the slogans of the struggle of the Arabs who are Israeli citizens, who demand equality and the definition of Israel as a state of all its citizens. That won't happen tomorrow morning, but there doesn't seem to be any option to its happening eventually. If there aren't two states for the two nations, in the end there will be one state». (Danny Rubinstein 'Nothing to sell the Palestinians' - Ha'aretz, July 16 2007)

martedì, luglio 17, 2007

Benedetto Cipriani, processo allo straniero

Benedetto Cipriani, il nostro connazionale repentinamente estradato negli USA solo venerdì scorso (12 luglio) nel silenzio o nel bisbiglìo appena percettibile dei maggiori media italiani, è stato portato davanti al giudice americano tre giorni dopo. Lunedì 16 luglio la Corte Superiore di Enfield, nel Connecticut, si è infatti riunita per procedere nei confronti di Cipriani, accusato di essere stato il mandante - nel 2003 - di un triplice omicidio. Vittime, Robert "Bobby" Stears, marito di Shelly, una donna con cui Cipriani aveva a suo tempo intrecciato una relazione amorosa tramite internet, Barry Rossi, socio d'affari di Stears, e un loro impiegato, il meccanico Lorne Stevens. Esecutori materiali del crimine, tre balordi assoldati da Cipriani, secondo il procuratore americano, per 5.000 dollari.

Le notizie diffuse dai quotidiani del Connecticut sul procedimento radicato di gran fretta nei confronti di Cipriani sono, per ora, insuscettibili di particolari commenti nel merito. La vicenda e il movente appaiono tuttavia singolari e sembra doveroso verificare tutto in sede di istruttoria dibattimentale, sempre che il processo vada a svolgersi nella sua sede propria, cioè quella davanti a un giudice e nella quale le dichiarazioni sommarie rese al procuratore distrettuale o alla polizia, così come quelle "de relato" e le semplici illazioni, debbono o dovrebbero trasformarsi in prove di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò nondimeno il procuratore di Hartford ha già manifestato lunedì, fuori dall'aula, il proprio preventivo rammarico per il fatto che la pubblica accusa non possa chiedere la pena di morte - condizione, questa, necessaria perchè fosse concessa l'estradizione dall'Italia - e di essere comunque personalmente lieto che Cipriani sia stato obbligato a fronteggiare nel Connecticut le accuse che gli sono state rivolte.

Molta enfasi è stata riservata dai quotidiani locali americani all'atteggiamento dei parenti delle vittime. Atteggiamento che, quand'anche comprensibile, non nasconde la consueta pregiudiziale ansia di punizione di un comodo colpevole, uno qualunque. Anche meglio se - come nel caso - questi è un outsider ed ha agito ai margini delle regole non scritte di certa pruderie americana (e non solo) laddove si è disposti ad accomunare con peculiare disinvoltura la figura dell'amante illecito e rovinafamiglie a quella dell'assassino. Ma tutto questo è in linea con i commenti agli articoli di cronaca apparsi nei giorni scorsi sulla rete americana. Proprio in questi è stato possibile cogliere, da un lato, affetto e stima particolari per le vittime, dall'altro disprezzo e riprovazione sia, naturalmente, per Cipriani - considerato già colpevole - sia per la sua ex amante. La vedova di Bobby Stears, infatti, pur non accusata formalmente di alcun crimine, resta per tutti o per quasi tutti la moglie fedifraga e pertanto la causa ultima del triplice omicidio. Non manca inoltre, purtroppo, la sensazione che ancora, negli USA del 2007 e nonostante una delle vittime sia verosimilmente di origine italiana (Barry Rossi), possa trattarsi per Benedetto Cipriani di un processo allo straniero e di una sentenza già scritta.

E così leggiamo fin d'ora che "gli anni di attesa sono finiti per le famiglie delle tre vittime dell'omicidio quando l'uomo accusato di essere il capobanda dei loro assassini è comparso in una Corte dello Stato dopo essere stato estradato dall'Italia [...] esattamente due settimane prima del quarto anniversario del massacro stile esecuzione in un negozio di accessori per auto a Windsor Locks" [...] E ancora - parole di Linda Binnenkade, sorellastra di una delle vittime, Barry Rossi - che "Benedetto Cipriani è un codardo, è scappato in Italia sperando di evitare la giustizia USA. Sono stati ben pochi - se pure ci sono stati - i momenti per ridere, per divertirsi, per il sorriso e per la pace. Oggi è uno di quei pochi momenti. Oggi il bene vince sul male. Oggi è il giorno dei buoni". (CT Central)

Il giudice Richard W. Dyer della Corte di Enfield ha fissato la cauzione in 7,5 milioni di dollari, aderendo alla tesi del pubblico ministero sul pericolo che Cipriani voglia fuggire nuovamente dallo Stato. La causa è stata trasferita alla Corte Superiore di Hartford davanti alla quale Benedetto Cipriani dovrà comparire il 24 luglio prossimo. Cipriani, per parte sua, non ha rilasciato dichiarazioni e ha detto poco anche durante il procedimento, riconoscendo solo di essere consapevole dei suoi diritti legali. E' stata programmata un'udienza preliminare per determinare se l'accusa abbia abbastanza prove per procedere in giudizio.

giovedì, luglio 05, 2007

Magdalam song

«Non c'è mai stato un summit più oscuro sul Medio Oriente. Il più oscuro possibile. I quattro leader a Sharm al-Sheik non si sono seduti insieme in una intima tavola rotonda. Ognuno sedeva da solo dietro un suo personale grosso tavolo. Questo assicurava una stridente separazione tra tutti loro. I quattro lunghi tavoli a stento si toccavano. Ognuno dei quattro leader, con i relativi assistenti dietro, sedevano come su isole solitarie nel mare infinito. Tutti e quattro - Hosni Mubarak, il re Abdallah di Giordania, Ehud Olmert e Mahmoud Abbas - in atteggiamento severo. Non si vedeva alcun sorriso. Uno dopo l'altro i quattro hanno scodellato i loro monologhi. Un esercizio di superficiale ipocrisia nel vuoto della falsità. Nessuno si è sollevato dalla putrida pozzanghera delle frasi moralistiche. Un breve monologo di Mubarak. Un breve monologo di Abdallah. Un monologo di misura media di Abbas. Un lunghissimo monologo di Olmert - un tipico discorso israeliano, fatto per istruire il mondo intero, una specie di sermone gocciolante di moralismo. Tenuto, naturalmente, in ebraico, con l'ovvio scopo di rivolgersi al suo pubblico di casa. Il discorso includeva tutte le frasi richieste. Le nostre anime aspirano alla pace. La visione di due stati. Non vogliamo dettar legge a un altro popolo. Per il bene delle generazioni future, bla bla bla. Tutto in stile coloniale standard, Olmert ha addirittura parlato di "Judea e Samaria" usando i termini ufficiali dell'occupazione. Ma, per "rinforzare" Abbas, Olmert si è rivolto a lui chiamandolo "Presidente" e non "Dirigente", il termine rigorosamente usato da tutti i rappresentanti isrealiani dalla nascita dell'Autorità Nazionale Palestinese. (I saggi di Oslo superarono il problema riferendosi - in tutte e tre le lingue - al capo dell'ANP con il titolo arabo di Ra'is, che vuol dire tanto presidente quanto dirigente. E la parola che non è mai comparsa in questo lungo monologo? "Occupazione". Occupazione? Quale occupazione? Dove c'è un'occupazione? Qualcuno ha visto un'occupazione?». No, in questo squallido quadretto - descritto da Ury Avnery - nessuno si sarebbe alzato per dire: ehi! sono quarant'anni che i palestinesi sono sotto occupazione, alla faccia dell'autodeterminazione, dei due stati, delle Convenzioni di Ginevra e di dozzine di risoluzioni ONU! E nemmeno - come sempre Avnery ipotizza - per sputare in faccia ad Olmert. Cosa che avrebbe ben potuto fare il redivivo Mahmoud Abbas, mentre veniva "rinforzato" dalle generose concessioni - questo mi ricorda qualcosa - enumerate senza pudore dal premier israeliano. E via di seguito. «Nemmeno nei sogni più sfrenati i partecipanti arabi avrebbero potuto fantasticare su qualcosa di meglio che vedere "alleviate le restrizioni", rendendo la vita della popolazione sofferente un pochino meno difficile. Restituendo ai palestinesi le somme derivanti dalle tasse sui loro redditi (ciò è a dire che Israele potrebbe restituire un po' dei soldi intascati). Trasferendo qualche blocco stradale che impedisce alla gente di passare da un villaggio [palestinese] a quello vicino (cosa promessa già molte volte e che non capiterà nemmeno stavolta perchè l'esercito e lo Shin Bet si oppongono. Olmert ha già annunciato che sarà impossibile per "ragioni di sicurezza")». Ma c'è qualcosa in più. Nella pratica delle generose aperture prospettate al summit: il possibile rilascio di 250 (duecentocinquanta) prigionieri politici palestinesi ingabbiati per "motivi di sicurezza", sui 10.000 (diecimila) che affollano oltre misura ed oltre capacità le galere israeliane. In pratica un indultino da sovraffollamento. E un motivo più subdolo. Verrebbero infatti liberati i soli prigionieri di Fatah - e non di Hamas - contribuendo così a gettare un altro po' di veleno e una briciola di cibo tra i topi da laboratorio palestinesi (*) che dalla gabbia avevano osato fraternizzare nella costruzione del "documento dei prigionieri", il progetto di governo di unità nazionale poi abortito. Continua così, con parole amare, il resoconto fornito da Avnery su Gush Shalom. Il pacifista israeliano forse comincia ad intravedere l'agonia della soluzione a due stati che ha sempre patrocinato e che studiosi del calibro del compianto Edward Said e di Ilan Pappé sono stati costretti ad archiviare. E noi? Noi siamo gli astanti, gli spettatori disinteressati europei. Lo abbiamo già fatto. E ancora siamo disposti ad assaporare la lettura dei novelli unti cantori nostrani della guerra di civiltà e anneghiamo nelle menzogne del mainstream, salate dallo strumentale suggerimento di un rigurgito di "nuovo antisemitismo" dagli amministratori della Lobby filo-israeliana e dai loro interessati valletti.

(*) «What happens when one and a half million human beings are imprisoned in a tiny, arid territory, cut off from their compatriots and from any contact with the outside world, starved by an economic blockade and unable to feed their families? Some months ago, I described this situation as a sociological experiment set up by Israel, the United States and the European Union. The population of the Gaza Strip as guinea pigs. This week, the experiment showed results. They proved that human beings react exactly like other animals: when too many of them are crowded into a small area in miserable conditions, they become aggressive, and even murderous. The organizers of the experiment in Jerusalem, Washington, Berlin, Oslo, Ottawa and other capitals could rub their hands in satisfaction. The subjects of the experiment reacted as foreseen. Many of them even died in the interests of science ...». (Gush Shalom - Crocodile Tears)