Concludendo la “terza parte” con la vittoria, nel 1992, dei laboristi – storicamente di “sinistra” – alle elezioni in Israele, ho scritto che questi (i laboristi) non necessariamente erano favorevoli ad una soluzione del problema palestinese. Non ho scritto “ad una soluzione favorevole ai palestinesi” ma – qualsiasi essa possa essere – “ad una soluzione [in generale] del problema”. Esiste infatti una terza alternativa: appoggiare, più o meno consapevolmente, la “non soluzione del problema”. Come si fa? Basta sostituire la parola “pace” con la frase “piano di pace”.
E infatti, tutti i progetti di pace elaborati dal blocco Israele/USA, patrocinati e propagandati dalla sinistra israeliana, prevedono immancabilmente un percorso – di solito elaboratissimo – per arrivare (se e quando) alle condizioni che consentiranno a chi detta le regole, Israele e USA, di ....concedere qualcosa al popolo palestinese. Inutile aggiungere che un “piano di pace”, se interessatamente ostacolato, può andare avanti all’infinito senza arrivare alla “pace”.
Non è questo il senso, letterale, nè lo spirito delle risoluzioni ONU. E il principio di autodeterminazione dei popoli non prevede alcun percorso ad ostacoli per raggiungere (la pace e) l’indipendenza. Nel caso della Palestina, poi, si tratta anche di restituire terre che nessuna norma internazionale oggi assegna al paese vincitore e occupante. Allora la cosa sarebbe semplicissima.
“Si rendono ai palestinesi le terre occupate nel 1967, anzi, quelle stabilite dall’ONU nel 47 e ce ne andiamo tutti a casa, felici e contenti?”. No.
Lasciando perdere qui (per comodità) gli interessi USA e occidentali in medioriente, c’è infatti in Israele chi pensa che temporeggiando e tirando avanti alla meno peggio si finirà per concedere ai palestinesi sempre meno o nulla. E chi pensa che – costi quel che costi – non si debba concedere nulla e combattere fino alla conquista dell’intera “terra biblicamente assegnata da Dio agli ebrei”. A loro volta, da parte palestinese, c’è chi è convinto che lo squilibrio demografico, nettamente in favore dei palestinesi, finirà per risolvere con i numeri l’intera questione nel giro di dieci o vent’anni. Questi sono solo i problemi più evidenti.
Poi c’è il problema dei coloni negli insediamenti ebraici nei territori occupati (che a Gaza erano solo circa 7500, ma nel West Bank sono circa 200 mila), che si sono piazzati lì da quarant’anni (perchè il governo israeliano ce li ha spinti) e ....il problema dei profughi palestinesi che sono quaranta o cinquant’anni che sono a “spasso” (perchè .... il governo israeliano ce li ha spinti).
Ma come se questo non bastasse, i palestinesi non hanno effettivamente le risorse e le strutture (politiche, sociali, economiche, lavorative ecc.) per aspirare – senza aiuti esterni e in tempi ragionevoli – all’indipendenza o almeno a non morire di fame e di sommosse. Circa 125 mila palestinesi lavoravano in Israele (prima della seconda intifada, quella del 2000, di cui parleremo più avanti) e a casa loro non trovano di che campare.
In ogni caso l’occidente (compresa l’Europa), gli USA e Israele non sono disposti a rischiare una nuova possibile “polveriera” in medioriente e quella attuale è dunque una pura situazione di forza (chi è più forte fa quel che vuole), di interesse e di opportunismo.
Anche solo pensare ad una possibile soluzione di questi ed altri tantissimi problemi della zona significherebbe aspirare al Nobel (uno qualsiasi). Ma se l’occidente – e in ispecie uno o più paesi europei – cominciasse a trovare conveniente una diversa situazione economica, sociale e culturale in Palestina (investendo a piene mani), dopo un certo periodo transitorio di legge della giungla, potrebbero crearsi le condizioni per una “pace interessata”. Il che non sarebbe del tutto male.
Eravamo al 1992 e lì siamo rimasti. Andiamo avanti.
martedì, ottobre 04, 2005
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1 commento:
Pipistro,
Thanks much for your comment
You are not forgettable!!!
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