giovedì, luglio 27, 2006

Bimbi e bombe

Nel giugno del 1967 - per farla molto breve e troppo semplice - l'esercito israeliano risponde ad un ammassamento di truppe egiziane ai suoi confini (in un periodo di rinnovato nazionalismo arabo e desiderio di rivalsa su impulso del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser) e attacca simultaneamente l’Egitto, la Giordania e la Siria. La guerra dura sei giorni e in massima parte grazie all'aviazione israeliana si sostanzia in un disastro per gli arabi. Israele occupa tutta la Palestina "rimasta" (cioè la Striscia di Gaza, controllata dall'Egitto, il West Bank, controllato dalla Giordania, e Gerusalemme Est), nonchè la penisola del Sinai (egiziano) e le alture del Golan (siriano). Più di 300 mila profughi palestinesi scappano in Egitto, in Giordania e in Siria. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU avrebbe poi adottato la risoluzione n. 237 richiamando il governo israeliano a facilitare il rientro dei profughi. Se non che, da quel giugno 1967, iniziano le "confische" di terra palestinese occupata di fresco (Gaza e West Bank) che viene dedicata illegalmente agli insediamenti di coloni israeliani. Torniamo alla guerra "dei sei giorni". Nel 1967 l'Italia, pur non essendone più inebriata, soffre ancora dei fumi dell'ex-colonialismo e, come gran parte dell'Europa, per la ricaduta morale delle gravissime colpe e per gli invincibili sensi di colpa indotti dalla Shoah. L'atteggiamento imperante in Italia è poi quello di considerare la gente di Palestina una muta di "beduini" ai quali anche le sputazzate dei nuovi colonizzatori non hanno potuto che giovare. Si parla molto, infatti, già in quel periodo, della trasformazione in frutteti rigogliosi della terra lasciata colpevolmente incolta dai nativi, obtorto collo "esiliati" dal 1948. Appunto nativi. L'osservazione più benevola è che "quegli arabi stanno scatenando la terza guerra mondiale" e la breve analisi casalinga precipita in tifo cieco da stadio e giorni e giorni di chiacchiere sulle gesta guerriere di Moshe Dayan. Gesta titolate e passate quotidianamente a grandi e piccini come non nuova rappresentazione dello scontro impari tra il piccolo Davide orbo e l'imponente malvagio Golia. E proprio i piccini subiscono il fascino monocolo di chi - non da solo - ha abbracciato l'idea di mantenere in perpetua sofferenza la vita dei residui ostacoli viventi di Palestina risparmiati dalla Nakba. Sono passati quarant'anni, gli eredi e i pupilli di Dayan (fra gli altri Sharon e Barak)hanno dato prova innegabile e costante della loro caparbia determinazione. I bambini italiani pensano probabilmente ad altro, non capiscono quel che passa la tv, né per la testa di chi decide. Come quelli libanesi, israeliani e palestinesi. Ma accanto a loro ogni tanto ancora oggi qualcuno muore, fatto a pezzi. Non capiscono ma possono morire per la paura cento volte al giorno. Non capiscono e subiscono a piccoli passi le emozioni ammalate dei "grandi". Non capiscono e poco per volta vengono messi in grado di apprezzare il fascino della bomba che squasserà il nemico.

Terra e pace

Insolenti e bituminose le parole di Simon Peres, il Nobel. Parole che resteranno incollate sulla pelle martoriata di un milione di nuovi profughi libanesi e sui cadaveri neri e secchi di quelli che sono stati oggi bombardati in casa, come sulle decine di migliaia di palestinesi vessati e umiliati e annichiliti, a Gaza e nel West Bank, a Hebron e a Gerusalemme Est, sulle colpe presunte di migliaia di prigionieri politici nelle galere di Davide, detenuti amministrativi trattenuti a piacere senza processo, sulle apparecchiature confiscate ai giornalisti, sui pacifisti maltrattati e bastonati, sugli anziani e le donne lasciati a cuocere e a marcire sotto il sole, tra gli insulti e l'umiliante trafila dei checkpoints, sui bambini che raccolgono gli sputi dei coloni, sugli ulivi sradicati, sull'acqua lesinata e negata. «E con chi dovremmo parlare? Si diceva scambiamo terra con pace, ci siamo ritirati in Libano e a Gaza da terra e mare e dov'è la nostra pace? Hezbollah parla di scambiare i due soldati che ha rapito? E poi? Ne rapisce degli altri? Qui si tratta di capire la crisi in corso. E se anche avessimo previsto l'attacco cosa potevamo fare? Come avrebbero reagito i nostri critici? No, noi ci difendiamo [...] Il dramma è capire cosa vogliono i palestinesi, qual è la loro razionale base di trattativa. Io non capisco ...». Molti non capiscono. Ha detto, scambiamo terra con pace, meglio: restituiamo terra e vogliamo pace. Una storia vecchia. Ma cosa vogliono i palestinesi? E dov'è la pace di Israele? Forse nel ventre sterile di una nazione che sta morendo e uccide il seme dell'altra che non è mai nata.

sabato, luglio 22, 2006

Il cancro

(Bahrain News Agency, Asia Times). Israele sostiene (o lascia sottintendere) che sono stati rapiti in territorio israeliano. Quindi scatena l'inferno, bombarda il Libano mentre l'Europa in parte si indigna (e tace) e in parte grida all'autodifesa (e farebbe meglio a tacere). Dopo aver mandato giù per buona e per anni la propaganda filo-israeliana al punto di passare per proposte le menzogne spudorate di Barak (che ha negato al suo popolo ed ai confinanti, per malafede, disonestà e incapacità, ogni possibilità di pacificazione sul confine siriano e ha fatto saltare ogni possibilità di accordo a Camp David), l'occidente lascia che il ricatto israeliano si sostanzi ancora una volta in una deliberata e criminale catastrofe umanitaria. Centinaia di morti tra i civili libanesi ed altre centinaia di migliaia di profughi devono pesare sulla coscienza di questa Europa vigliacca, posto che sulla proditoria arroganza della dirigenza israeliana e sulla disonestà del suo protettore americano non corrono il rischio di lasciare la minima traccia. Ma qualcosa si muove, l'incapacità di protetti e protettori di mantenere alto - nonostante l'impegno evidente o dissimulato di vassalli di ogni risma - il livello della disinformazione.
Un codardo silenzio è il cancro ormai endemico nella quasi totalità dei media occidentali allorchè si tratti delle malefatte di chi indegnamente ha governato e governa Israele, un piccolo Stato che la propaganda ha racchiuso nella disinformazione e nell'egoismo. L'invasione libanese ne è solo un ulteriore esempio. Il 12 luglio 2006, Israele manda i suoi soldati all'interno del territorio libanese, questi vengono arrestati nella città libanese di Ayta ash-Shab dalle milizie di Hezbollah che controllano la zona

«L'ultimo capitolo del conflitto tra Israele e Palestina è iniziato quando le forze israeliane hanno rapito due civili, un dottore e suo fratello, a Gaza. Un incidente per lo più ignorato dai media, ad eccezione della stampa turca. Il giorno seguente i palestinesi hanno fatto prigioniero un soldato israeliano e proposto un negoziato per scambiare i prigionieri - ci sono circa 10.000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Che questo «rapimento» sia stato considerato oltraggioso, mentre l'occupazione militare illegale della Cisgiordania da parte di Israele e l'esproprio sistematico di tutte le sue risorse - in particolare l'acqua - venga considerato spiacevole ma inevitabile è un tipico esempio del doppio standard continuamente impiegato dall'Occidente rispetto a ciò che viene fatto contro i palestinesi, sulla terra promessa loro dai vari accordi internazionali da settant'anni a questa parte. Oggi ad oltraggio segue oltraggio: missili artigianali incrociano missili più sofisticati. Questi ultimi in genere cercano il loro obiettivo proprio dove si ammassa la gente più diseredata, ancora in attesa di ciò che un tempo veniva definita giustizia. Entrambe le categorie di missili fanno a pezzi i corpi in maniera orribile. E chi, tranne i comandanti sul campo, può scordarsene anche solo un momento? Le provocazioni e le controprovocazioni vengono ogni volta contestate o acclamate, ma tutti gli argomenti a posteriori, accuse e promesse, finiscono col fungere da diversivo per allontanare l'attenzione del mondo da una lunga pratica militare, economica e politica il cui fine non è nient'altro che la liquidazione della nazione palestinese. Tutto ciò deve essere ribadito chiaramente perchè questa pratica, benchè spesso dissimulata o nascosta, ultimamente sta andando avanti sempre più rapida. E, secondo noi, va incessantemente ed eternamente riconosciuta e contrastata per quello che è». (John Berger, Noam Chomski, Harold Pinter, José Saramago)

E non bisogna nemmeno stupirsi dell'apparente consenso che regna in Israele sulle operazioni dei suoi dirigenti. Ce lo spiega Ilan Pappe, storico israeliano, professore all'Università di Haifa, intervistato su Democracy Now il 20 luglio 2006. Ma anche lì - c'è chi lo assicura - è questione di tempo.
Amy Goodman: Professor Pappe, we’re hearing over and over again in the U.S. media about how the Israeli population is fully behind their government, especially as the rockets continue to slam into Haifa, now Nazareth. Is this true?Ilan Pappe: Yeah, it is true. It is true that the Jewish society -- as you know, 20% of the Israelis are Palestinians, and I doubt very much whether they support this policy -- but it is true that the majority of the Jewish population supports the government, but they do it because they’re misinformed -- nobody in Israel can see what are the results of the Israeli bombing in Lebanon -- and because it is an indoctrinated society that, through the educational system and the media and the political system, gets a very distorted picture of the reality around it.
Il verme della disinformazione alligna e si diffonde nell'ignoranza, dove c'è comunicazione e diffusione delle notizie, dei fatti, la propaganda ha veramente vita dura. Sembra solo questione di tempo.

Più di 2500 persone hanno partecipato sabato 22 luglio 2006 a Tel Aviv ad una dimostrazione contro la guerra in Libano, marciando da piazza Rabin per incontrarsi a Cinemateque Plaza. La manifestazione è stata la prima di questo tipo di protesta contro l'offensiva israeliana in Libano. Diversamente da precedenti manifestazioni contro la guerra in Israele, le principali organizzazioni arabe - tra di esse Hadash e Balad - hanno partecipato in massa all'evento. Gruppi arabi e israeliani che normalmente non partecipano ad attività congiunte hanno unificato i loro slogan perchè questa guerra venga fermata e si sono visti nuovi volti tra i manifestanti. La dimostrazione ha ricevuto ampia copertura dai media ed ha avuto un tema inconsueto nelle precedenti occasioni dello stesso genere. Oltre alle normali proteste contro il primo ministro e il ministro della difesa con l'invito a rassegnare le dimissioni, c'è stata una peculiare protesta anti-americana. A fianco delle voci che gridavano "non uccideremo, non moriremo nel nome del sionismo" sono stati intonati canti quali "non moriremo e non uccideremo al servizio degli Stati Uniti" e slogan di condanna contro George W. Bush. Durante l'evento, si è formata una contro-dimostrazione nei confronti di chi dimostrava contro la guerra. Manifestanti di destra hanno gridato al loro indirizzo "traditori, ne abbiamo abbastanza di voi", dispiegando bandiere israeliane e delle Brigate del Golan. Ne è scaturito uno scontro tra gli attivisti mentre alcuni infuriati passanti hanno maledetto i manifestanti di sinistra chiamandoli "Hizbullahniks". Altri hanno lanciato sacchi di spazzatura agli attivisti gridando: "un arabo buono è un arabo morto!" e "se solo un razzo vi cadesse addosso!". Parecchie unità di polizia e delle squadre speciali hanno mantenuto in sicurezza lo scontro e tenuto separati gli attivisti. Nonostante i tafferugli, gli organizzatori della marcia hanno dichiarato di essere stati contenti del numero sorprendente di partecipanti ed incoraggiati dalla reazione del pubblico contro le operazioni in Libano. (Ha'aretz, Yedioth Ahronoth)

giovedì, luglio 13, 2006

Libano, venti di guerra

Libano sotto attacco, 13 luglio 2006. I caccia F 16 israeliani hanno attaccato l'aeroporto di Beirut e l'autostrada tra Beirut e Damasco. Minacciano di attaccare quartieri residenziali della capitale libanese. Più di cinquanta vittime civili, finora. Esistono parole come "sdegno" e "condanna" che le diplomazie occidentali disconoscono qualora implichino un giudizio deteriore sul comportamento dello Stato ebraico. Anche in virtù di questo atteggiamento l'establishment israeliano ha potuto costruire nel tempo, pressochè indisturbato, un muro di odio tra la sua gente - priva di colpa se non per l'acritico allineamento, generale miopia verso la propaganda e le menzogne - e il mondo arabo. Un muro assai più alto di quello imposto all'interno dei territori di Palestina illegittimamente occupati. Perpetuando anche sotto questo profilo la pluridecennale umiliazione di un popolo spossessato della propria terra. Esaurito da tempo il credito morale derivato dalla malattia occidentale che diede origine e fornì nutrimento alla Shoah, con piccole e grandi connivenze e nel silenzio omertoso dei governi europei, Israele ha costruito la propria prigione e come una belva ferita ha restituito infine violenza, sofferenza e prevaricazione. E lo fa ancora oggi a fronte della propria agonia demografica. Un piccolo stato che disconosce il diritto internazionale e trascura la sofferenza quotidiana che impone al popolo di Palestina e alla sua stessa gente. Un piccolo stato fondato sull'apartheid e dotato di una democrazia nominale che sulla propria macchina bellica, ma sui danari d'oltreoceano, ha fondato l'idea di poter imporre la propria "pax israeliana", la pace alle condizioni dettate dal più forte. Le condizioni che pretendono di guadagnare sicurezza senza passare per la giustizia. Un piccolo stato che sta seduto su centinaia di testate nucleari, si è dotato di un potenziale bellico imponente, di un esecutivo dalla retorica arrogante e irresponsabile e non perde occasione per rappresentare la propria natura di mina vagante, una spada di Damocle sospesa sul medioriente e sul mondo, oltre che una minaccia per la difficile esistenza dei suoi stessi cittadini. Non è più Davide - non lo è stato neppure nel 1948 (si legga la consistenza e distribuzione di uomini, mezzi e armamenti in "Vittime" di Benny Morris) - e minaccia di essere Sansone. Ma chi sono i filistei?

martedì, luglio 04, 2006

Pressure

Mentre il ministro degli interni Ronnie Bar-On avverte che i rapitori del caporale Gilad Shalit pagheranno un prezzo enorme, mai visto prima, se vien fatto del male a Gilad, ad alcune ore dalla scadenza posta dai rapitori (06:00 ora di Gerusalemme, 05:00 ora italiana), Zeev Boim, ministro israeliano per l'Absorption (ndr. assorbimento dell'immigrazione ebraica) dichiara: "agiremo secondo la dottrina di Jabotinski, rispondendo alla pressione con la pressione". E' invece comprensibilmente perplesso rispetto allo sfoggio di muscoli da parte dei vertici israeliani ed esprime tuttavia il suo disappunto in modo assai misurato il padre del caporale Shalit: "mi sembra singolare che dicano che lo Stato di Israele possa recuperare il suo potere di deterrenza sulle spalle di mio figlio Gilad, mi sembra veramente singolare". Un braccio di ferro, quindi, che appare impari e suscettibile a questa stregua di condurre rapidamente ad un epilogo ed alle sue estreme naturali conseguenze. Ma non è così. Più di un incubo impronunciabile gravita sulla possibile estensione di questo conflitto. La spirale di odio e di morte, il braccio di ferro israelo-palestinese può teoricamente essere condotto senza limite di tempo e - contingenza unica per un conflitto a base territoriale - di spazio. Tornando al "qui ed ora", basteranno le parole del Signor Shalit o gli inviti di autorevoli membri della comunità internazionale o il vago ricordo dell'esistenza di trascurate convenzioni umanitarie a moderare l'azione, sproporzionata, emessa dalle viscere del rullo compressore israeliano? Largamente esaurito il credito morale legato alle pesantissime colpe di chi ha assistito supinamente - o peggio - alla tragedia della Shoah, lo Stato ebraico avanza ancora le proprie istanze con riferimento al feticcio, spesso male indirizzato, della propria sicurezza. Senza considerare che tutti sono agevolmente in grado di valutare i fatti culminati nella crisi odierna. Contro la cattura di un soldato nel corso di un'azione di guerriglia da parte di militanti nemici, in territorio occupato, è in atto lo smantellamento di strutture civili necessarie per la sopravvivenza di un milione e mezzo di persone. E noi? E noi guardiamo, tra una partita e una velina, assistendo alle viete, patetiche manifestazioni di colpevole condiscendenza, alla smaccata paura di affrontare per quel che è, almeno con le parole, lo strumentale feticcio israeliano (e non solo), l'inesistente dio della sicurezza, nel caso all'ombra della spada di Damocle costituita dalla spuntata ma polivalente accusa di antisemitismo. Ingoiamo giorno dopo giorno le gelatinose parole dei nostri dirigenti, scarsi sacerdoti per malafede o peggio per ignoranza ed incapacità di pronunciare una parola consapevole sulla storia del disastro mediorientale. Intanto leggiamo dei reciproci proclami di vendetta che han fatto di quella terra martoriata un'arena dove è difficile ormai veder riversato altro che la rozza essenza dei peggiori.