martedì, luglio 04, 2006

Pressure

Mentre il ministro degli interni Ronnie Bar-On avverte che i rapitori del caporale Gilad Shalit pagheranno un prezzo enorme, mai visto prima, se vien fatto del male a Gilad, ad alcune ore dalla scadenza posta dai rapitori (06:00 ora di Gerusalemme, 05:00 ora italiana), Zeev Boim, ministro israeliano per l'Absorption (ndr. assorbimento dell'immigrazione ebraica) dichiara: "agiremo secondo la dottrina di Jabotinski, rispondendo alla pressione con la pressione". E' invece comprensibilmente perplesso rispetto allo sfoggio di muscoli da parte dei vertici israeliani ed esprime tuttavia il suo disappunto in modo assai misurato il padre del caporale Shalit: "mi sembra singolare che dicano che lo Stato di Israele possa recuperare il suo potere di deterrenza sulle spalle di mio figlio Gilad, mi sembra veramente singolare". Un braccio di ferro, quindi, che appare impari e suscettibile a questa stregua di condurre rapidamente ad un epilogo ed alle sue estreme naturali conseguenze. Ma non è così. Più di un incubo impronunciabile gravita sulla possibile estensione di questo conflitto. La spirale di odio e di morte, il braccio di ferro israelo-palestinese può teoricamente essere condotto senza limite di tempo e - contingenza unica per un conflitto a base territoriale - di spazio. Tornando al "qui ed ora", basteranno le parole del Signor Shalit o gli inviti di autorevoli membri della comunità internazionale o il vago ricordo dell'esistenza di trascurate convenzioni umanitarie a moderare l'azione, sproporzionata, emessa dalle viscere del rullo compressore israeliano? Largamente esaurito il credito morale legato alle pesantissime colpe di chi ha assistito supinamente - o peggio - alla tragedia della Shoah, lo Stato ebraico avanza ancora le proprie istanze con riferimento al feticcio, spesso male indirizzato, della propria sicurezza. Senza considerare che tutti sono agevolmente in grado di valutare i fatti culminati nella crisi odierna. Contro la cattura di un soldato nel corso di un'azione di guerriglia da parte di militanti nemici, in territorio occupato, è in atto lo smantellamento di strutture civili necessarie per la sopravvivenza di un milione e mezzo di persone. E noi? E noi guardiamo, tra una partita e una velina, assistendo alle viete, patetiche manifestazioni di colpevole condiscendenza, alla smaccata paura di affrontare per quel che è, almeno con le parole, lo strumentale feticcio israeliano (e non solo), l'inesistente dio della sicurezza, nel caso all'ombra della spada di Damocle costituita dalla spuntata ma polivalente accusa di antisemitismo. Ingoiamo giorno dopo giorno le gelatinose parole dei nostri dirigenti, scarsi sacerdoti per malafede o peggio per ignoranza ed incapacità di pronunciare una parola consapevole sulla storia del disastro mediorientale. Intanto leggiamo dei reciproci proclami di vendetta che han fatto di quella terra martoriata un'arena dove è difficile ormai veder riversato altro che la rozza essenza dei peggiori.

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