martedì, luglio 17, 2007

Benedetto Cipriani, processo allo straniero

Benedetto Cipriani, il nostro connazionale repentinamente estradato negli USA solo venerdì scorso (12 luglio) nel silenzio o nel bisbiglìo appena percettibile dei maggiori media italiani, è stato portato davanti al giudice americano tre giorni dopo. Lunedì 16 luglio la Corte Superiore di Enfield, nel Connecticut, si è infatti riunita per procedere nei confronti di Cipriani, accusato di essere stato il mandante - nel 2003 - di un triplice omicidio. Vittime, Robert "Bobby" Stears, marito di Shelly, una donna con cui Cipriani aveva a suo tempo intrecciato una relazione amorosa tramite internet, Barry Rossi, socio d'affari di Stears, e un loro impiegato, il meccanico Lorne Stevens. Esecutori materiali del crimine, tre balordi assoldati da Cipriani, secondo il procuratore americano, per 5.000 dollari.

Le notizie diffuse dai quotidiani del Connecticut sul procedimento radicato di gran fretta nei confronti di Cipriani sono, per ora, insuscettibili di particolari commenti nel merito. La vicenda e il movente appaiono tuttavia singolari e sembra doveroso verificare tutto in sede di istruttoria dibattimentale, sempre che il processo vada a svolgersi nella sua sede propria, cioè quella davanti a un giudice e nella quale le dichiarazioni sommarie rese al procuratore distrettuale o alla polizia, così come quelle "de relato" e le semplici illazioni, debbono o dovrebbero trasformarsi in prove di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò nondimeno il procuratore di Hartford ha già manifestato lunedì, fuori dall'aula, il proprio preventivo rammarico per il fatto che la pubblica accusa non possa chiedere la pena di morte - condizione, questa, necessaria perchè fosse concessa l'estradizione dall'Italia - e di essere comunque personalmente lieto che Cipriani sia stato obbligato a fronteggiare nel Connecticut le accuse che gli sono state rivolte.

Molta enfasi è stata riservata dai quotidiani locali americani all'atteggiamento dei parenti delle vittime. Atteggiamento che, quand'anche comprensibile, non nasconde la consueta pregiudiziale ansia di punizione di un comodo colpevole, uno qualunque. Anche meglio se - come nel caso - questi è un outsider ed ha agito ai margini delle regole non scritte di certa pruderie americana (e non solo) laddove si è disposti ad accomunare con peculiare disinvoltura la figura dell'amante illecito e rovinafamiglie a quella dell'assassino. Ma tutto questo è in linea con i commenti agli articoli di cronaca apparsi nei giorni scorsi sulla rete americana. Proprio in questi è stato possibile cogliere, da un lato, affetto e stima particolari per le vittime, dall'altro disprezzo e riprovazione sia, naturalmente, per Cipriani - considerato già colpevole - sia per la sua ex amante. La vedova di Bobby Stears, infatti, pur non accusata formalmente di alcun crimine, resta per tutti o per quasi tutti la moglie fedifraga e pertanto la causa ultima del triplice omicidio. Non manca inoltre, purtroppo, la sensazione che ancora, negli USA del 2007 e nonostante una delle vittime sia verosimilmente di origine italiana (Barry Rossi), possa trattarsi per Benedetto Cipriani di un processo allo straniero e di una sentenza già scritta.

E così leggiamo fin d'ora che "gli anni di attesa sono finiti per le famiglie delle tre vittime dell'omicidio quando l'uomo accusato di essere il capobanda dei loro assassini è comparso in una Corte dello Stato dopo essere stato estradato dall'Italia [...] esattamente due settimane prima del quarto anniversario del massacro stile esecuzione in un negozio di accessori per auto a Windsor Locks" [...] E ancora - parole di Linda Binnenkade, sorellastra di una delle vittime, Barry Rossi - che "Benedetto Cipriani è un codardo, è scappato in Italia sperando di evitare la giustizia USA. Sono stati ben pochi - se pure ci sono stati - i momenti per ridere, per divertirsi, per il sorriso e per la pace. Oggi è uno di quei pochi momenti. Oggi il bene vince sul male. Oggi è il giorno dei buoni". (CT Central)

Il giudice Richard W. Dyer della Corte di Enfield ha fissato la cauzione in 7,5 milioni di dollari, aderendo alla tesi del pubblico ministero sul pericolo che Cipriani voglia fuggire nuovamente dallo Stato. La causa è stata trasferita alla Corte Superiore di Hartford davanti alla quale Benedetto Cipriani dovrà comparire il 24 luglio prossimo. Cipriani, per parte sua, non ha rilasciato dichiarazioni e ha detto poco anche durante il procedimento, riconoscendo solo di essere consapevole dei suoi diritti legali. E' stata programmata un'udienza preliminare per determinare se l'accusa abbia abbastanza prove per procedere in giudizio.

7 commenti:

Katia Anedda ha detto...

Se non li fermiamo non è il primo e non sarà l'ultimo
visitate il sito www.carloparlanti.it un altro connazionale assurdamente estradato e firmate la petizione per chiedere chiarezza. Carlo legalmente non rischia la pena di morte ma lo stanno gia uccidendo ha contratto malattie e lo torturano giornalmente:

di Gabriele Ferraresi

Carlo Parlanti: presunto colpevole

Di certe storie si parla sempre troppo poco; e di questa poi in particolare, che non è neanche facile da seguire, che è una storia complicata, seppur cristallina nel suo orrore, con un sacco di date e nomi da ricordare, non si parla più. In passato se ne è parlato si, ma di certo non abbastanza, o non abbastanza da fare massa critica perché succeda qualcosa. Dal 3 giugno 2005 Carlo Parlanti (nella foto) si trova rinchiuso nel carcere di Avenal, California: è stato condannato per reati che non ha mai commesso, accusato da una teste squilibrata, durante un processo farsa. Possibile? Negli Stati Uniti? Nella land of freedom che qualcuno, magari a capo di qualche quotidiano d’opinione di poche pagine, considera tale? Si, possibile.
Carlo Parlanti nasce a Montecatini nel 1964, cresce in una famiglia come tante altre, studia allo scientifico, poi, all’università, Fisica. A venticinque anni è a Milano, a cercarsi un lavoro: è uno sveglio, che sa studiare, e finisce che manda un curriculum ad un’importante multinazionale alimentare, una di quelle oggi più osteggiate. In epoca pre-global Carlo Parlanti ha bisogno di campare: e inizia a lavorare in Nestlè, fa l’analista di sistemi e il project manager, si direbbe oggi.

Fa carriera in fretta, si sposta spesso in giro per l’Europa, è uno a cui quella vita piace, sempre in giro, mai un giorno uguale ad un altro. A un certo punto cambia, di punto in bianco, così: è uno che dalla sera alla mattina è capace di partire per l’America. E lo fa, nel 1996: prende e parte, a quel punto non lavora già più in Nestlè, ma per la Dole: la carriera va a gonfie vele. Oltre al lavoro, però, c’è un’altra passione nella sua vita, le donne. Tante, con cui si lega per poche settimane o qualche mese, per un paio d’anni o alcuni giorni. Comunque, tante: anche da quel versante le cose non vanno affatto male, anzi, sembra una vita di quelle da spot, vite in ordine, pulite, progettate per essere invidiate. Sembra.
L’anno è il 2001: Carlo Parlanti conosce una donna, Rebecca McKay White. Lei è del 1959, ha qualche anno in più, e li dimostra tutti, si conoscono ad aprile, lavora in una gioielleria dove Carlo Parlanti va a cambiare la pila dell’orologio. Sono proprio i mesi vicini all’undici settembre quelli in cui i due si conoscono meglio; a novembre Rebecca McKay White perde il lavoro, è in un momento di difficoltà, in California c’è crisi, c’è paura e c’è recessione. Soprattutto c’è una catastrofe dall’altro lato dell’America che ha appena colpito tutto il pianeta. I due si spostano da Monterey al Westlake Village, vicino a Malibu. Vivono sotto lo stesso tetto, la casa di Carlo: i mesi passano, arriva un anno nuovo, il 2002.
L’estate del 2002 è il momento chiave: Carlo Parlanti ci pensa da un po’ a tornare in Italia, a far fruttare l’esperienza americana, a spendere il know-how acquisito nel grande gruppo internazionale. Oltretutto, è stufo di Rebecca McKay White, non ce la fa più, vuole lasciarla: e tutte queste cose, lui che è un tipo che sa ripartire da zero senza fiatare, prende e le fa. Il 16 luglio 2002 la storia con Rebecca McKay White finisce: come mai una data così precisa? Perché ci sono varie email spedite ad amici, oltre alle dichiarazioni del processo, che lo testimoniano. Rebecca McKay White viene “messa alla porta” da Carlo Parlanti, che a quel punto ha praticamente deciso di mettere la parola fine all’avventura oltreoceano.
Due giorni dopo, il 18 luglio 2002, la donna che ha appena lasciato, sporge denuncia contro di lui: racconta di una notte in cui Carlo Parlanti l’avrebbe prima sequestrata, poi picchiata, in seguito sodomizzata costringendola a praticare del fist fucking, e infine, dopo averla legata con delle fascette di plastica, violentata ripetutamente. Accuse gravissime, accuse che meriterebbero indagini approfondite, perizie, testimoni; in una parola, prove.
Ad agosto Carlo Parlanti torna in Italia: sarà libero e ignaro della vicenda fino al mese di luglio del 2004, quando verrà fermato all’aeroporto di Düsseldorf, dove scoprirà un mandato di cattura internazionale col suo nome sopra.

DUE ANNI DI BUIO

Cosa succede dall’estate del 2002 all’estate del 2004? Due anni di blackout, due anni in cui Carlo Parlanti torna a lavorare in Italia e in Europa, a fare quello che faceva prima. E Rebecca McKay White? Negli Stati Uniti, ad aspettare. Ad aspettare che, complice un giro di vite californiano riguardo ai reati a sfondo sessuale, Carlo Parlanti torni negli states, ma da imputato. Ad aspettare di potersi godere per il resto dei giorni una vendetta per essere stata scaricata, che le concederà anche una piccola “pensione” vitalizia in quanto vittima di violenza sessuale.
Peccato che non sia accaduto nulla del genere, che le violenze restino presunte e senza prove, ma lo vedremo meglio successivamente. Proseguiamo con ordine: dopo essere rimasto per circa un anno incarcerato in Germania, dall’estate del 2004, alla primavera del 2005, senza che ci fossero prove, evidenze, fatti, che giustificassero il suo fermo, viene estradato. Questo malgrado il suo legale in Germania, Franzisca Lieb, cerchi di portare avanti ricorsi su ricorsi riguardo alla patente inammissibilità dell’estradizione, e lo stesso faccia anche Cesare Bulgheroni, il legale italiano di Carlo Parlanti, che tenta un ricorso presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sempre per violazione dei trattati internazionali di estradizione. Senza successo.
Il 3 giugno 2005 il manager sempre in giro per il mondo, sempre pieno di donne, uno che ancora un po’ non sa neanche come ci è finito in quella cella a Düsseldorf, si trova impacchettato su un aereo, destinazione, California.

IL PROCESSO

Trasferito da Düsseldorf a Ventura, in California, Carlo Parlanti si trova a vedere istruito contro di lui un procedimento penale. Il processo produrrà una serie inimmaginabile di prove create dal nulla, - a volte comparse direttamente, come nel caso delle foto, su richiesta del district attorney - di testimonianze ritrattate e confuse, di accuse prive di fondamento e indimostrabili. Nel dettaglio; il procuratore distrettuale parla di Carlo Parlanti, il project manager in giro per il mondo, uno che viaggia in continuazione, uno pieno di donne, come un delinquente.
Si parla di precedenti penali per rapina a mano armata, violenze assortite, tutti reati commessi in Italia; peccato che l’estratto della fedina penale del Parlanti sia lindo, pulito, come un lago senza fango, direbbero in un film agghiacciante almeno quanto questa vicenda. E’ solo l’antipasto: una delle dichiarazioni più incredibili di Rebecca McKay White, riguarda l’alcool che Carlo Parlanti avrebbe ingerito, prima di abusare di lei, nella notte del 29 giugno. Quattro litri di chardonnay in circa cinque ore; una quantità che l’avrebbe portato alla morte, visto che comporta un BAC – il blood alcool content - di circa 0,63, ed il coma etilico sopraggiunge già intorno a 0,40. Fosse la sola dichiarazione assurda: Rebecca McKay White in precedenza aveva già ritrattato la data della violenza, passando dal 6 luglio al 29 giugno 2002 - evidentemente per guadagnare qualche giorno - allo scopo di giustificare l’assenza di ematomi visibili, ed il non poter essere oggetto di un med-legal, l’esame ginecologico cui vengono sottoposte le vittime di violenze sessuali.
Già, perché riguardo alla notte del fist fucking, Rebecca McKay White racconta di un’emorragia fortissima in seguito al braccio che Carlo Parlanti le avrebbe prima infilato a pugno chiuso nella vagina, e poi, con il palmo della mano aperto, nel retto. Un’emorragia che, sempre secondo Rebecca McKay White, aveva lasciato tracce nel letto, chiazze di sangue che erano passate attraverso le lenzuola fino a inzuppare il materasso. Superfluo dire che al momento delle denuncia, la polizia si reca in casa e non trova nulla. Trova l’ordine, trova il letto rifatto, trova la vita da spot di Carlo Parlanti. La parete di cartongesso contro la quale Rebecca McKay White dichiara di essere stata sbattuta con il viso per decine di volte, perfettamente integra, è tutto perfettamente in ordine. Nessuno ha visto operai o qualcuno che possa avere effettuato delle riparazioni. Carlo Parlanti nel frattempo è altrove, sempre negli Stati Uniti, a Gulfport, nello stato del Mississippi. Non sa nulla.
La donna già in passato, in occasione del divorzio dal primo marito, aveva manifestato segnali di instabilità psichica, ora durante il processo, ammette candidamente di avere problemi con la memoria a breve termine, il che torna utile, se si deve giustificare davanti ad un avvocato, davanti ad una corte, ad una giuria, come mai si è voluto ritrattare, anticipandolo di una settimana, il giorno più traumatico della propria vita. Ricordate? Dal 6 luglio, al 29 giugno del 2002. Difficile confondersi, tanto più se si presenta la denuncia per i fatti il giorno 18 luglio. In un lasso di tempo tanto breve, una settimana è un bel po’ di tempo, per confonderne una con un’altra; una settimana come centinaia di altre, con una nella quale si hanno subito violenze raccapriccianti.

LE FOTO

Una delle prove più sconvolgenti, presentate da Rebecca McKay White, e incredibilmente ritenute valide, sono le due foto in cui è ritratta con un vistoso ematoma in corrispondenza dell’occhio sinistro. E’ una foto che compare dopo anni dalla denuncia, dopo tre anni, in pratica su richiesta del district attorney: ed è un falso. E’ un falso che però risulterà decisivo per la condanna di Carlo Parlanti. Perché è un falso? Bisogna osservare, neanche troppo accuratamente, le due immagini, quelle presentate dopo tre anni, quelle con l’occhio sinistro macchiato da un livido bluastro, e un’altra immagine, scattata dalla polizia di Ventura in occasione della denuncia, il 18 luglio 2002. La stessa persona, che però presenta qualche anno di differenza, un taglio di capelli diverso, la pelle più liscia. Non solo: in sede dibattimentale Rebecca McKay White sostiene di essersi scattata quelle foto nel bagno della casa di Carlo Parlanti, seduta sulla toilette. Purtroppo la memoria – in fondo l’aveva dichiarato, di avere problemi con la memoria a breve termine… - le gioca uno scherzo: il bagno di Carlo Parlanti è tinteggiato di giallo. Le foto presentate da Rebecca McKay White, scattate con una compattina usa e getta, hanno uno sfondo bianchissimo con riflessi azzurri. Nonostante sia evidente si tratti, si, della stessa persona, ma in anni e luoghi differenti – dettagli da niente, per una prova di reato… – rispetto a quelli dove fu commessa la presunta violenza, incredibilmente viene emessa una condanna contro Carlo Parlanti.

LA CONDANNA






Sono nove gli anni di reclusione cui viene condannato Carlo Parlanti. Da scontare nel penitenziario di Avenal (nella foto), dove le cose si mettono, prima ancora che male, peggio: viene coinvolto in una rissa, non si sa come, ma contrae l’epatite C. Soffre di piorrea, perde i denti. Reagisce male, come reagisce un innocente in galera senza un motivo.
Da tempo sono attivi un sito, www.carloparlanti.it che si occupa nel dettaglio di questa allucinante vicenda, ed una petizione per fare chiarezza su una storia complicata, come si diceva all’inizio, difficile da seguire, con un sacco di date e di luoghi da ricordare; e di cui ci si sta dimenticando un po’ troppo rapidamente.

Anonimo ha detto...

Salve,
sono Anna la compagna di Ben.
Mi associo ai pensieri di Katia.
Di Ben posso dirti che ancora non ho alcuna notizia e questo non fa che accrescere le preoccupazioni.
Vorrei potergli scrivere,unitamente ai suoi amici ma non posso farlo.Chissà se a Ben è vietato o negato il permesso di comunicare?
Questo sospetto è basato dul fatto che Ben,nei tre anni che ha trascorso nel carcere di Frosinone mi ha inviato circa 1000 lettere,dunque mi riesce difficile da capire il perchè non si faccia vivo nell'unico modo, teoricamente,possibile.
Ho scritto al suo avvocato negli USA ed attendo una risposta.Spero in questa altrimenti non so cosa farò.Non ho avuto notizie nemmeno dal governo italiano,che pare dalla consegna repentina, non si è più interessato al caso di Ben.
Un saluto
Anna

pipistro ha detto...

Carissime Katia e Anna,
sto leggendo il materiale raccolto sul processo di Carlo e il poco disponibile sulla questione di Benedetto (più che altro stralci di fogli locali del Connecticut).

Quanto a Carlo, ad istruttoria già compiuta, l'atteggiamento USA rammenta processi sommari di altri tempi, ingresso ad idee preconcette e scarsa o nessuna considerazione di elementi di fatto che sarebbero valsi a contraddire le ipotesi dell'accusa.

Nella vicenda di Benedetto, al momento non mi stupisce che la questione sia stata e sia tuttora tenuta politicamente in sordina qui in Italia. Posso immaginare che il motivo sia quello di non diffondere ed amplificare - per tornaconto politico - quella sensazione generalizzata di vassallaggio che consente all'"amico americano" di sbeffeggiarci quando abbiamo la pretesa di ottenere giustizia (vedi caso Calipari) ed ottenere, per esempio e per converso - a quanto sembra - l'estradizione semplicemente "sulla parola" dell'accusa in ordine ai capi di imputazione.

Psicologicamente e a sensazione (cioè senza sapere quali siano le evidenze raccolte dall'accusa) il castello del procuratore distrettuale non convince per nulla.

I rimedi legali, la raccolta delle prove e tutta l'attività processuale, nella sostanza e nella forma, sono sicuramente onere degli avvocati che se ne stanno occupando, ma qui sembra doveroso, anzi vitale, parlarne, insistere e continuare a diffondere la loro vicenda, perchè la classe politica non possa permettersi di archiviare nel silenzio, come se niente fosse, i nostri connazionali.

Un abbraccio.

pipistro ha detto...

PS per Anna
Escludo che a Ben non sia consentito, in vista dell'udienza del 24 luglio, di far arrivare notizie. Se non direttamente ritengo sarebbe stato possibile per lo meno tramite il suo difensore (al quale hai già scritto, immagino per e-mail negli USA).
Dopo il 24 sarà comunque il caso - in mancanza d'altro - di battere a tappeto i quotidiani del Connecticut, non altro che per raccogliere qualche cosa di significativo sul processo.
^^v^^

Katia Anedda ha detto...

Per Anna
Anna, devi sapere, magari telefonando alla prigione quale sia il numero di matricola di Benedetto, cerca di sapere in che prigione sta e telefona loro per sapere come metterti in contatto, non possono assolutamente impedirtelo. L'unico motivo per cui potrebbe non scrivere è se è in isolamento, ma ti consiglierei di coinvolgere il consolato di pertinenza. Quando sei riuscita a contattarlo dovresti riuscire a fare in modo di avere un numero americano, oddio, le regole cambiano da una prigione all'altra, devi chiedere il modo come fare per telefonarti, se vuoi scrivimi a
katia@carloparlanti.it

Anonimo ha detto...

Da diverso tempo seguo con interesse la vicenda di Benedetto Cipriani, innanzitutto perché sono un suo concittadino. vorrei sapere se ci sono novità sul suo caso. Da tempo, infatti, non ho più letto o saputo suo notizie.

pipistro ha detto...

Dall'udienza prevista per il 24 gennaio, nessuna notizia. E quel che sembra strano, nemmeno un cenno dai fogli del Connecticut. A breve preparerò comunque un "memorandum" per i governi entranti, uscenti o permanenti, così, tanto per ricordare che esiste (immagino esista ancora) un processo nei confronti di un nostro concittadino e la non larvata possibilità che si tenti di annacquare le condizioni dettate dal decreto di estradizione in caso di condanna.