mercoledì, ottobre 05, 2005

Il conflitto arabo israeliano palestinese for dummies (quinta ed ultima parte, 1992-2002)

Allora, siamo nel 1992 e il clima è più disteso del solito (si fa per dire). Il 30 ottobre precedente (1991) si è tenuta a Madrid la Conferenza di Pace per il Medioriente, patrocinata da Bush Senior e Gorbaciov, alla quale hanno partecipato gli stati arabi, rappresentati dai rispettivi ministri degli esteri, il primo ministro israeliano Shamir e una delegazione palestinese (l’OLP non ha partecipato) e il 16 dicembre l’assemblea generale dell’ONU ha revocato la risoluzione 339 del 1976 che aveva condannato il sionismo quale forma di razzismo e discriminazione (v. sopra). Gli USA, freschi della prima guerra in Iraq (la c.d. “guerra del golfo”) e consapevoli dell’importanza di nuove possibili alleanze nella zona, spingono per una soluzione generale del problema in medioriente.
A fine 92 l’Unione Sovietica si sta disintegrando. Sta venendo meno, per gli USA, il pericolo rappresentato dal blocco sovietico. La guerra fredda si è raffreddata. Gli USA pianificano il controllo totale. La Russia - che a casa sua ha problemi infiniti - sponsorizza la pace in medioriente. Un episodio di consueta sopraffazione nel dicembre 1992, Israele deporta più di 400 palestinesi in Libano. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU condanna pesantemente questa iniziativa e stabilisce il loro immediato ritorno.

Siamo ormai nel 1993. In agosto si svolgono a Oslo – con la mediazione dei norvegesi – colloqui segreti fra l'OLP e il laborista israeliano Shimon Perez in vista di un accordo sull’autonomia palestinese per Gaza e per la città di Jerico. Gli accordi tratteggiati ad Oslo sono in realtà assai vaghi.
In settembre c’è uno scambio di lettere tra Arafat (OLP) e il primo ministro israeliano Rabin:
- Arafat riconosce il diritto di Israele di esistere in pace e in sicurezza;
- Rabin riconosce che l’OLP rappresenta il popolo palestinese.
Con il patrocinio del Presidente USA Bill Clinton (che non è famoso solo per altre questioni personali di tutt’altra specie), il 13 settembre 1993 Arafat e Rabin firmano, a Washington, una Dichiarazione di Principi in vista di possibili accordi (tutti da determinare e sviluppare) per l’autonomia palestinese. Si stabilisce un periodo di autonomia palestinese di 5 anni per portare a termine i negoziati, sulla base della risoluzione ONU n. 242, che dovranno iniziare non oltre tre anni. (In particolare sul ritiro israeliano da alcune zone occupate del West Bank). Nasce la cosiddetta “Autorità Palestinese” con il compito di amministrare i territori assegnati al controllo palestinese.
Ma tutti i problemi più importanti e spinosi vengono rinviati ...... a babbo morto (cioè a futuri negoziati). In particolare, il problema dei rifugiati, di Gerusalemme Est, degli insediamenti, dell’acqua. Vabbè, meglio che niente .....

Infatti, nel 1994 e 1995, benchè schifezze di ogni tipo (attentati, violenze ecc.) rimangano comunque una costante, in specie nei territori occupati, a livello politico l’OLP e Israele concludono, in maggio, un accordo sull’amministrazione della Striscia di Gaza e sull’area di Jerico.
In luglio Arafat rientra in Palestina e stabilisce il suo quartier generale a Gaza. In agosto viene stipulato una accordo “preparatorio” per il trasferimento dell’amministrazione dei territori “lasciati” all’autonomia palestinese. Israele e Giordania firmano un trattato di pace.
Sulla base della Dichiarazioen di Principi del 1993 (Washington) viene firmato un accordo tra Israele e OLP per l’autonomia sul West Bank e Gaza.
Tutto procede alla meno peggio quando il primo ministro Yitzhak Rabin viene assassinato da uno studente dell’estrema destra israeliana, a Tel Aviv, il 4 novembre 1995.

Nel 1996 il Likud (di destra) vince le elezioni con Benjamin Netanyahu (sconfiggendo i laboristi di Shimon Peres) e la situazione rimane sostanzialmente congelata fino al 1999. Questo, come ho già detto, non significa che tra la destra e la sinistra israeliana ci sia questa gran diversità di vedute rispetto ad alcuni problemi importantissimi, per esempio quello degli insediamenti nei territori occupati, suddivisi ipocritamente in insediamenti “illegali” e “legali”, che sono stati tutti implementati tanto durante i governi di destra quanto durante quelli di sinistra.

Tra il 1997 e il 1999 la facciamo necessariamente breve. Da segnalare che nel 1997 l’autorità palestinese e il governo israeliano raggiungono un accordo (allucinante) secondo il quale i palestinesi ottengono il controllo dell’80% della città di Hebron e il rimanente 20% resta, iperprotetto dall’esercito israeliano, in mano a circa 400 – diconsi quattrocento - religiosi ebrei ultraortodossi.
Sempre nel 1997 (febbraio) un censimento della popolazione palestinese conta con larga approssimazione 2.900.000 palestinesi nei territori occupati. Di questi, 1.869.818 nel West Bank (compresa la parte israeliana occupata di Gerusalemme) e 1.020.813 nella striscia di Gaza .
Altri 210.000 – conteggiati approssimativamente fuori censimento – vivono a Gerusalemme Est.

Allora, per farla semplice (molto semplice), nel 1999 vanno nuovamente al potere i laboristi con Ehud Barak. Se ne è molto parlato, di Barak e delle sue “generose concessioni”, ma sono stati fiumi di parole messi nella bocca di chi ha interesse a sostenere una sorta di rifiuto palestinese a qualsiasi ipotesi di pace e, soprattutto, si tratta sempre di analisi assolutamente superficiali.
Se è infatti vero che con Barak l’Autorità Palestinese ottiene, tardivamente e con fatica, il teorico controllo (naturalmente, solo amministrativo e non militare) sul 40% del West Bank e sul 75% della Striscia di Gaza, è altrettanto vero che si tratta sempre di un territorio spezzettato e discontinuo, le zone di autonomia palestinese sono scollegate e circondate da territori sotto il perenne controllo militare israeliano (in favore dei coloni insediati in profondità in territori contigui a quelli “palestinesi” che fanno il bello e il cattivo tempo con l’appoggio incondizionato dell’esercito).
In sostanza, dunque, Barak non si impegna più di tanto nel piano elaborato a Washington ed anzi si dedica per quasi un anno, senza successo, ai negoziati per raggiungere un accordo con la Siria.

Siamo ormai al 2000 e i palestinesi scalpitano per il ritardo con cui si muovono le cose e per non avere ottenuto nemmeno sulla carta quanto era lecito sperare in base alle premesse e alle “promesse” di Washington. In questa situazione, già di per sè non brillante, finalmente Barak si rimette al tavolo delle trattative, ma solo per motivi personali: la sua maggioranza di governo si è sfaldata e teme, in vista delle elezioni previste per il febbraio 2001 di non avere l’appoggio della sinistra israeliana, dopo essersi fatto i fatti suoi per un anno. La mediazione, nel caso, è di Clinton (anche lui in fase di delegittimazione per le imminenti elezioni e forse per i casini che si è tirato con la Lewinski). Nel frattempo (maggio 2000) Israele si ritira dai territori occupati in Libano, anche su pressione degli Hezbollah libanesi, di cui abbiamo già parlato.
Sia quel che sia, nel luglio 2000 Clinton riesce a trascinare Barak e Arafat negli USA (a Camp David) per concretizzare in un vero e proprio trattato gli accordi di Oslo.
E’ a questo punto che Barak avanza la sua (famosa) “generosa offerta” (passata alla storia proprio in questo modo) che, da un lato, è obbiettivamente inaccettabile (estende e generalizza a tutta la Cisgiordania il piano di “spezzettamento” del territorio sotto controllo palestinese, con condizioni giugulatorie per quanto riguarda le risorse, i confini, gli insediamenti, l’acqua, rifiuta di ritirarsi da Gerusalemme Est, di occuparsi della questione dei rifugiati palestinesi, di occuparsi dello smantellamento degli insediamenti ebraici, ecc. ecc.), dall’altro mette in bocca alla propaganda dei mass media occidentali un fatto assolutamente falso: che sia stato Arafat a “mandare a monte” gli accordi di Camp David.
Infatti, nonostante tutto, è proprio Barak a procrastinare e sospendere più volte il corso delle trattative e infine ad avanzare una proposta che Arafat non avrebbe mai potuto accettare, nè fare accettare ai “suoi” a paragone con quanto invece ottenuto dal Libano, dall’Egitto e dalla Giordania (cioè la restituzione di tutti i territori occupati da Israele). In più su un territorio spezzettato e inframmezzato da grosse zone occupate dai coloni ebrei. Zone che eventualmente avrebbero potuto essere “scambiate” con minime zone in territorio israeliano (secondo una proporzione di 9 a 1).
Ma la opportuna riluttanza di Arafat, come detto, sarà propagandata a tal punto che Barak potrà dedicare gli ultimi mesi del suo disastroso intervento a ..... raccontare al mondo che non è possibile trovare un accordo con Arafat.
In definitiva gli incontri di Camp David risultano infine un fiasco, ma i negoziati tra dirigenti palestinesi ed israeliani non si interrompono.
E ciò benchè nel settembre 2000 – quasi per affermare la propria imminente ascesa al potere (che avverrà nel febbraio 2001) – il leader della destra (Likud), Ariel Sharon, già tristemente noto per esser stato “indirettamente” responsabile dei massacri di Sabra e Chatila, decide di provocare i palestinesi sfilando a piedi e con un esercito di guardie armate sulla cosiddetta spianata delle Moschee (presso la Moschea di Al Aqsa) a Gerusalemme Est.
E’ un vero e proprio oltraggio. Inizia la seconda intifada (c.d. intifada Al Aqsa).
Ma come abbiamo detto, i negoziati naufragati a Camp David proseguono a Taba (piccola stazione balneare in territorio egiziano) e prospettano, nel gennaio 2001 quanto di più simile ad un possibile accordo sia mai stato raggiunto tra israeliani e palestinesi. I negoziati di Taba infatti prevedono l’evacuazione totale della Striscia di Gaza, l’annessione ad Israele del 3-6% del West Bank, compensata con territori israeliani, lo smantellamento di tutte le colonie israeliane in territorio palestinese, Gerusalemme capitale di due stati, futuri negoziati sul problema dei profughi.
Troppo bello per essere vero.
E infatti con le elezioni del 6 febbraio 2001 diventa primo ministro israeliano Ariel Sharon, il cui unico obbiettivo sarà quello di annichilire ogni minimo risultato raggiunto in 10 anni di difficili negoziati. Sharon promette ad Israele la ...sicurezza e il 6 settembre del 2002 annuncia che gli accordi di Oslo ......non hanno più valore. Il che, ripercorrendo la storia e le iniziative della dirigenza israeliana, non stupisce.
Quanto alle promesse di sicurezza poco è stato raggiunto per l’elementare principio che con l’occupazione e con l’umiliazione di una popolazione soggiogata non c’è esercito, per quanto “capace”, che possa garantire alcunchè.
Gli episodi anche recenti dimostrano infatti (come ha detto uno storico israeliano) che “ solo una mente malata può sperare che l’occupazione dei territori porti alla fine della guerriglia e del terrore”.

Dopo l’11 settembre 2001, il panorama si arricchisce con la guerra in Afghanistan, il mito Bin Laden, il mito Saddam Hussein, la guerra in Iraq, il rigurgito islamico, il rinnovarsi della generale intolleranza per il “diverso” nel mondo occidentale. Questioni spesso non svincolate dal problema palestinese, che resta comunque spesso un ottimo pretesto o la giustificazione di quanto accade tra mondo islamico e mondo occidentale dalle radici “giudaico-cristiane”.
Il geniale presidente USA, Bush “Junior” fa stilare addirittura, a suo nome, un nuovo e non originalissimo piano di pace chiamato “Road Map” . E’ un generalissimo programma che stabilisce le fasi per raggiungere una soluzione pacifica quanto generica. Fasi che comunque sin dall’inizio non sono state seguite.
Questo “programma” è stato accolto ed enfatizzato dalle compiacenti e disinteressate dirigenze europee, dalla Russia e dall’ONU (che conta come il due di picche) ma brilla per vaghezza più degli accordi di Oslo. Qualcuno ha osservato, al riguardo, che prima di stendere una qualsiasi map ci deve essere almeno una road. Che non c’è.

Qui finisce, per ora, il mio breve sunto (sì, lo so, qualcuno non lo ha trovato per nulla breve), senza la pretesa di aver detto nulla di nuovo e con le comprensibili imprecisioni del caso.
Lo scenario muta sensibilmente con la morte di Arafat, il piano di disimpegno unilaterale dalla Striscia di Gaza, le prevedibili ed enormi difficoltà all’interno della Striscia, le mutate prospettive per il West Bank, l’impegno di Sharon a dare corso in ogni caso alla Road Map e le sue difficoltà a far fronte ai suoi stessi elettori in Israele.
Ma questa forse – ci speriamo tutti - è un’altra storia.

1 commento:

Anonimo ha detto...

ora aspetto la sesta parte, sperando che sia l'ultima, scrivi sempre in maniera chiara, se te lo dico io...ci devi credere.


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