Il consulente politico del premier palestinese Haniyeh, Ahmed Yousef, dichiara oggi, 22 settembre, alla Associated Press (v. YnetNews) che non ci sarà governo di unità nazionale (con Fatah) se ad Hamas verrà richiesto di riconoscere Israele, ma aggiunge che il governo di Hamas è disposto ad un accordo per una tregua di lungo periodo con lo stato ebraico, fino a che questi si ritiri dai territori occupati: "a long-term truce for five or 10 years, until the occupation withdraws".
Ma cosa significa "riconoscere Israele"? Sembra essere ormai lo standard mediatico per indicare il riconoscimento dell'occupazione a priori, anche fuori di confini (quali?) che non a caso Israele non si è mai dati, né voluti dare. Infatti il riconoscimento della situazione di fatto e di diritto costituita dalla obiettiva esistenza dello Stato di Israele è questione superata da molti anni, comprensibilmente a malincuore da chi subì la nakba, attraverso il sanguinoso percorso che ha visto recedere nei fatti anche i gruppi più oltranzisti in favore della linea per qualche verso ambigua, corrotta o comunque perdente, che ha condotto Yasser Arafat ad ogni compromesso per essere poi comunque umiliato ed incatenato al risultato delle promesse non mantenute. Nella situazione obiettiva di illegittimità internazionale consentita o appoggiata dal nume protettore "israelo-americano", dal pilatesco disinteresse del mondo arabo, dalla colpevole ignoranza e dall'omertà europee, a suo tempo Arafat avrebbe sottoscritto - come in massima parte fece - ogni pezzo di carta che non ponesse lui stesso pubblicamente sulla gogna e che non facesse venire definitivamente meno il suo ascendente politico e il suo potere finanziario sulla gente di Palestina. Il che lo portò al punto di accettare, per esempio, il folle accordo per la città di Hebron, il rinvio o la riduzione a termini miserabili della questione dei profughi, la riduzione del West Bank a cantoni sotto irreversibile assedio israeliano, l'infiltrazione di una rete di strade per soli ebrei, la privazione virtuale e materiale di ogni sbocco internazionale, addirittura lo spossessamento ufficiale di Gerusalemme Est e la contestuale candidatura della erigenda capitale di Palestina nel villaggio di Abu Dis, rinominato per l'occasione - con un vergognoso artifizio - Al Quds.
Ciò detto - passato alla storia con l'umiliazione e la scomparsa di Arafat il periodo di residua fiducia, connivenza o condiscendenza concessi all'occupazione - ciò che un governo palestinese, qualsiasi governo palestinese, oggi non potrà mai ratificare, sono proprio i confini variabili e - quale irreversibile situazione di fatto - la colonizzazione, mantenuta in costante espansione anche durante tutti i periodi delle "trattative", che lo Stato di Israele ha inteso ed intende ancora imporre, allorchè verrà obtorto collo costretto a sedersi per stipulare un'intesa seria e definitiva per la soluzione della questione palestinese. Cosa che sinora non è mai avvenuta, per volontà di Israele, da Madrid a Oslo, da Camp David, a Taba, né mai avverrebbe nella prospettiva di uno stato che si estende in linea teorica fino a dove possono arrivare, in un modo o nell'altro, la forza delle sue armi, le sovvenzioni dei suoi mandanti e soci, la prevaricazione e l'umiliazione dei civili, la colonizzazione strisciante. Per essere più chiari, quand'anche in seno ai trascorsi tentativi di pacificazione fossero mancati dieci minuti alla firma di un fantascientifico e definitivo trattato (e non "percorso") di pace destinato alla costituzione di uno Stato di Palestina entro confini ben determinati con speculare definizione dei confini israeliani, le pulsioni connaturate o imposte a chi si è seduto a quel tavolo per rappresentare Israele hanno suggerito di prendere tempo e di concedere (di questo termine occorrerebbe parlare), sempre e comunque, qualcosa di meno, se pure sputando all'ultimo momento oltre il confine in corso di erezione per dire che anche lì era "già" sorta una colonia.
Torniamo al tema. L'altro ieri all'ONU la ministra Livni (file pdf 922 kb), attraverso non nuovi ed untuosi giri di parole, ha fatto intendere che dal 1967 la situazione è cambiata. Cioè, per farla breve, che la dinamica situazione dei confini e quella, asseritamente irreversibile, delle colonie israeliane, non consentono di tornare allo stato precedente l'occupazione del 1967. Oggi il governo di Hamas, di riflesso e senza scomporsi più di tanto, propone un piano che a mio avviso deve essere letto così: "Cerchiamo di essere seri, non possiamo fare a meno di constatare che lo Stato di Israele esiste (e'sti cazzi, è pieno di gente e sta proprio qui accanto), ma non riconosciamo - chiamatela come volete - l'occupazione israeliana del 1967, siamo tuttavia disposti ad aspettare 5-10 anni, senza far casino, per la restituzione dei territori occupati".
venerdì, settembre 22, 2006
giovedì, settembre 14, 2006
Ipocrisia nucleare / 2
«L'ambasciatore USA presso la IAEA, Gregory Schulte, ha rilasciato mercoledì [13 settembre 2006] una dichiarazione dicendo che Washington è convinta che l'Iran sia intenzionato ad acquisire la tecnologia, i materiali e il Know-how necessari per la produzione di armi atomiche. La dichiarazione segue una lettera, inviata da Schulte al direttore generale della IAEA, nella quale specifica le sistematiche violazioni dell'Iran alle restrizioni imposte dalla comunità internazionale sul suo programma nucleare. Tra le altre cose l'ambasciatore USA dice che l'Iran ha costruito 164 centrifughe addizionali per il suo impianto di Nantz, così raddoppiando il loro numero; ha impedito agli ispettori della IAEA di ricevere la documentazione sull'attivazione delle centrifughe ed ha confiscato e distrutto i risultati delle ispezioni di monitoraggio della IAEA. La lettera menziona pure il fatto che l'Iran prosegue nella costruzione di un impianto ad Araq, dove è stata recentemente resa operativa una attrezzatura ad acqua pesante; 120 tonnellate di uranio sono state convertite in gas ed ora altre 160 tonnellate di uranio stanno per essere sottoposte allo stesso processo. Secondo le previsioni americane queste due operazione permetterebbero a Tehran di produrre una quantità sufficiente di uranio in gas per la produzione di 40 bombe nucleari, una volta che il gas sia stato arricchito». (Ha'aretz 13.9.2006)
E' dimostrato che molte informazioni spacciate dagli USA e ricettate da Israele, tanto in senso generale che, in particolare, in merito alla ipotetica produzione di armi nucleari da parte dell'Iran, non brillano per precisione e buona fede. Tanto meno risultano attendibili se affidate da una parte al micidiale e martellante tam tam informativo del miglior cliente americano e dall'altra all'esasperante interferenza dei potentati ebraici e neocons d'oltreoceano. Quello che non dicono i manifestini sparsi a migliaia (principalmente) dal blocchetto USA-israeliano ma anche dalla stragrande maggioranza dei nostri media che non disdegnano il fatto di cavalcare questa ipocrisia, è che proprio in base al Non-Proliferation Treaty (puro) ma anche ad ulteriori restrizioni e controlli ad hoc (derivanti da "accordi" imposti solo all'Iran), Tehran rivendica il diritto di munirsi di tecnologia "dual use" (utile per usi civili e solo potenzialmente militari) mediante arricchimento dell'uranio, mentre la "comunità internazionale" lamenta scarsa trasparenza nucleare dell'Iran, derivandone l'idea, il sospetto o la convinzione che si stia necessariamente nascondendo un percorso nucleare militare. E ciò senza porre nemmeno in discussione il fatto che molti o tutti i paesi firmatari del NPT (incidentalmente al momento fuori dall'attenzione USA/israeliana), siano pacificamente in grado di produrre - clandestinamente - tecnologie per armi nucleari in barba a qualsiasi trattato. Per non parlare di chi il trattato non lo ha nemmeno firmato e in particolare di chi si è munito clandestinamente di un imponenente arsenale atomico dagli anni 70, allora "di nascosto" agli stessi attentissimi americani (Washington, Jan. 26 1978 - The Central Intelligence Agency disclosed today that it had concluded as early as 1974 - two years earlier than previously indicated - that Israel had already produced atomic weapons, partly with uranium it had obtained "by clandestine means". - Special to NYT Jan 27, 1978, Friday By David Burnham). Una nota quasi umoristica. In mezzo a tutta questa ipocrisia e malafede manca all'acido blocchetto USA anche il coraggio di portare sino in fondo la menzogna e il carburante per le proprie operazioni. Scrivere, infatti, che "Washington è convinta che l'Iran sia intenzionato a" ...fare qualcosa, è un modo come un altro per buttare un po' di veleno gratuito, insuscettibile di contestazione (chi può affermare che a Washington non abbiano la convinzione dell'esistenza di un'intenzione?) e quindi senza tema di smentita. Ma qualcuno che beve tutto - anche il veleno - come sempre c'è.
Aggiornamento sul Washington Post (Thursday, September 14, 2006) - "Gli ispettori della IAEA che investigano sul programma nucleare iraniano hanno contestato con rabbia ieri all'amministrazione Bush e ad un membro repubblicano del Congresso un recente rapporto del comitato della Casa [dei rappresentanti] in relazione alle capacità iraniane, descrivendo alcune parti del documento "oltraggiose e disoneste" ed offrendo la prova a confutazione delle sue principali informazioni. Alcune autorità della Internationale Atomic Energy Agency presso l'ONU hanno detto in una lettera che il rapporto contiene alcune "dichiarazioni erronee, fuorvianti ed apodittiche". La lettera, firmata da un importante direttore dell'agenzia, è stata indirizzata "a mano" al Rep. Peter Hoekstra (R-Mich), presidente del comitato di intelligence della Casa, che ha rilasciato il rapporto. Una copia è stata consegnata a mano dell'ambasciatore USA presso la International Atomic Energy Agency a Vienna. La IAEA si era apertamente scontrata con l'amministrazione Bush sulle dichiarazioni precedenti la guerra in merito alle armi di distruzione di massa in Iraq. Le relazioni peggiorarono quando l'agenzia rivelò che la Casa Bianca aveva basato alcune affermazioni sul programma nucleare iraqeno in base a documenti falsi. Dopo che nessuna di queste armi fu trovata in Iraq, la IAEA è stata nuovamente criticata per aver intrapreso un approccio [più] cauto sull'Iran, che la Casa Bianca sostiene stia cercando di costruire segretamente armi nucleari. A un certo punto l'amministrazione orchestrò una campagna per rimuovere il direttore generale della IAEA, Mohamed ElBaradei. Ma fallì, e l'anno scorso lui vinse il Premio Nobel per la Pace. Con la lettera di ieri, una copia della quale è stata fornita al Washington Post, è la prima volta che la IAEA contesta pubblicamente le affermazioni degli USA in merito alle investigazioni sull'Iran. L'agenzia ha sottolineato cinque importanti errori nelle 29 pagine del rapporto del comitato, che afferma che le capacità nucleari iraniane sono più avanzate di quanto la IAEA o la [stessa] intelligence USA ha dimostrato [...] "Questo sistema è in tutto simile a [quello utilizzato] prima della guerra in Iraq", ha detto David Albright, ex ispettore nucleare ora presidente dell'Istituto per le Scienze e la Sicurezza Internazionale di Washington. "Abbiamo una minaccia nucleare iraniana rigirata usando cattive informazioni come ciliege e un rapporto che fa fuori gli ispettori"... (da leggere per intero sul Washington Post)
E' dimostrato che molte informazioni spacciate dagli USA e ricettate da Israele, tanto in senso generale che, in particolare, in merito alla ipotetica produzione di armi nucleari da parte dell'Iran, non brillano per precisione e buona fede. Tanto meno risultano attendibili se affidate da una parte al micidiale e martellante tam tam informativo del miglior cliente americano e dall'altra all'esasperante interferenza dei potentati ebraici e neocons d'oltreoceano. Quello che non dicono i manifestini sparsi a migliaia (principalmente) dal blocchetto USA-israeliano ma anche dalla stragrande maggioranza dei nostri media che non disdegnano il fatto di cavalcare questa ipocrisia, è che proprio in base al Non-Proliferation Treaty (puro) ma anche ad ulteriori restrizioni e controlli ad hoc (derivanti da "accordi" imposti solo all'Iran), Tehran rivendica il diritto di munirsi di tecnologia "dual use" (utile per usi civili e solo potenzialmente militari) mediante arricchimento dell'uranio, mentre la "comunità internazionale" lamenta scarsa trasparenza nucleare dell'Iran, derivandone l'idea, il sospetto o la convinzione che si stia necessariamente nascondendo un percorso nucleare militare. E ciò senza porre nemmeno in discussione il fatto che molti o tutti i paesi firmatari del NPT (incidentalmente al momento fuori dall'attenzione USA/israeliana), siano pacificamente in grado di produrre - clandestinamente - tecnologie per armi nucleari in barba a qualsiasi trattato. Per non parlare di chi il trattato non lo ha nemmeno firmato e in particolare di chi si è munito clandestinamente di un imponenente arsenale atomico dagli anni 70, allora "di nascosto" agli stessi attentissimi americani (Washington, Jan. 26 1978 - The Central Intelligence Agency disclosed today that it had concluded as early as 1974 - two years earlier than previously indicated - that Israel had already produced atomic weapons, partly with uranium it had obtained "by clandestine means". - Special to NYT Jan 27, 1978, Friday By David Burnham). Una nota quasi umoristica. In mezzo a tutta questa ipocrisia e malafede manca all'acido blocchetto USA anche il coraggio di portare sino in fondo la menzogna e il carburante per le proprie operazioni. Scrivere, infatti, che "Washington è convinta che l'Iran sia intenzionato a" ...fare qualcosa, è un modo come un altro per buttare un po' di veleno gratuito, insuscettibile di contestazione (chi può affermare che a Washington non abbiano la convinzione dell'esistenza di un'intenzione?) e quindi senza tema di smentita. Ma qualcuno che beve tutto - anche il veleno - come sempre c'è.
Aggiornamento sul Washington Post (Thursday, September 14, 2006) - "Gli ispettori della IAEA che investigano sul programma nucleare iraniano hanno contestato con rabbia ieri all'amministrazione Bush e ad un membro repubblicano del Congresso un recente rapporto del comitato della Casa [dei rappresentanti] in relazione alle capacità iraniane, descrivendo alcune parti del documento "oltraggiose e disoneste" ed offrendo la prova a confutazione delle sue principali informazioni. Alcune autorità della Internationale Atomic Energy Agency presso l'ONU hanno detto in una lettera che il rapporto contiene alcune "dichiarazioni erronee, fuorvianti ed apodittiche". La lettera, firmata da un importante direttore dell'agenzia, è stata indirizzata "a mano" al Rep. Peter Hoekstra (R-Mich), presidente del comitato di intelligence della Casa, che ha rilasciato il rapporto. Una copia è stata consegnata a mano dell'ambasciatore USA presso la International Atomic Energy Agency a Vienna. La IAEA si era apertamente scontrata con l'amministrazione Bush sulle dichiarazioni precedenti la guerra in merito alle armi di distruzione di massa in Iraq. Le relazioni peggiorarono quando l'agenzia rivelò che la Casa Bianca aveva basato alcune affermazioni sul programma nucleare iraqeno in base a documenti falsi. Dopo che nessuna di queste armi fu trovata in Iraq, la IAEA è stata nuovamente criticata per aver intrapreso un approccio [più] cauto sull'Iran, che la Casa Bianca sostiene stia cercando di costruire segretamente armi nucleari. A un certo punto l'amministrazione orchestrò una campagna per rimuovere il direttore generale della IAEA, Mohamed ElBaradei. Ma fallì, e l'anno scorso lui vinse il Premio Nobel per la Pace. Con la lettera di ieri, una copia della quale è stata fornita al Washington Post, è la prima volta che la IAEA contesta pubblicamente le affermazioni degli USA in merito alle investigazioni sull'Iran. L'agenzia ha sottolineato cinque importanti errori nelle 29 pagine del rapporto del comitato, che afferma che le capacità nucleari iraniane sono più avanzate di quanto la IAEA o la [stessa] intelligence USA ha dimostrato [...] "Questo sistema è in tutto simile a [quello utilizzato] prima della guerra in Iraq", ha detto David Albright, ex ispettore nucleare ora presidente dell'Istituto per le Scienze e la Sicurezza Internazionale di Washington. "Abbiamo una minaccia nucleare iraniana rigirata usando cattive informazioni come ciliege e un rapporto che fa fuori gli ispettori"... (da leggere per intero sul Washington Post)
lunedì, settembre 11, 2006
911
"La violenza prevarrà sulla violenza solo quando qualcuno mi potrà provare che l'oscurità può essere dissipata dall'oscurità" (Gandhi)
L'11 settembre 2006 ha uno speciale significato. Non è solo il quinto anniversario dell'attacco a New York e Washington, ma è anche il centenario del giorno in cui il Mahatma Gandhi lanciò il moderno movimento di resistenza non violenta. Gandhi la chiamò Satyagraha. Era l'11 settembre 1906 e parlando davanti a 3000 indiani riuniti in un teatro di Johannesburg, Gandhi espose la strategia di resistenza non violenta da opporre alla politica razzista in Sud Africa. Il Satyagraha era nato e da allora è stato adottato tante volte nel mondo per resistere all'ingiustizia sociale e all'oppressione. Nei giorni scorsi, il nipote del Mahatma, Arun, è stato intervistato per la rete americana alternativa Democracy Now. Nel corso dell'intervista Arun Gandhi ha ricordato un episodio circa la possibile applicazione del Satyagraha nell'ambito della questione palestinese. Aveva avuto infatti occasione di essere in Palestina nel 2004 e, come è risultato successivamente, era stato l'ultimo straniero ad incontrare Yasser Aarafat e a parlare con lui. «Il messaggio che gli portai fu che la violenza non era di beneficio a lui né ad alcuno». Gandhi ricorda che una delle ultime domande postegli da Arafat fu: «se lei avesse la leadership [palestinese] che cosa farebbe?» Dopo aver detto ad Arafat che non voleva dare una risposta disinvolta a quella domanda e che necessitava uno studio adeguato, Arun Gandhi infine avrebbe risposto di aver appena visitato Amman e di essere stato vicino ai problemi di oltre mezzo milione di rifugiati palestinesi che vivevano in pessime condizioni e così avrebbe detto: «Supponga di andare laggiù e dirigere queste cinquecentomila persone, uomini, donne e bambini, in una marcia verso la Palestina, senza armi o altro, solo dicendo: siamo tornati qui per vivere in pace ed armonia nel vostro paese. Potrebbero gli israeliani uccidere tanta gente e vivere poi con la loro coscienza? Penso che il mondo intero si sveglierebbe per fermare quest'azione».
Non dice l'intervista cosa rispose Arafat, ma è lecito pensare che il vecchio capo palestinese abbia risposto a Gandhi qualcosa come: "Eh ...la fai facile tu! Già dire a questo mezzo milione di rifugiati incazzati neri che devono chiedere "permesso" per entrare in Palestina - per quanto occupata - sarebbe un problema. E un problema grosso. Ehi! Sono stati cacciati a pedate! Era casa loro! Sai, voglio vivere anch'io. E poi quanti ne ucciderebbero prima del risveglio della coscienza? E infine non conosci quel ...beh lasciamo perdere di Sharon!". Scherzi a parte, nelle parole del nipote di Gandhi c'è forse in germe l'unica possibile alternativa ad un'azione tanto immorale, imprevedibile e violenta da mettere Israele e buona parte del mondo sotto ricatto. Tanto da far considerare uno "scherzetto" le operazioni di rappresaglia martellante e il sistematico processo di umiliazione della popolazione civile ideati dall'IDF. In altre parole: la tattica qaedista (che non c'entra con la "banda" al-Qaeda immaginata da Bush & co. per i loro interessi), finalizzata ed applicata scrupolosamente al problema palestinese. Meditiamo tutti prima che qualcuno veramente possa influire sulla scelta di uno di questi sistemi e non necessariamente quello ispirato alla filosofia di Gandhi. Senza illudersi o farsi illudere, non ci sarebbero né vincitori, né vinti, solo un pazzo può pensare il contrario. E i pazzi esistono.
L'11 settembre 2006 ha uno speciale significato. Non è solo il quinto anniversario dell'attacco a New York e Washington, ma è anche il centenario del giorno in cui il Mahatma Gandhi lanciò il moderno movimento di resistenza non violenta. Gandhi la chiamò Satyagraha. Era l'11 settembre 1906 e parlando davanti a 3000 indiani riuniti in un teatro di Johannesburg, Gandhi espose la strategia di resistenza non violenta da opporre alla politica razzista in Sud Africa. Il Satyagraha era nato e da allora è stato adottato tante volte nel mondo per resistere all'ingiustizia sociale e all'oppressione. Nei giorni scorsi, il nipote del Mahatma, Arun, è stato intervistato per la rete americana alternativa Democracy Now. Nel corso dell'intervista Arun Gandhi ha ricordato un episodio circa la possibile applicazione del Satyagraha nell'ambito della questione palestinese. Aveva avuto infatti occasione di essere in Palestina nel 2004 e, come è risultato successivamente, era stato l'ultimo straniero ad incontrare Yasser Aarafat e a parlare con lui. «Il messaggio che gli portai fu che la violenza non era di beneficio a lui né ad alcuno». Gandhi ricorda che una delle ultime domande postegli da Arafat fu: «se lei avesse la leadership [palestinese] che cosa farebbe?» Dopo aver detto ad Arafat che non voleva dare una risposta disinvolta a quella domanda e che necessitava uno studio adeguato, Arun Gandhi infine avrebbe risposto di aver appena visitato Amman e di essere stato vicino ai problemi di oltre mezzo milione di rifugiati palestinesi che vivevano in pessime condizioni e così avrebbe detto: «Supponga di andare laggiù e dirigere queste cinquecentomila persone, uomini, donne e bambini, in una marcia verso la Palestina, senza armi o altro, solo dicendo: siamo tornati qui per vivere in pace ed armonia nel vostro paese. Potrebbero gli israeliani uccidere tanta gente e vivere poi con la loro coscienza? Penso che il mondo intero si sveglierebbe per fermare quest'azione».
Non dice l'intervista cosa rispose Arafat, ma è lecito pensare che il vecchio capo palestinese abbia risposto a Gandhi qualcosa come: "Eh ...la fai facile tu! Già dire a questo mezzo milione di rifugiati incazzati neri che devono chiedere "permesso" per entrare in Palestina - per quanto occupata - sarebbe un problema. E un problema grosso. Ehi! Sono stati cacciati a pedate! Era casa loro! Sai, voglio vivere anch'io. E poi quanti ne ucciderebbero prima del risveglio della coscienza? E infine non conosci quel ...beh lasciamo perdere di Sharon!". Scherzi a parte, nelle parole del nipote di Gandhi c'è forse in germe l'unica possibile alternativa ad un'azione tanto immorale, imprevedibile e violenta da mettere Israele e buona parte del mondo sotto ricatto. Tanto da far considerare uno "scherzetto" le operazioni di rappresaglia martellante e il sistematico processo di umiliazione della popolazione civile ideati dall'IDF. In altre parole: la tattica qaedista (che non c'entra con la "banda" al-Qaeda immaginata da Bush & co. per i loro interessi), finalizzata ed applicata scrupolosamente al problema palestinese. Meditiamo tutti prima che qualcuno veramente possa influire sulla scelta di uno di questi sistemi e non necessariamente quello ispirato alla filosofia di Gandhi. Senza illudersi o farsi illudere, non ci sarebbero né vincitori, né vinti, solo un pazzo può pensare il contrario. E i pazzi esistono.
sabato, settembre 09, 2006
Ipocrisia nucleare
Nel 1991 l'amministrazione Bush (quella di George senior, naturalmente) formulò un piano di rinuncia alle armi chimiche in Medio Oriente. Subito si osservò che questo avrebbe costituito un ostacolo alla produzione di armi nucleari da parte di Israele. Si disse tuttavia, in proposito, che il piano costituiva uno sforzo per agevolare il controllo della armi nella regione e non fosse naturalmente destinato solo ad Israele, l'unica nazione in Medio Oriente di cui si ipotizzava il possesso di armi nucleari. Secondo il piano, quindi, Israele avrebbe dovuto disfarsi del proprio arsenale nucleare a fronte della rinuncia degli altri paesi ai rispettivi arsenali chimici.
Il 14 maggio 1991 Bush sperava di poter annunciare il piano ufficialmente al più presto, benchè si fosse consapevoli che ciò avrebbe causato problemi con Israele. Il 3 giugno 1991, secondo Associated Press (in Rocky Mountain News) il segretario alla difesa Cheney - sì, proprio lo stesso Cheney - annunciò che gli USA non avrebbero cercato di sollecitare Israele o gli stati arabi ad intraprendere negoziati di pace in medio oriente tagliando la fornitura di armi. "Penso che per noi - precisò Cheney - l'idea di minacciare i nostri amici israeliani con un taglio alle forniture, per esempio per ottenere che facciano qualcosa sul piano diplomatico, possa essere controproducente".
Per parte sua il presidente egiziano Mubarak, il 12 giugno (1991) successivo, suggeriva senza mezzi termini al primo ministro israeliano Shamir che sarebbe stato impossibile per Israele mantenere l'occupazione ed aspettarsi la pace in Medio Oriente, e lo sollecitava ad una certa "flessibilità", se veramente interessato alla pace. Questo dopo aver sottolineato, il 5 giugno precedente, che quello che preoccupava i paesi arabi in merito al piano di Bush sulle armi era proprio la capacità nucleare di Israele, non senza aver manifestato qualche preoccupazione sul fatto che gli USA stessi ignorassero la reale entità dell'arsenale nucleare israeliano. Questo - si disse - cioè il potenziale israeliano era il problema "centrale all'intero processo" e rendeva non realistico il piano di Bush (così il ministro degli esteri Amr Mussa). Pochi mesi più tardi, nell'ottobre 1991, un libro di Seymour M. Hersh, riferiva infatti che l'arsenale nucleare di Israele era assai più ampio di quanto previsto dal governo USA e che uno dei principali bersagli potenziali delle armi nucleari israeliane era stata a suo tempo l'Unione Sovietica. Il libro ("The Samson Option") precisava che Israele era in possesso di oltre 300 ordigni nucleari e che vi era stato un pieno allarme nucleare per ben tre volte in passato.
Solo nel novembre 1994 l'ipotetico potenziale bellico nucleare israeliano veniva approssimativamente indicato in circa 200 ordigni e sette installazioni nucleari sulla base delle indicazioni fornite da un analisi di foto dal satellite ad alta risoluzione fornita alla rivista di intelligence Jane's, realizzate nei cinque anni precedenti, osservazioni che, si potè leggere (Miami Herald, 19 novembre 1994), avevano reso possibile seguire il percorso degli ipotetici armamenti dal reattore nucleare al prodotto finale. Ma nel frattempo (fine 1991) cominciavano, guarda caso, a trapelare informazioni della CIA sull'esistenza di "una forte probabilità che l'Iran avesse acquisito tutte, o virtualmente tutte, le componenti per la fabbricazione di due o tre bombe atomiche". Un rapporto del febbraio 1992 alla Camera dei rappresentanti aveva poi ipotizzato che questi (due o tre) ordigni avrebbero potuto essere operativi tra il febbraio e l'aprile del medesimo 1992, ma ancora nel febbraio 1993 il direttore della CIA, James Woolsey, affermava che l'Iran necessitava di otto, dieci anni per produrre la sua bomba.
Nel gennaio 1995, in pieno periodo Clinton, "nuove informazioni" indicavano che l'Iran avrebbe potuto ottenere armi nucleari in cinque anni o meno. Si precisava che le autorità israeliane consideravano questa possibilità in cima alla lista delle loro preoccupazioni e alcuni iniziarono addirittura ad ipotizzare che Israele stesse valutando l'ipotesi di un attacco militare preventivo ai reattori iraniani. A Gerusalemme, il 6 gennaio 1995, si immaginava infatti che le autorità israeliane avrebbero sottolineato al segretario della difesa americano William Perry, in occasione della sua visita della settimana seguente, che necessitavano nuovi sforzi per impedire all'Iran e all'Iraq lo sviluppo di armi nucleari. Stiamo parlando di undici anni fa. Gli esperti israeliani dichiararono allora che l'Iran si stava muovendo velocemente per ottenere un'arma nuclare e ci si aspettava la potesse ottenere in un periodo di cinque anni e potesse munirsi di un sistema di lancio in un periodo tra i sette e i dieci anni "se l'Iran avesse mantenuto lo stesso sforzo intensivo per ottenere tutto ciò che gli serviva". Il 16 marzo 1995, Shimon Peres, durante una visita con il principe Hassan in Giordania, disse che era preoccupato delle nuove informazioni per cui l'Iran potesse dotarsi di un'arma nucleare in cinque anni grazie ad una sofisticata rete di contrabbando, via Pakistan e Siria, che asseritamente consentiva a Tehran di aggirare l'embargo occidentali sulle armi. Peres sottolineava in proposito che "il contrabbando del materiale nucleare era molto pericoloso", dimostrando di essere dotato di un acuto senso dell'umorismo e di una ipocrisia fuori dal comune. Nell'aprile successivo, durante l'amministrazione Clinton, si osservava che nessuno avrebbe potuto dormire tranquillo - o dormire del tutto - se "i mullah" si fossero dotati della bomba atomica. La questione era se fosse possibile prevenirlo e, se sì, come. Quell'amministrazione pensò possibile ostacolare Tehran, dissudadendo il governo russo dalla fornitura di due reattori all'Iran. Qualcuno pensò, in quel periodo, che successivamente alla fine della guerra fredda "il problema della proliferazione nucleare non stava migliorando ma peggiorando" (Michael Krapon, direttore di un think tank sulla sicurezza nucleare a Washington). E sarebbe potuto anche peggiorare considerevolmente anche solo perchè l'attenzione pubblica si era allontanata dal soggetto nucleare. Fino agli anni 80, si disse, l'Unione Sovietica e gli USA tenevano entrambi il grilletto nucleare nelle loro mani. Ognuno aveva ragioni per costruire un arsenale nucleare ma anche buoni motivi per non servirsene. (*)
In una inconsueta intervista di due ore dal suo ufficio di Tehran, intorno agli inizi di luglio 1995, il presidente iraniano Rafsanjani parlò di tutte le questioni cruciali del momento e in merito all'empasse tra Iran e USA dichiarò che l'embargo operato dal presidente americano Clinton avrebbe danneggiato solo l'America, negando che l'Iran stesse acquisendo armi nucleari ed accusando gli USA di ignorare i diritti umani. Dichiarò inoltre che benchè non credesse all'equità nella conduzione del processo di pace in Medio oriente, l'Iran non l'avrebbe ostacolato. "Crediamo che questa nuova misura sia in parte per la pressione esercitata dai circoli sionisti, ma parlando in generale, dall'inizio della rivoluzione (iraniana) l'amministrazione americana ha dimostrato la sua ostilità verso la rivoluzione stessa. Le condizioni interne degli USA, le rivalità tra i due partiti ed altri problemi interni, hanno reso necessario trovare un nemico all'esterno. Nel passato l'Unione Sovietica era considerata il nemico. Ora vogliono che l'Iran sia il capro espiatorio ..." (Washington Post, 9 luglio 1995). Il 14 maggio precedente il New York Times riferiva che le autorità iraniane contavano di costruire circa dieci impianti di produzione nucleare nei successivi vent'anni e negavano - come in centinaia di altre occasioni da allora - le accuse degli USA che l'Iran stesse tentando di sviluppare armi nuclari.
(*) «In più di quarant'anni di Guerra Fredda il genere umano non è stato distrutto a causa della mutua deterrenza tra le due superpotenze. La stabilità strategica era basata sull'equilibrio tra la paura e quello che fu chiamato MAD - mutual assured destruction [reciproca distruzione assicurata]. Era chiaro ad entramebe le parti che anche se solo una fosse riuscita a sorprendere il suo rivale, la vittima avrebbe comunque avuto abbastanza bombe da provocare la totale distruzione dell'attaccante...». In un interessante articolo di Reuven Pedatzur su Haaretz, si analizza l'ìpotesi di nuova deterrenza conseguente il possibile ampliarsi (nel caso, verso l'Iran) del potenziale nucleare offensivo del pianeta. Mi sento di condividere in parecchi punti il pensiero dell'editorialista di Haaretz. Se infatti non è stato sinora possibile giungere a "somma nucleare zero" mediante abbandono globale, totale ed incondizionato di ogni armamento nucleare (e direi comunque non convenzionale) e non è neppure ipotizzabile che l'abbandono venga preso in considerazione, riterrei oggi più tranquillizzante l'ipotesi di nuova deterrenza che ponga rimedio al venir meno del blocco sovietico ed alla possibilità, oggi concretamente in atto, di dovere assistere ad una "emissione nucleare unilaterale" (da parte della potenza o del gruppo di paesi di volta in volta dominanti) nei confronti del blocco (o del paese) di volta in volta - per farla semplice - più debole o sgradito. Condivido inoltre con Pedatzur (con E. Said e con molti altri) la irriguardorsa convinzione che Bernard Lewis - anziano ed infaticabile propugnatore di una "logica" di scontro tra mondi diversi e compilatore di inaccettabili generalizzazioni sul fatalismo suicida del mondo arabo tout court - sia un pericoloso e vecchio trombone. Vale a mio avviso la pena di leggere l'intero articolo ("Let them have nukes").
Il 14 maggio 1991 Bush sperava di poter annunciare il piano ufficialmente al più presto, benchè si fosse consapevoli che ciò avrebbe causato problemi con Israele. Il 3 giugno 1991, secondo Associated Press (in Rocky Mountain News) il segretario alla difesa Cheney - sì, proprio lo stesso Cheney - annunciò che gli USA non avrebbero cercato di sollecitare Israele o gli stati arabi ad intraprendere negoziati di pace in medio oriente tagliando la fornitura di armi. "Penso che per noi - precisò Cheney - l'idea di minacciare i nostri amici israeliani con un taglio alle forniture, per esempio per ottenere che facciano qualcosa sul piano diplomatico, possa essere controproducente".
Per parte sua il presidente egiziano Mubarak, il 12 giugno (1991) successivo, suggeriva senza mezzi termini al primo ministro israeliano Shamir che sarebbe stato impossibile per Israele mantenere l'occupazione ed aspettarsi la pace in Medio Oriente, e lo sollecitava ad una certa "flessibilità", se veramente interessato alla pace. Questo dopo aver sottolineato, il 5 giugno precedente, che quello che preoccupava i paesi arabi in merito al piano di Bush sulle armi era proprio la capacità nucleare di Israele, non senza aver manifestato qualche preoccupazione sul fatto che gli USA stessi ignorassero la reale entità dell'arsenale nucleare israeliano. Questo - si disse - cioè il potenziale israeliano era il problema "centrale all'intero processo" e rendeva non realistico il piano di Bush (così il ministro degli esteri Amr Mussa). Pochi mesi più tardi, nell'ottobre 1991, un libro di Seymour M. Hersh, riferiva infatti che l'arsenale nucleare di Israele era assai più ampio di quanto previsto dal governo USA e che uno dei principali bersagli potenziali delle armi nucleari israeliane era stata a suo tempo l'Unione Sovietica. Il libro ("The Samson Option") precisava che Israele era in possesso di oltre 300 ordigni nucleari e che vi era stato un pieno allarme nucleare per ben tre volte in passato.
Solo nel novembre 1994 l'ipotetico potenziale bellico nucleare israeliano veniva approssimativamente indicato in circa 200 ordigni e sette installazioni nucleari sulla base delle indicazioni fornite da un analisi di foto dal satellite ad alta risoluzione fornita alla rivista di intelligence Jane's, realizzate nei cinque anni precedenti, osservazioni che, si potè leggere (Miami Herald, 19 novembre 1994), avevano reso possibile seguire il percorso degli ipotetici armamenti dal reattore nucleare al prodotto finale. Ma nel frattempo (fine 1991) cominciavano, guarda caso, a trapelare informazioni della CIA sull'esistenza di "una forte probabilità che l'Iran avesse acquisito tutte, o virtualmente tutte, le componenti per la fabbricazione di due o tre bombe atomiche". Un rapporto del febbraio 1992 alla Camera dei rappresentanti aveva poi ipotizzato che questi (due o tre) ordigni avrebbero potuto essere operativi tra il febbraio e l'aprile del medesimo 1992, ma ancora nel febbraio 1993 il direttore della CIA, James Woolsey, affermava che l'Iran necessitava di otto, dieci anni per produrre la sua bomba.
Nel gennaio 1995, in pieno periodo Clinton, "nuove informazioni" indicavano che l'Iran avrebbe potuto ottenere armi nucleari in cinque anni o meno. Si precisava che le autorità israeliane consideravano questa possibilità in cima alla lista delle loro preoccupazioni e alcuni iniziarono addirittura ad ipotizzare che Israele stesse valutando l'ipotesi di un attacco militare preventivo ai reattori iraniani. A Gerusalemme, il 6 gennaio 1995, si immaginava infatti che le autorità israeliane avrebbero sottolineato al segretario della difesa americano William Perry, in occasione della sua visita della settimana seguente, che necessitavano nuovi sforzi per impedire all'Iran e all'Iraq lo sviluppo di armi nucleari. Stiamo parlando di undici anni fa. Gli esperti israeliani dichiararono allora che l'Iran si stava muovendo velocemente per ottenere un'arma nuclare e ci si aspettava la potesse ottenere in un periodo di cinque anni e potesse munirsi di un sistema di lancio in un periodo tra i sette e i dieci anni "se l'Iran avesse mantenuto lo stesso sforzo intensivo per ottenere tutto ciò che gli serviva". Il 16 marzo 1995, Shimon Peres, durante una visita con il principe Hassan in Giordania, disse che era preoccupato delle nuove informazioni per cui l'Iran potesse dotarsi di un'arma nucleare in cinque anni grazie ad una sofisticata rete di contrabbando, via Pakistan e Siria, che asseritamente consentiva a Tehran di aggirare l'embargo occidentali sulle armi. Peres sottolineava in proposito che "il contrabbando del materiale nucleare era molto pericoloso", dimostrando di essere dotato di un acuto senso dell'umorismo e di una ipocrisia fuori dal comune. Nell'aprile successivo, durante l'amministrazione Clinton, si osservava che nessuno avrebbe potuto dormire tranquillo - o dormire del tutto - se "i mullah" si fossero dotati della bomba atomica. La questione era se fosse possibile prevenirlo e, se sì, come. Quell'amministrazione pensò possibile ostacolare Tehran, dissudadendo il governo russo dalla fornitura di due reattori all'Iran. Qualcuno pensò, in quel periodo, che successivamente alla fine della guerra fredda "il problema della proliferazione nucleare non stava migliorando ma peggiorando" (Michael Krapon, direttore di un think tank sulla sicurezza nucleare a Washington). E sarebbe potuto anche peggiorare considerevolmente anche solo perchè l'attenzione pubblica si era allontanata dal soggetto nucleare. Fino agli anni 80, si disse, l'Unione Sovietica e gli USA tenevano entrambi il grilletto nucleare nelle loro mani. Ognuno aveva ragioni per costruire un arsenale nucleare ma anche buoni motivi per non servirsene. (*)
In una inconsueta intervista di due ore dal suo ufficio di Tehran, intorno agli inizi di luglio 1995, il presidente iraniano Rafsanjani parlò di tutte le questioni cruciali del momento e in merito all'empasse tra Iran e USA dichiarò che l'embargo operato dal presidente americano Clinton avrebbe danneggiato solo l'America, negando che l'Iran stesse acquisendo armi nucleari ed accusando gli USA di ignorare i diritti umani. Dichiarò inoltre che benchè non credesse all'equità nella conduzione del processo di pace in Medio oriente, l'Iran non l'avrebbe ostacolato. "Crediamo che questa nuova misura sia in parte per la pressione esercitata dai circoli sionisti, ma parlando in generale, dall'inizio della rivoluzione (iraniana) l'amministrazione americana ha dimostrato la sua ostilità verso la rivoluzione stessa. Le condizioni interne degli USA, le rivalità tra i due partiti ed altri problemi interni, hanno reso necessario trovare un nemico all'esterno. Nel passato l'Unione Sovietica era considerata il nemico. Ora vogliono che l'Iran sia il capro espiatorio ..." (Washington Post, 9 luglio 1995). Il 14 maggio precedente il New York Times riferiva che le autorità iraniane contavano di costruire circa dieci impianti di produzione nucleare nei successivi vent'anni e negavano - come in centinaia di altre occasioni da allora - le accuse degli USA che l'Iran stesse tentando di sviluppare armi nuclari.
(*) «In più di quarant'anni di Guerra Fredda il genere umano non è stato distrutto a causa della mutua deterrenza tra le due superpotenze. La stabilità strategica era basata sull'equilibrio tra la paura e quello che fu chiamato MAD - mutual assured destruction [reciproca distruzione assicurata]. Era chiaro ad entramebe le parti che anche se solo una fosse riuscita a sorprendere il suo rivale, la vittima avrebbe comunque avuto abbastanza bombe da provocare la totale distruzione dell'attaccante...». In un interessante articolo di Reuven Pedatzur su Haaretz, si analizza l'ìpotesi di nuova deterrenza conseguente il possibile ampliarsi (nel caso, verso l'Iran) del potenziale nucleare offensivo del pianeta. Mi sento di condividere in parecchi punti il pensiero dell'editorialista di Haaretz. Se infatti non è stato sinora possibile giungere a "somma nucleare zero" mediante abbandono globale, totale ed incondizionato di ogni armamento nucleare (e direi comunque non convenzionale) e non è neppure ipotizzabile che l'abbandono venga preso in considerazione, riterrei oggi più tranquillizzante l'ipotesi di nuova deterrenza che ponga rimedio al venir meno del blocco sovietico ed alla possibilità, oggi concretamente in atto, di dovere assistere ad una "emissione nucleare unilaterale" (da parte della potenza o del gruppo di paesi di volta in volta dominanti) nei confronti del blocco (o del paese) di volta in volta - per farla semplice - più debole o sgradito. Condivido inoltre con Pedatzur (con E. Said e con molti altri) la irriguardorsa convinzione che Bernard Lewis - anziano ed infaticabile propugnatore di una "logica" di scontro tra mondi diversi e compilatore di inaccettabili generalizzazioni sul fatalismo suicida del mondo arabo tout court - sia un pericoloso e vecchio trombone. Vale a mio avviso la pena di leggere l'intero articolo ("Let them have nukes").
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