sabato, settembre 09, 2006

Ipocrisia nucleare

Nel 1991 l'amministrazione Bush (quella di George senior, naturalmente) formulò un piano di rinuncia alle armi chimiche in Medio Oriente. Subito si osservò che questo avrebbe costituito un ostacolo alla produzione di armi nucleari da parte di Israele. Si disse tuttavia, in proposito, che il piano costituiva uno sforzo per agevolare il controllo della armi nella regione e non fosse naturalmente destinato solo ad Israele, l'unica nazione in Medio Oriente di cui si ipotizzava il possesso di armi nucleari. Secondo il piano, quindi, Israele avrebbe dovuto disfarsi del proprio arsenale nucleare a fronte della rinuncia degli altri paesi ai rispettivi arsenali chimici.
Il 14 maggio 1991 Bush sperava di poter annunciare il piano ufficialmente al più presto, benchè si fosse consapevoli che ciò avrebbe causato problemi con Israele. Il 3 giugno 1991, secondo Associated Press (in Rocky Mountain News) il segretario alla difesa Cheney - sì, proprio lo stesso Cheney - annunciò che gli USA non avrebbero cercato di sollecitare Israele o gli stati arabi ad intraprendere negoziati di pace in medio oriente tagliando la fornitura di armi. "Penso che per noi - precisò Cheney - l'idea di minacciare i nostri amici israeliani con un taglio alle forniture, per esempio per ottenere che facciano qualcosa sul piano diplomatico, possa essere controproducente".
Per parte sua il presidente egiziano Mubarak, il 12 giugno (1991) successivo, suggeriva senza mezzi termini al primo ministro israeliano Shamir che sarebbe stato impossibile per Israele mantenere l'occupazione ed aspettarsi la pace in Medio Oriente, e lo sollecitava ad una certa "flessibilità", se veramente interessato alla pace. Questo dopo aver sottolineato, il 5 giugno precedente, che quello che preoccupava i paesi arabi in merito al piano di Bush sulle armi era proprio la capacità nucleare di Israele, non senza aver manifestato qualche preoccupazione sul fatto che gli USA stessi ignorassero la reale entità dell'arsenale nucleare israeliano. Questo - si disse - cioè il potenziale israeliano era il problema "centrale all'intero processo" e rendeva non realistico il piano di Bush (così il ministro degli esteri Amr Mussa). Pochi mesi più tardi, nell'ottobre 1991, un libro di Seymour M. Hersh, riferiva infatti che l'arsenale nucleare di Israele era assai più ampio di quanto previsto dal governo USA e che uno dei principali bersagli potenziali delle armi nucleari israeliane era stata a suo tempo l'Unione Sovietica. Il libro ("The Samson Option") precisava che Israele era in possesso di oltre 300 ordigni nucleari e che vi era stato un pieno allarme nucleare per ben tre volte in passato.

Solo nel novembre 1994 l'ipotetico potenziale bellico nucleare israeliano veniva approssimativamente indicato in circa 200 ordigni e sette installazioni nucleari sulla base delle indicazioni fornite da un analisi di foto dal satellite ad alta risoluzione fornita alla rivista di intelligence Jane's, realizzate nei cinque anni precedenti, osservazioni che, si potè leggere (Miami Herald, 19 novembre 1994), avevano reso possibile seguire il percorso degli ipotetici armamenti dal reattore nucleare al prodotto finale. Ma nel frattempo (fine 1991) cominciavano, guarda caso, a trapelare informazioni della CIA sull'esistenza di "una forte probabilità che l'Iran avesse acquisito tutte, o virtualmente tutte, le componenti per la fabbricazione di due o tre bombe atomiche". Un rapporto del febbraio 1992 alla Camera dei rappresentanti aveva poi ipotizzato che questi (due o tre) ordigni avrebbero potuto essere operativi tra il febbraio e l'aprile del medesimo 1992, ma ancora nel febbraio 1993 il direttore della CIA, James Woolsey, affermava che l'Iran necessitava di otto, dieci anni per produrre la sua bomba.

Nel gennaio 1995, in pieno periodo Clinton, "nuove informazioni" indicavano che l'Iran avrebbe potuto ottenere armi nucleari in cinque anni o meno. Si precisava che le autorità israeliane consideravano questa possibilità in cima alla lista delle loro preoccupazioni e alcuni iniziarono addirittura ad ipotizzare che Israele stesse valutando l'ipotesi di un attacco militare preventivo ai reattori iraniani. A Gerusalemme, il 6 gennaio 1995, si immaginava infatti che le autorità israeliane avrebbero sottolineato al segretario della difesa americano William Perry, in occasione della sua visita della settimana seguente, che necessitavano nuovi sforzi per impedire all'Iran e all'Iraq lo sviluppo di armi nucleari. Stiamo parlando di undici anni fa. Gli esperti israeliani dichiararono allora che l'Iran si stava muovendo velocemente per ottenere un'arma nuclare e ci si aspettava la potesse ottenere in un periodo di cinque anni e potesse munirsi di un sistema di lancio in un periodo tra i sette e i dieci anni "se l'Iran avesse mantenuto lo stesso sforzo intensivo per ottenere tutto ciò che gli serviva". Il 16 marzo 1995, Shimon Peres, durante una visita con il principe Hassan in Giordania, disse che era preoccupato delle nuove informazioni per cui l'Iran potesse dotarsi di un'arma nucleare in cinque anni grazie ad una sofisticata rete di contrabbando, via Pakistan e Siria, che asseritamente consentiva a Tehran di aggirare l'embargo occidentali sulle armi. Peres sottolineava in proposito che "il contrabbando del materiale nucleare era molto pericoloso", dimostrando di essere dotato di un acuto senso dell'umorismo e di una ipocrisia fuori dal comune. Nell'aprile successivo, durante l'amministrazione Clinton, si osservava che nessuno avrebbe potuto dormire tranquillo - o dormire del tutto - se "i mullah" si fossero dotati della bomba atomica. La questione era se fosse possibile prevenirlo e, se sì, come. Quell'amministrazione pensò possibile ostacolare Tehran, dissudadendo il governo russo dalla fornitura di due reattori all'Iran. Qualcuno pensò, in quel periodo, che successivamente alla fine della guerra fredda "il problema della proliferazione nucleare non stava migliorando ma peggiorando" (Michael Krapon, direttore di un think tank sulla sicurezza nucleare a Washington). E sarebbe potuto anche peggiorare considerevolmente anche solo perchè l'attenzione pubblica si era allontanata dal soggetto nucleare. Fino agli anni 80, si disse, l'Unione Sovietica e gli USA tenevano entrambi il grilletto nucleare nelle loro mani. Ognuno aveva ragioni per costruire un arsenale nucleare ma anche buoni motivi per non servirsene. (*)

In una inconsueta intervista di due ore dal suo ufficio di Tehran, intorno agli inizi di luglio 1995, il presidente iraniano Rafsanjani parlò di tutte le questioni cruciali del momento e in merito all'empasse tra Iran e USA dichiarò che l'embargo operato dal presidente americano Clinton avrebbe danneggiato solo l'America, negando che l'Iran stesse acquisendo armi nucleari ed accusando gli USA di ignorare i diritti umani. Dichiarò inoltre che benchè non credesse all'equità nella conduzione del processo di pace in Medio oriente, l'Iran non l'avrebbe ostacolato. "Crediamo che questa nuova misura sia in parte per la pressione esercitata dai circoli sionisti, ma parlando in generale, dall'inizio della rivoluzione (iraniana) l'amministrazione americana ha dimostrato la sua ostilità verso la rivoluzione stessa. Le condizioni interne degli USA, le rivalità tra i due partiti ed altri problemi interni, hanno reso necessario trovare un nemico all'esterno. Nel passato l'Unione Sovietica era considerata il nemico. Ora vogliono che l'Iran sia il capro espiatorio ..." (Washington Post, 9 luglio 1995). Il 14 maggio precedente il New York Times riferiva che le autorità iraniane contavano di costruire circa dieci impianti di produzione nucleare nei successivi vent'anni e negavano - come in centinaia di altre occasioni da allora - le accuse degli USA che l'Iran stesse tentando di sviluppare armi nuclari.

(*) «In più di quarant'anni di Guerra Fredda il genere umano non è stato distrutto a causa della mutua deterrenza tra le due superpotenze. La stabilità strategica era basata sull'equilibrio tra la paura e quello che fu chiamato MAD - mutual assured destruction [reciproca distruzione assicurata]. Era chiaro ad entramebe le parti che anche se solo una fosse riuscita a sorprendere il suo rivale, la vittima avrebbe comunque avuto abbastanza bombe da provocare la totale distruzione dell'attaccante...». In un interessante articolo di Reuven Pedatzur su Haaretz, si analizza l'ìpotesi di nuova deterrenza conseguente il possibile ampliarsi (nel caso, verso l'Iran) del potenziale nucleare offensivo del pianeta. Mi sento di condividere in parecchi punti il pensiero dell'editorialista di Haaretz. Se infatti non è stato sinora possibile giungere a "somma nucleare zero" mediante abbandono globale, totale ed incondizionato di ogni armamento nucleare (e direi comunque non convenzionale) e non è neppure ipotizzabile che l'abbandono venga preso in considerazione, riterrei oggi più tranquillizzante l'ipotesi di nuova deterrenza che ponga rimedio al venir meno del blocco sovietico ed alla possibilità, oggi concretamente in atto, di dovere assistere ad una "emissione nucleare unilaterale" (da parte della potenza o del gruppo di paesi di volta in volta dominanti) nei confronti del blocco (o del paese) di volta in volta - per farla semplice - più debole o sgradito. Condivido inoltre con Pedatzur (con E. Said e con molti altri) la irriguardorsa convinzione che Bernard Lewis - anziano ed infaticabile propugnatore di una "logica" di scontro tra mondi diversi e compilatore di inaccettabili generalizzazioni sul fatalismo suicida del mondo arabo tout court - sia un pericoloso e vecchio trombone. Vale a mio avviso la pena di leggere l'intero articolo ("Let them have nukes").

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