lunedì, gennaio 30, 2006

Già visto

[Déjà vu, di Uri Avnery, su Gush Shalom del 28 gennaio 2006] «SE ARIEL Sharon non fosse stato in coma profondo, sarebbe saltato dal letto per la gioia. La vittoria di Hamas soddisfa le sue più ardenti speranze. Per un anno intero ha fatto tutto il possibile per minare Mahmoud Abbas. La sua logica era del tutto evidente: gli americani volevano che lui negoziasse con Abbas. Tali negoziazioni avrebbero inevitabilmente portato ad una situazione che lo avrebbe costretto a cedere quasi tutto il West Bank. Sharon non aveva intenzione di farlo. Voleva annettere circa metà del territorio. Così doveva liberarsi di Abbas e della sua immagine da moderato. Durante l'ultimo anno, la situazione dei palestinesi era peggiorata di giorno in giorno. Le operazioni connesse all'occupazione rendevano la vita normale e il commercio impossibili. Gli insediamenti nel West Bank crescevano continuamente. Il muro, che taglia circa il 10% del West Bank era vicino al completamento. Non erano stati rilasciati prigionieri importanti. Lo scopo era imprimere nella testa dei palestinesi che Abbas è debole ("un pollo senza penne", come diceva Sharon) e non può ottenere nulla e che offrire la pace e osservare il cessate il fuoco non porta da nessuna parte. Il messaggio ai palestinesi era chiaro. "Israele capisce solo il linguaggio della forza". Ora i palestinesi hanno messo al potere un partito che parla questa lingua. PERCHE' HA VINTO Hamas? Le elezioni in Palestina, come quelle tedesche, consistono di due parti. Metà dei membri del parlamento sono eletti con liste dirette (come in Israele), l'altra metà sono eletti individualmente nei loro distretti. Questo dà ad Hamas un enorme vantaggio. Nelle elezioni a liste dirette, Hamas ha vinto con una lieve maggioranza. Questo suggerirebbe che per quanto riguarda la generale linea politica la maggioranza non è lontana dalle posizioni di Fatah, due stati e pace con Israele. Molti dei voti dati ad Hamas non hanno a che vedere con la pace, la religione e il fondamentalismo, ma con la protesta. L'amministrazione palestinese, condotta quasi esclusivamente da Fatah, è infettata dalla corruzione. L'uomo della strada sente che chi lo governa non si cura di lui. Fatah era anche rimproverata per la terribile situazione creata dall'occupazione. Inoltre, la gloria dei martiri e l'indomita battaglia contro l'esercito israeliano, immensamente superiore, ha accresciuto la popolarità di Hamas. Nelle elezioni personali individuali, la situazione di Hamas era addirittura migliore. Hamas aveva candidati più credibili e non toccati dalla corruzione. L'organizzazione del partito era molto superiore, i suoi membri molto più disciplinati. In ogni distretto c'erano parecchi candidati di Fatah in competizione fra loro. Dopo la morte di Yasser Arafat, non c'è un leader più forte e capace di imporre l'unità. marwan Barghouti, che avrebbe potuto forse fare questo lavoro, è detenuto in una prigione israeliana, un altro grande regalo di Israele ad Hamas. La GENTE CHE crede alle cospirazioni può asserire che tutto questo faccia parte di un piano deviante di Israele. Alcune persone addirittura credono che Hamas sia stato un'invenzione di Israele dall'inizio. Il che è, naturalmente, una grossa esagerazione. Ma è davvero il caso che negli anni prima della prima intifada, l'organizzazione islamica era il solo gruppo palestinese che aveva praticamente campo libero nei territori occupati. La logica era questa: il nostro nemico è l'OLP. Gli islamisti odiano l'OLP secolare e Yasser Arafat. Così li possiamo usare contro l'OLP. Per di più, mentre tutte le istituzioni politiche erano ostracizzate ed anche i palestinesi che lavoravano per la pace erano arrestati per aver condotto attività politica illegale, nessuno poteva controllare quello che succedeva nelle moschee. "Fino a quando pregano non sparano" era l'innocente opinione dei comandanti dell'esercito israeliano. Quando esplose la prima intifada, alla fine del 1987, questo si rivelò sbagliato. Hamas era formato in parte da combattenti della Jihad Islamica. In breve tempo Hamas divenne il nucleo della resistenza armata. ma per quasi un anno i servizi di sicurezza israeliani non agirono contro di esso. Poi la politica cambiò e lo Sceicco Ahmed Yassin, il leader spirituale, venne arrestato. Tutto questo accadde più attraverso la stupidità che tramite un piano d'azione. Ora il governo israeliano è fronteggiato dalla dirigenza di Hamas democraticamnte eletta dal popolo. ED ORA? Bene, un forte senso di déjà vu. Negli anni 70 e 80 il governo israeliano dichiarò che non avrebbe mai negoziato con l'OLP. Sono terroristi. Hanno uno statuto che persegue la distruzione di Israele. Arafat è un mostro, un secondo Hitler. COsì, mai, mai, mai --- Alla fine, dopo molto spargimento di sangue, Israele e l'OLP si riconobbero l'un l'altro e furono firmati gli accordi di Oslo. Adesso ascoltiamo di nuovo la stessa musica. Terroristi. Assassini. Lo statuto di Hamas persegue la distruzione di Israele- Non negozieremo mai, mai, mai con loro. Tutto questo è assai benvenuto per il partito Kadima di Sharon, che apertamente persegue l'annessione unilaterale dei territori ("stabilendo unilateralmente i confini di Israele"). Aiuteranno il Likud e i falchi del Labor, il cui mantra è "non abbiamo un partner per la pace", intendendo - all'inferno la pace. Gradualmente il tono cambierà. Entrambe le parti e pure gli americani verranno giù dall'albero. Hamas dichiarerà che è pronto per negoziare e troverà qualche motivazione religiosa per questo. Il governo israeliano (probabilmente capeggiato da Ehud Olmert) si inchinerà alla realtà e alla pressione americana. L'Europa dimenticherà i suoi ridicoli slogan. Alla fine tutti converranno sul fatto che una pace in cui Hamas è un partner è meglio di una pace solo con Fatah. Preghiamo perchè non sia sparso troppo sangue prima di allora».

venerdì, gennaio 27, 2006

Elezioni in Palestina


«Israele non potrà accettare una situazione in cui il movimento Hamas, nella sua attuale struttura di organizzazione terroristica che vuole la distruzione dello Stato d'Israele, diventi parte dell'Autorità nazionale palestinese e non sia disarmato. Lo ha detto il premier ad interim israeliano, Olmert, il 25 gennaio 2006. Nel comunicato emesso, Olmert sottolinea che "Israele non condurrà negoziati con il governo palestinese se questo non onorerà l'obbligo fondamentale di combattere contro il terrorismo"». Ha detto la parola magica. In possesso dei risultati elettorali e al di là di quello che in concreto si possa pensare e delle strategie da seguire, è una dichiarazione volutamente umiliante, prematura, inopportuna. Gli integralisti di Hamas non attirano simpatie, anzi sono stati e sono una micidiale e strumentalizzata sciagura, un alibi imbattibile. Ma con un altissima affluenza alle urne, vanno oggi verso il 44% (dato incerto fino all'ultmo) dei consensi. Pochi per suo merito, molti per volontà di Israele e per colpa di Fatah e della corrotta dirigenza palestinese. Il che dovrebbe far pensare. Se questa è la strada per galleggiare politicamente in Israele, non lo è per ottenere un risultato sbandierato e diverso. Ma è funzionale per tenere in vita fino alle estreme conseguenze e costi quel che costi una specie di frontiera a senso unico sul carcere a cielo aperto di Gaza e considerare ancora i confini aperti sino a dove riusciranno a portare le rappresaglie, il muro, l'incremento delle colonie, la miseria e la sottrazione di terra occupata nei confronti di una popolazione compressa sino all'esplosione, miserabile ed umiliata. Finchè i numeri lo consentiranno.
«Una replica indiretta è arrivata dal portavoce di Hamas nella Striscia di Gaza, Sami Abu Zuhri ... "Quando Israele, l’occupante, riconoscerà i nostri diritti e si ritirerà dai nostri Territori - ha detto - , allora saremo disposti a riconoscerne il diritto all’esistenza e togliere dal nostro statuto l’articolo che ne chiede la distruzione"». Con le maggioranze in gioco è fatale l'annacquamento politico di Hamas. Israele può sempre cercare di metterci una pezza per rimanere sul piano del conflitto a oltranza. Basta urlare abbastanza forte che pur con una percentuale di votanti che si aggira forse sul 50% i fiancheggiatori di Hamas siano tutti terroristi. Non credo sia il caso di dare una mano a questo tipo di propaganda.
L'OLP si era già avvicinato al tavolo delle trattative quando Israele ritenne di appoggiare i "fratelli musulmani" (sovvenzionati dall'arabia saudita) che già disponevano di una parte armata (Jihad Islamica) e diedero poi vita, nel dicembre 1987, al movimento (islamico) di Hamas. Il "giochino", partito per delegittimare l'OLP, andò poi fuori controllo, visto che da una parte si moltiplicarono le operazioni del braccio armato di Hamas (Brigate Ezzedin al Qassam) e dall'altra il movimento acquistò una forte presa sulla popolazione da un punto di vista sociale e religioso. Gridare al "terrorismo" da parte della dirigenza israeliana in un momento di generalizzata (e accesa) partecipazione politica palestinese è inqualificabile e poco lungimirante è - a mio avviso - farsi portavoce di propaganda populista in un momento in cui il tifo da stadio non può essere sostituito al ragionamento. Tanto più che Fatah starebbe avanzando opposizioni (di facciata?) all'ipotesi di un governo con Hamas.
«Il movimento islamico Hamas, vincitore delle elezioni legislative palestinesi, si è detto pronto a cooperare con al Fatah e ha affermato che presto cominceranno le consultazioni col presidente Abu Mazen per la formazione di un nuovo governo palestinese.Lo afferma il capolista di Hamas alle elezioni, Haniyeh. Al Fatah ha respinto l'offerta di cooperazione da parte di Hamas: "Fatah non andrà al governo con Hamas". Lo ha annunciato una fonte del partito del presidente Abu Mazen». Questa la reazione dell'Unione Europea. «I risultati definitivi del voto palestinese potrebbero portare l'Ue a confrontarsi «con una situazione completamente nuova che dovrà essere analizzata» dal Consiglio dei ministri degli Esteri, che si terrà lunedì prossimo a Bruxelles. Lo ha rilevato l'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Ue Javier Solana, il quale ha accolto positivamente che i palestinesi abbiano votato «democraticamente e pacificamente», sottolineando che «l'Unione europea ha sostenuto il tranquillo svolgimento di queste elezioni». «La posizione dell'Ue a sostegno del riconoscimento di Israele e di una soluzione pacifica negoziale che porti a due Stati è ben nota», ha aggiunto Solana, secondo il quale l'Ue attende «una conferma» dei risultati elettorali palestinesi. «L'Ue - ha osservato - esprimerà le sue opinioni e le prospettive di cooperazione col futuro governo palestinese alla luce della discussione e degli sviluppo in loco». Prevedibile la replica del governo israeliano: 18:12 Haaretz News Flashes - Israele sollecita l'Unione Europea ad opporsi al "governo terrorista" dopo la vittoria di Hamas. Alle 19:18 Haaretz News Flashes riferisce i risultati finali alle elezioni in Palestina: Hamas ottiene 76 seggi, Fatah 43.
Leggevo questo breve flash di agenzia su Haaretz di stasera 22:53 «Il deputato Eitam suggerisce che Israele assassini i membri della lista di Hamas (Israel Radio)» e che Olmert (primo ministro f.f. e rappresentante del Kadima) ignorerà un governo retto da Hamas e lo considererà irrilevante. Alla proposta sugli assassini non potevo credere e invece ne ho avuto conferma leggendo poche righe su Yediot Ahronot. Sono posizioni che risultano uno schiaffo al voto di metà della popolazione palestinese. Certo, il Presidente Moshe Katsav è possibilista in ordine ad una negoziazione con l'autorità palestinese purchè Hamas rinunci alla resistenza armata e riconosca il diritto di Israele ad esistere. In altri termini, se anche Hamas deporrà le armi per accettare al buio la pax USA/israeliana sotto il giogo dell'esercito occupante. Ci si dovrebbe chiedere cosa possa portare Hamas a perseguire la strada già fatta a pezzi da Barak a Camp David e triturata da Sharon prima del suo tardivo pragmatismo. E ci si chiede, oltre alle parole, cosa metta sul piatto della bilancia in questo momento di relativa calma il governo israeliano. Questo ben potrebbe approfittare - se volesse (ma sarebbe una novità) - della neonata presa di posizione politica del movimento e soprattutto dell'ampio consenso, che ben altri problemi potrebbe comportare qualora lo scarso substrato confessionale sottostante l'ascesa di Hamas si trasformasse in affamata rassegnazione alla logica fondamentalista.
Il 26 gennaio 2006 si chiude sulla vittoria di Hamas alle elezioni in Palestina. Alle 22:42 sappiamo che: «Una bambina palestinese di nove anni è stata uccisa, raggiunta da colpi di arma da fuoco sparati da soldati israeliani vicino alla frontiera con lo stato ebraico, nel sud della Striscia di Gaza. Lo si apprende da fonti ospedaliere e della sicurezza palestinese. L'esercito israeliano ha comunicato che i soldati hanno aperto il fuoco e ucciso un palestinese che portava una borsa (nel quale si sospettava portasse esplosivi) e che non si era fermato dopo l'alt intimato dai militari». Alle 22:59 italiane Haaretz comunica che «l'enclave ebraico di Hebron sarà dichiarato area militare chiusa domani». Hebron è una città della parte sud del West Bank, all'interno della quale vivono circa 130,000 palestinesi e circa 500 coloni ebrei. Alle 11:48 italiane Reuters riferisce che il primo ministro palestinese Abbas intende chiedere ad Hamas di formare il nuovo governo. Alle 00:23 italiane del 27.1.06 viene sparato un razzo Qassam nella parte ovest del Negev, in territorio israeliano, non si riportano feriti o danni. Il primo ministro vicario Ehud Olmert dice che «una Autorità Nazionale Palestinese condotta da Hamas non è un partner di pace. Se un governo condotto da Hamas o un governo in cui Hamas è partner verrà composto, l'Autorità diventerà un'Autorità che supporta il terrore, Israele e il mondo lo ignoreranno e lo considereranno irrilevante». Quasi fuori dal coro, Benjamin Ben Eliezer, del Labor, che dichiara «Noi non abbiamo motivo di parlare con Hamas. Ma se Hamas riconosce il nostro diritto di esistere, rivaluteremo la questione». Ma aggiunge che «Hamas, come è oggi, non è preparata a cambiare una parola della sua piattaforma».

domenica, gennaio 22, 2006

Un ponte ...

Il reporter americano Micah Garen è stato rapito da militanti sciiti il 13 agosto 2004 e rilasciato il 22 agosto 2004. Il suo nome è stato associato ad un filmato giudicato inverosimile dalle autorità italiane su una operazione in cui i soldati italiani di Nassiriya avrebbero preso di mira un'autoambulanza, uccidendone quattro occupanti, tra cui una donna incinta. I rapitori di Garen avrebbero apprezzato questo reportage e provveduto di seguito al rapido rilascio dell'ostaggio. Micah Garen è stato intervistato da Amy Goodman di Democracy Now il 20 gennaio 2006, in occasione del sequestro di Jill Carroll. Di seguito, le parole di Garen sul video dell'autoambulanza. AMY GOODMAN: Puoi parlarci del ruolo di un reportage che tu hai fatto proprio prima del tuo sequestro, proprio prima del tuo rapimento, sui militari italiani in Iraq? MICAH GAREN: Sì, Questo è molto importante, e ancora, questo va al cuore del, sai, dei giornalisti e del perchè il loro lavoro è importante ed è rispettato laggiù. Una settimana prima del mio rapimento gli italiani erano impegnati in normali scaramucce con l'esercito del Mahdi a Nassirya. E una notte, a tarda notte durante alcuni combattimenti, avevano riferito che c'era stato un attentato con un'autobomba contro una delle loro posizioni e che quattro persone erano state uccise. E quando ho letto il rapporto italiano ho pensato "Che strano. Da quando un'autobomba è riempita di gente?". Così sono andato fuori ad investigare e ho scoperta che c'era stata un'autoambulanza ad essere colpita e cinque civili iraqeni, compresa una donna incinta, erano stati uccisi. E io ho riferito questo a RAI2, che è un'agenzia italiana di notizie e questo ci ha dato un sacco di problemi. Gli italiani erano molto arrabbiati con noi. Ed io fondamentalmente dovevo andarmente. Ero stato alla base come posto per rimanere a Nassirya e mi hanno buttato fuori. Ed era proprio ...era proprio una situazione orribile. E poi, quando sono stato rapito, i sequestratori hanno saputo che avevo riportato questa storia, perchè chiunque a Nassirya sapeva che avevo riportato la storia. E quello veramente fece la differenza nel caso. Essi capirono che io non ero, come pensano di ogni reporter, uno strumento della coalizione, essi capirono che ero veramente lì perchè sono preoccupato degli iraqeni e della loro situazione. E, sapete, noi riuscimmo veramente a parlare con una delle guardie ad un punto in merito a questa storia e lui --all'inizio non ci credeva. Ha detto "Perchè un reporter occidentale riferisce questo?". E allora controllarono e dissero "Oh , questo è veramente interessante". E io penso che quello, ciò che è così importante è là dove c'è tanta diffidenza. E penso, sai, tutto quanto la gente può fare per mettere un ponte per colmare questo divario è molto importante". Nel frattempo, il 20 agosto 2004, venivano rapiti e subito inspiegabilmente uccisi Ghareeb ed Enzo Baldoni. E' difficile allontanare il sospetto che le incaute parole di Garen sull'operazione italiana a Nassirya, reiterate sino ad oggi, abbiano potuto giocare un qualche ruolo nella vicenda. Si potrebbe infatti pensare che in questo caso il ponte di cui parla il reporter americano sia stato edificato su un reportage ed un successivo racconto quantomeno disinvolti, ma recepiti come verità rivelata dai sequestratori. E questo ponte sia infine malauguratamente passato sulla pelle di Enzo e di Ghareeb. (Il video e la trascrizione dell'intervista a Micah Garen su Democracy Now).

sabato, gennaio 14, 2006

Incubi

«Immagini confuse: una collutazione, il colpo che lo avrebbe soltanto immobilizzato, infine la lama che infierisce sul collo. Enzo Baldoni ha provato a difendersi dalla morte. Nel video che ha registrato la sua fine si vede una colluttazione. Un gesto di disperazione e di orgoglio simile a quello che segnò gli ultimi istanti di vita di Fabrizio Quattrocchi, l'altra vittima della ferocia dei terroristi che non rispettano nemmeno chi va in Iraq sognando la pace. Enzo come Fabrizio. I passi trascinati verso il momento della fine. Il fiato corto di chi sa che non può più chiedere prestiti al futuro. E infine un colpo d’arma da fuoco e gli occhi che si chiudono su qualche particolare, immagini confuse riprese dai registi dell’orrore». Inizia con questo racconto un articolo del Corriere della Sera del 27 agosto 2004 (1). Ma quel racconto non è vero. E svapora nello spazio di un giorno.
Perchè la particolareggiata, terribile descrizione di quella colluttazione, quel video così enfaticamente descritto verrà convogliato nell’unico fotogramma che lo smentisce e che riprende il corpo senza vita di Enzo Baldoni diffuso una dozzina di giorni dopo. Un fotogramma di qualità assai scadente, forse manipolato, che sostituirà per tutti la descrizione di una scena spaventosa, nata da chissà cosa, negata perche dichiarata troppo cruenta della tv satellitare Al Jazeera agli utenti e diventata presto una leggenda, il nulla, perchè quello che oggi non è immagine riprodotta del mondo, quello che non è visibile, non esiste.
Una scena inventata di sana pianta? Forse, ma certamente inaspettata dopo che Enzo Baldoni, ripreso tre giorni prima, in un video di pregevole fattura, non manifestava – caso più unico che raro tra i sequestrati - alcuna particolare emozione. Anzi dimostrava disinvoltura e sufficienza nel riferire, forse leggere, il suo messaggio alla telecamera. Un atteggiamento incredibile, perso nel tempo e attribuito alla sua convinzione o alla consapevolezza che tutto è un gioco. Anche la morte. Un atteggiamento lontano anni luce da quella che sarebbe stata la prima violenta e macabra rappresentazione, poi rinnegata e dimenticata, di una morte assurda. Ma quella scena qualcuno l'ha descritta e qualcuno anche molto autorevolmente l'ha diffusa. Quel primo racconto non si dimentica facilmente, ma scompare dal mondo del vero e resta un incubo. Uno dei tanti.
Del resto rischiano di diluirsi fino all'inesistenza tutte le incongruenze che hanno avviluppato gli ultimi giorni e la fine crudele in Mesopotamia di Enzo Baldoni e di cui forse presto non vi sarà traccia sui media a larga diffusione.
Incongruenze, strane idee che balzano in mente anche in questi giorni leggendo, in occasione del sequestro di Jill Carroll, giornalista free lance americana rapita a Baghdad il 7 gennaio 2006, che dei trentuno operatori dei media rapiti in Iraq dall'inizio della guerra, solo cinque sono stati uccisi dai loro sequestratori, quattro iraqeni ed Enzo Baldoni. Gli altri sono stati rilasciati incolumi (2).
E' infatti naturale pensare in proposito e come logica conseguenza che solo Enzo, tra i 26 giornalisti non iraqeni sequestrati, è stato considerato una spia o un uomo pericoloso. Un uomo da uccidere prima della scadenza di un ultimatum fasullo e palesemente inaccettabile. Ma pericoloso perchè? E per chi? Abbiamo le vaghe parole riportate il 24 Dicembre 2004 su Libération, poi riprese ed ampliate nel libro di Chesnot e Malbrunot. E’ in quella occasione che Chesnot afferma: "ce qui leur a sauvé la vie «c'est d'être français et d'être en règle». Il a raconté que les ravisseurs ont vérifié qu'ils étaient «des vrais journalistes» et «sont allés chercher sur Internet» les articles qu'ils avaient écrits". Chesnot insiste quindi sul fatto che lui e Malbrunot si sarebbero salvati perchè erano francesi e "in regola", quasi a sottolineare la differenza con altri sequestrati, sicuramente meno francesi ma soprattutto ed evidentemente considerati meno "in regola". Ma perchè? Visto che i sequestratori, esperti del mezzo informatico e capaci di elaborare un filmato di gusto quasi occidentale, navigavano agevolmente per internet in cerca di notizie, come hanno riferito i giornalisti francesi? Risulta allora assai oscuro il fatto che si siano "sbarazzati" tanto rapidamente di Enzo Baldoni. La diffusione in rete della sua attività in Iraq e il suo blog, aggiornato di giorno in giorno con i suoi movimenti, non avrebbero potuto essere più chiari.
E Ghareeb? Lo straordinario profugo palestinese che accompagnava Enzo Baldoni, ammazzato in mezzo alla strada per Baghdad, era a sua volta persona nota e da molto tempo nella regione proprio per le sue operazioni umanitarie, riferite sin nei particolari dalla blogger Helen Williams (ma non solo) proprio su internet. Straordinario davvero. Tanto straordinario da suscitare più di qualche dubbio mai approfondito. Dubbio per la disinvoltura con cui Ghareeb riusciva ad entrare ed uscire da uno dei posti chiave della resistenza iraqena, la città di Fallujah, la tana del mitico al Zarqawi. Dubbio per le peculiari capacità che tutti gli attribuivano. Ingegnere, pilota di elicotteri, informatico, poliglotta, agiato, conosciuto e accreditato in ambienti sunniti e sciiti. Ma anche noto in ambienti della resistenza e forse del giornalismo di resistenza, sempre a Fallujah. Noto ed apprezzato in ambienti della Mezzaluna Rossa a Baghdad. Una grande anima, capace di organizzare in due giorni un convoglio umanitario diretto nel posto più pericoloso del mondo. Di lui Maurizio Scelli, allora Commissario straordinario della Croce Rossa ha avanzato il dubbio che lavorasse per gli israeliani e fosse incluso in una lista di spie in possesso dei rapitori di Simona Pari e Simona Torretta. Illazioni discioltesi nel calderone dei "sentito dire da persona mai più reperibile" una volta focalizzata l'enormità della faccenda.
Ma a proposito di enormità – e ce ne sono tante – tornano in mente anche le parole di padre Benjamin, parole pesantissime, precise, cadute immediatamente nel dimenticatoio. Nel corso di una intervista il religioso dichiarava che "durante le primissime fasi del rapimento di Enzo Baldoni è intercorso un fatto nuovo che nulla aveva a che vedere con i suoi sequestratori ...diciamo che la responsabiltà della sua morte non è attribuibile solo ai suoi rapitori…sono intevenuti personaggi vicini all’intelligence ...la responsabiltà della morte di Baldoni deve essere almeno condivisa tra coloro che lo hanno sequestrato e qualcun altro…diciamo così". Ma prima di tutto Benjamin diceva che "questo del rapimento di Enzo Baldoni è stato un capitolo molto misterioso dove troppi hanno giocato un ruolo sporco. Enzo Baldoni conosceva molto bene cosa era la resistenza irachena e da chi era formata. Sapeva qualcosa di troppo e questo “troppo” decisamente non è piaciuto a qualcuno". (3)
Che fine hanno fatto queste parole? Forse troppi hanno giocato a più riprese e per motivi affatto diversi un ruolo sporco nella vicenda di Enzo Baldoni. Un ruolo che dall'Iraq prosegue fino al Qatar e all’Italia e da qui riparte con una sanguinosa descrizione che diventa subito invendibile. E scompare.

(1) http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2004/08_Agosto/27/video.shtml
(2)
http://www.rsf.org/print.php3?id_article=16113
(3) http://www.uonna.it/vivi-reporter-francesi.htm

sabato, gennaio 07, 2006

Forse ...

«Ariel Sharon è nato in Palestina nel 1928, quando la terra era un protettorato britannico. In giovane età si unì al gruppo militare Haganah e combatté nella guerra arabo israeliana del 1948-49, dopo la formazione dello stato di Israele. Fece carriera nell'esercito e nel 1967, da generale, ha guidato una divisione durante la guerra dei sei giorni del 1967. E' stato eletto per la prima volta nella Knesset, il parlamento israeliano, nel 1973, tra le fila del Likud. E' poi stato il capo dei servizi di sicurezza del primo ministro Rabin tra il 1975 e il 1977. E' stato eletto per la prima volta nella Knesset, il parlamento israeliano, nel 1973, tra le fila del Likud. E' poi stato il capo dei servizi di sicurezza del primo ministro Rabin tra il 1975 e il 1977. Dal 1977 in avanti ha ricoperto vari incarichi ministeriali: all'agrigoltura, alla difesa (nel 1982 ha guidato l'invasione del Libano), al commercio e all'industria, alla Casa, alle abitazioni. Tra il 1998 e il 1999 è stato ministro degli Esteri e dal 2001, quando ha sconfitto il laburista Barak, sino ad oggi ha ricoperto la carica di primo ministro. Nei mesi scorsi ha lasciato il Likud per dare vita al nuovo partito centrista Kadima che fino a poche ore prima dalla notizia del nuovo malore era accreditato nei sondaggi del 40% dei consensi in vista delle elezioni del prossimo maggio».
Questa il sintetico riepilogo della vita di Ariel Sharon elaborato giorni fa dal Corriere della Sera (1). In questo breve timeline vengono dimenticati - omissione che si è potuto ritenere dovuta all'uomo morente - almeno tre episodi di qualche importanza nella memoria di chi ha incontrato quest'uomo sulla linea di fuoco, o dall'altra parte della barricata, o semplicemente da un miserabile villaggio di profughi palestinesi. Nel 1953 la forza speciale dell’IDF "Unità 101" condotta da Sharon conduce un raid nel villaggio di Qibya, nel West Bank, nel quale vengono uccisi 69 civili, di cui la metà donne e bambini, in un'operazione di rappresaglia contro gli attacchi dei guerriglieri palestinesi (2). Nel settembre del 1982, con il pretesto di dare la caccia ai “terroristi” palestinesi fuori dai confini di Israele, l’esercito israeliano invade (nuovamente) il Libano. Le forze israeliane, avvalendosi delle milizie cristiane maronite libanesi, si dirigono a Beirut, dove si trova Arafat con i guerriglieri dell’OLP. Grazie alla mediazione USA, Arafat e i suoi riescono a scappare da Beirut, ma lasciano campo libero ai miliziani cristiano-maroniti che, pur sotto il controllo dell’esercito israeliano, se la prendono con i profughi civili palestinesi nei campi di Sabra e Chatila. E’ un massacro: vengono ammazzate - si dice - 1700 persone. Ariel Sharon, allora ministro della difesa, presente sul campo, subirà – in parte sulla base delle sue stesse dichiarazioni – una specie di “processo interno”, cioè un’inchiesta affidata ad una commissione israeliana (3), che attesterà quanto meno la sua responsabilità indiretta nel non avere impedito il massacro. E per questo verrà costretto a dimettersi. Ancora in tempi recenti, confidando nell’applicazione di una Legge belga che consente di processare chiunque per crimini di guerra, ovunque commessi, i parenti di quei palestinesi hanno intrapreso un’azione giudiziaria e tentato di far processare Sharon. Sotto le pressioni degli USA il Belgio ha reinterpretato la Legge in modo che non la si potesse applicare al caso. Nel settembre 2000, in vista delle elezioni che gli avrebbero conferito la poltrona di primo ministro al posto di Ehud Barak, Ariel Sharon si esibì in una provocatoria passeggiata sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme, dando motivo ai disordini ed alla esasperata repressione sfociate poi nella seconda intifada.
La vita di Sharon è stata un esempio non raro, ma nel caso micidiale, di ragionata insensibilità e mancata considerazione della libertà e della vita del popolo palestinese espropriato e sotto occupazione, secondo la più accesa e lineare ottica di "land grabbing" ma al di fuori di dichiarate ed esasperanti pulsioni bibliche. Il suo tardivo pragmatismo è apparso dettato dalla raggiunta consapevolezza di dovere infine scegliere il minore dei mali per Israele. Di fronte ad una situazione internazionale che avrebbe potuto cessare di tollerare la perpetuazione di un regime di evidente apartheid e soprattutto in previsione della bomba demografica che, senza confini determinati al di fuori dei quali posizionare un novello Stato di Palestina, pur ridotto ai minimi termini, avrebbe annichilito Israele mettendone in forse l'esistenza nel giro di pochi anni, il disimpegno da Gaza e il contestuale, strisciante incremento dello status di occupazione del West Bank, anche con la costruzione del muro, lasciavano forse intravedere quale fosse la semplice strategia di Sharon. Semplice ma realizzabile solo dopo aver diluito il suo insuperabile odio personale nei confronti di Yasser Arafat nella campagna di delegittimazione che forse ha salvato la vita al presidente palestinese ma che lo ha confinato a morte. Troppo semplice, quindi, la strategia del falco Sharon, ma da considerare alla fine - con altrettanto interessato pragmatismo - un passo importante ed una svolta vitale nella situazione israelo-palestinese sul punto di essere ammorbidita da un nascente e più tranquillizzante governo israeliano di centro indulgente al Labor. E prevedibilmente ma non necessariamente avviata secondo il disegno schematico perseguito da Ariel Sharon. Disegno che, nel bene e nel male, forse è già morto prima di lui, il 5 gennaio del 2006. Forse.

(1) Corriere della Sera
(2)
US Department of State Bulletin, Oct. 26, 1953, p. 552.
(3)
Kahan Commission e Kahan Commission 2

giovedì, gennaio 05, 2006

Ghareeb, un ricordo

Mohammed Hussein Ramadan, detto Ghareeb, straniero, nel ricordo della sua amica Jessica Anderson di Seattle. "Mercoledì, 6 ottobre 2004, 18:01 - Messaggio inoltrato da Jessica Anderson di Another World is Possible: Molti di voi hanno ricevuto una email da me in merito alla morte di un buon amico in Iraq e/o del servizio funebre che sto organizzando in sua memoria qui a Seattle. Sotto ci sono le informazioni sulla cerimonia e sotto un tributo che ho scritto per lui dopo la sua morte. Spero che vorrete prendere in considerazione il fatto di partecipare ad un funerale non solo per Ghareeb, ma per tutti i civili Iraqeni uccisi. Pace. Jessica Anderson - Another World is Possible - Cerimonia funebre per Ghareeb Mohammed Ramadan, ucciso a Najaf il 19 agosto 2004 e per tutti i civili iracheni che sono morti sotto la Guerra e l'Occupazione. Venerdì 9 ottobre alle 7:00 PM, riunione alle 6:00 PM davanti alla Lowell Elementari 11 ed E. Mercer Street per una processione funebre lungo Broadway, che finirà a SCCC per un breve servizio funebre alle 8 PM. Questo evento è una processione commemorativa soprattutto. Faremo una marcia lenta sui marciapiedi lungo Broadway trasportando una bara simbolica in luogo del corpo. Ci fermeremo per brevi intervalli lungo la via per legger poesie e racconti di Ghareeb e altri civili iraqeni uccisi, prima di procedere. Per favore vestitevi di nero a lutto e portate candele. Al SCCC ci sarà una cerimonia di 15 minuti in cui copriremo la bara e inviteremo tutti a lasciare fiori, lettere, articoli di giornale, fotografie o altri simboli del dolore che portiamo per questa guerra e per l'occupazione. Per quello di voi che vorranno fare da lettori, portatori di tamburo o portatori della bara (e ne abbiamo bisogno!!!) per favore arrivate alle 6:00 per apprendere i particolari. Domande: per favore sentitevi liberi di chiamare o mandare email. Grazie a tutti per avermi aiutato a condividere la bellezza che era quest'uomo. Pace. Jessica

Commemorando Ghareeb
Ucciso il 19 agosto 2004

Amici miei, sto scrivendovi ora con il cuore a pezzi e con una richiesta personale. Molti di voi hanno ricevuto email l'altra primavera nelle quali scrivevo del mio amico Ghareeb e della sua esperienza nella città assediata di Fallujah. Vi chiedevo allora per favore di rispondere alla richiesta di aiuto di Ghareeb, poichè era l'unico responsabile di portare Anya e me a casa sane e salve. Spero ora che vorrete accogliere un'altra chiamata per ricordare ques'uomo straordinario in ogni modo che potete.
Mohammed Ghareeb Ramadan è stato ucciso il 19 agosto 2004 mentre cercava di ostacolare il sequestro di un giornalista italiano, Enzo Baldoni, che veniva in seguito decapitato da un gruppo di resistenti chiamato Esercito Islamico. Ghareeb è stato apparentemente colpito tre volte nel petto e in testa e il suo corpo è stato lasciato nell'aria calda del deserto per un giorno e una notte prima di essere trovato dai vicini e trasportato al locale obitorio, dove il suo corpo è stato probabilmente buttato in una fossa comune.
Senza il suo corpo un funerale è difficile. Non c'è un corpo da lavare con le nostre lacrime, da portare alla moschea concordemente alla sua tradizione, sul quale pregare o da abbracciare. Non c'è un corpo da seppellire nel posto che aveva indicato, tra sua madre e la sua figlioletta morta alla nascita. Senza un corpo non possiamo onorare la sua ultima volontà di essere sepolto lì.
Mi sono chiesta per molti giorni che cosa fare e se tutto quello che posso fare è condividere la storia di questo amico, di questo uomo di pace, di questo principe, e ora spero che presentando a tutti Ghareeb, egli possa vivere per sempre nei cuori e nelle menti di tutta la sua famiglia nel mondo.
Il nome di Ghareeb significa "straniero" ed è il soprannome che gli venne dato da sua madre. Quando la sua famiglia cercò di ritornare alle terre della tribù, nella Striscia di Gaza, vennero negati i documenti a Ghareeb e la sua famiglia, sapendo che non avrebbe mai avuto un'altra possibilità, andò senza di lui e Ghareeb dovette ritornare da una terra occupata ad un'altra.
Non so neppure se la sua famiglia sa della sua morte.
Ghareeb era un ingegnere informatico prima della guerra. Guidava una Nissan. Indossava magliette polo. Voleva andare in Canada. Era solo il vostro uomo medio di ogni giorno che cercava di vivere la sua vita a Baghdad. Tutto il tempo che siamo stati con lui ha sempre rifiutato pagamenti di ogni tipo, invece ci ringraziava sempre per essere il suo passatempo, per dargli un motivo per usare il suo buon inglese, per raccontargli dell'America e del mondo, anche solo per essere là.
Per quanto ne so quando lo incontrammo Ghareeb non era coinvolto in alcun gruppo umanitario o politico. Era solo un uomo ordinario che voleva aiutare il suo Paese e fare il meglio in ogni modo e comunque potesse. Alla fine la sua bontà lo ha fatto diventare tutto tranne che regolare o ordinario.
All'epoca della sua morte, un anno dopo, Ghareeb era diventato guardia e amico di viaggiatori dagli USA, dall'Italia, dalla Germania, dall'Inghilterra, per nominarne alcune. Era andato a Fallujah in un momento in cui tutti fuggivano, così che potè portare aiuto medico e trasportare donne e bambini verso la salvezza. Quando lui ed altri furono attaccati dagli snipers USA e la loro ambulanza venne distrutta, non si fermò ma ritornò ancora e ancora con la sua auto semidistrutta infilando nel sedile posteriore un bambino dopo l'altro. Chiamava periodicamente per riferire i danni, pagando ore di chiamate telefoniche e rimanendo in piedi fino alle ore piccole, anche nei giorni in cui era esausto, per riferire quello che stava succedendo ad altri centri internazionali. E' solo per quelle telefonate e per la relativa massa di email che molti di noi hanno un'idea di quello che è realmente accaduto a Fallujah.
Nel sentire della morte di Ghareeb mi sono trovata seduta vicino agli ultimi resti che ho potuto trovare della sua presenza: una foto del suo allegro sorriso, una piccola collezione di vecchie monete iraqene che sono ora fuori corso e che era riuscito a trovare per me e un biglietto per Babilonia. Da queste memorie disegno una sua immagine: Ghareeb che ride con i suoi amici, i cui bambini gli saltano in grembo come se fosse una versione iraqena di Babbo Natale, Ghareeb che ferma la sua auto per accarezzare le pecore o sentire la brezza sulla nostra pelle, Ghareeb che ci porta fuori pericolo e nel tramonto, mostrandoci la bellezza della sua terra ed insegnandoci la bellezza della sua casa, la Palestina.
Lo ricorderò sempre salendo su un autocarro ribaltato, un giorno, lungo una strada. Un gruppo di uomini si erano riuniti per fare quello che avrebbero dovuto sapere che non potevano fare e in qualche modo ribaltare questa massa imponente per liberare il giovane intrappolato al di sotto. Anche se salvato sarebbe probabilmente morto il giorno dopo, perchè non c'erano ambulanze, nè polizia, nè 911 da chiamare, solo il deserto e i corpi sudati dei suoi compagni che spingevano.
Passavamo, Ghareeb si fermò e quasi balzò fuori dall'automobile dicendo, io DEVO fermarmi, io DEVO. Uno del nostro gruppo stava per mettersi a discutere, non c'è nulla che possiamo fare ora, dovremmo andarcene, un altro cominciò a piangere alla scena, per la tristezza e la disperazione di tutto quello. Io sentivo l'aria calda sulla faccia, sentivo la sabbia penetrare nell'auto. Guardai Ghareeb che ritornava dall'autocarro, scuotendo la testa. Si fermò e rimase a guardare brevemente da lontano, si asciugò la fronte e ritornò verso la macchina, accese una sigaretta e ci portò avanti. Quel suo sguardo allora, quanto dolore sentiva, vero dolore per tutti, per ogni singola persona, il suo dire "DEVO", e la sua capacità di affrontare tragedia dopo tragedia e ancora vedere la bellezza e la speranza, quello era Ghareeb, chiaramente come posso dipingerlo.
Ghareeb era famoso in Iraq. Ci aveva presentato ad amici di ogni sorta, che ci invitavano nelle loro case e condividevano con noi i loro racconti, il loro pasto e le loro risate. E non aveva importanza se era d'accordo con loro o no, Ghareeb portava comprensione e compassione in ogni amicizia. Era una delle persone meno propense a giudicare che io abbia mai incontrato in vita mia.
L'ultima volta che parlai con Ghareeb fu la scorsa estate. La sua esperienza vicino alla morte a Fallujah mi aveva spaventato abbastanza per dirgli come mi sentivo, quanto lo amavo, quanto lo amavamo, per chiedergli di mettersi in salvo alla fine di ogni chiamata. "Naturalmente Jessica, naturalmente. Ti chiamerò presto" mi disse. Non lo sentii più.
Cercai di chiamarlo alla fine di agosto ma il telefono era disconnesso. Sara stato un mese prima che io sapessi perchè. Ma anche ora mi trovo preda di pensieri irrazionali durante la notte, sgattaiolando giù dalle scale per fare il numero del sul cellulare e sussurrando "per favore rispondi, per favore rispondi, QUALCUNO risponda".
Trovo conforto nel sapere che la vita di Ghareeb è stata così piena ed egli è stato tanto amato alla fine. Ma ancora piango per quello che avrebbe potuto essere. Con la sua morte non solo abbiamo perso quest'uomo unico ma tutto quello che questo unico uomo avrebbe potuto mostrarci.
Per me la pena più grande viene dal sapere che alla fine sono stati iraqeni che hanno ucciso Ghareeb. Perchè questo è quello che fa l'occupazione, ingabbia le persone fino al punto in cui si rodono tra di loro, per distruggersi, una persona alla volta, un sogno alla volta. Abbiamo visto nella terra di Ghareeb in Palestina che l'Occupazione crea terrorismo. Abbiamo visto in Iraq che l'Occupazione crea terrorismo. Abbiamo visto, abbiamo visto ...
E tutte le volte che sento di un altro giovane iraqeno o un altro giovane americano che è morto per questa guerra senza senso e senza fine devo chiedermi cosa abbiamo perso con la loro morte, quali risultati, quali sogni, quali speranze, quali opportunità per la società e per questo mondo sono andati nella tomba con loro? Quanti futuri premi Nobel per la pace abbiamo ucciso? Quanti futuri scienziati o capi di domani abbiamo perso? E quanti ancora ne perderemo? Quanto sangue ci vorrà per vedere l'errore in cui siamo e fermare questa guerra?
Per Ghareeb, amico mio, non ho più parole per esprimere il mio amore, la mia gratitudine, la benedetta esperienza di averti conosciuto. Quali parole ci sono rimaste per parlare la lingua del cuore?"

mercoledì, gennaio 04, 2006

Anno nuovo, vita nuova


Territori, 2 gennaio 2006 - «Israele ha assediato il nord della Striscia di Gaza durante la notte, attaccando strade e campi, poco dopo che le forze di occupazione israeliane hanno annunciato di implementare la cosiddetta zona cuscinetto dopo che un razzo Qassam fatto in casa era stato asseritamente lanciato oltre il confine vicino alla città israeliana di Sederot. Questo attacco coincide con il fuoco aperto dai caccia israeliani sul sud del Libano, in apparente risposta a due razzi che sarebbero stati lanciati oltre il confine. Nel frattempo i buldozer stanno alacremente sradicando centinaia di ulivi palestinesi dentro e nei dintorni di Gerusalemme in vista della continua costruzione del muro illegale dell'apartheid. La campagna Stop the Wall ha diffuso ieri una dichiarazione sul muro, dicendo che "il completamento entro i primi del 2006 lascerà la maggior parte dei palestinesi di Gerusalemme e dintorni - circa 190.000 persone - fronteggiare due opzioni. Una, rimanere in un ghetto nelle vicinanze di Gerusalemme, soggetti alle alte tasse dell'Occupazione, imprigionati dal muro in una vita da assediati, l'altra, andare in esilio in quello che rimane del West Bank e Gaza o all'estero, con perdita permanente del diritto di vivere nella capitale palestinese. Dato che i palestinesi contano su Gerusalemme per un impiego, per i servizi basilari e per l'educazione, il muro sta iniziando a spopolare questi villaggi, così come a distruggere famiglie e comunità". Allo stesso tempo i coloni stanno cominciando a costruire più di una dozzina di nuove colonie nel West Bank, apertamente e, naturalmente, contro il diritto internazionale. E nuovi cosiddetti terminal vengono costruiti su e giù per il West Bank, che consentirà agli insediamenti illegali di essere collegati da strade-per-soli-ebrei, trasformando i villaggi palestinesi in ghetti». [ZNet]

martedì, gennaio 03, 2006

Luoghi comuni

Terrorismo internazionale, asse del male, punto di non ritorno, parole, luoghi comuni che riempiono la bocca di molti e le tasche di altri. Attendiamo una definizione di terrorismo senza che qualcuno estragga dal gonnellino di Eta Beta gli arbitrari elenchi di confezione USA/Israele o la facile spiegazione del perchè tale definizione non esista. Il motivo è infatti abbastanza semplice: non è possibile imporre una definizione ad hoc secondo le mire, le aspirazioni e gli interessi degli uni contro gli altri, condannando ma assolvendo contemporaneamente chi dello strumento terroristico ha fatto e fa largamente uso. In proposito Luigi Bonanate, prof. di relazioni internazionali all'Università di Torino, nel brevissimo saggio "Terrorismo Internazionale" definisce sì il terrorismo come l'azione di movimenti clandestini che hanno di mira solitamente il governo di uno o più Paesi in vista di un sovvertimento rapido e drastico dell'ordine politico e sociale, ma lo stesso accademico parla anche di forme di terrore esercitate direttamente o in modo coperto dagli Stati, così che accanto al terrorismo contro lo Stato si può proporre anche un altro terrorismo, di Stato, e sottolinea infine che quasi sempre una guerra è stata necessaria per il successo dei movimenti indipendentisti e quasi ogni guerra è stata preceduta da una fase di lotta terroristica. In una intervista ad Antonio Cassese (Prof. di diritto internazionale all'Università di Firenze, che ha presieduto per quattro anni, dal 1993 al 1997, il Tribunale penale internazionale dell'Aja) leggiamo poi che esistono dodici trattati internazionali concernenti diversi tipi specifici di azioni terroristiche, ma è stato in effetti impossibile, finora, giungere ad una definizione generale del terrorismo, accettata da tutta la comunità internazionale. E chissà perchè un fatto (o a mio avviso uno strumento, quello terroristico) deve poggiare la propria essenza su una convenzione, frutto dell'accordo tra contrapposti interessi. E comunque basta oggi indicare quale focolaio di terrorismo, con un altro utile escamotage, l'appartenenza al cosiddetto asse del male e collocarci il paese che di volta in volta fa comodo o risulta un ostacolo alle mire strategiche o al recupero di nuove risorse da parte di chi decide - con lo strapotere delle armi e dei media - "quando e come". Ma sotto questo profilo la globalizzazione e diffusione dell'informazione è un pericolo. Non sarà infatti tanto facile giustificare - ad esempio - l'aggressione in itinere nei confronti dell'Iran. Non tanto quanto lo è stato occupare l'Iraq dietro il paravento delle armi di distruzione di massa, della dittatura sanguinaria di Saddam e delle fasulle connivenze con una non meglio identificata multinazionale del terrorismo. Multinazionale tanto evanescente da evaporare nel giro di pochi mesi dall'Afghanistan all'Iraq, in compagnia di una sequela di menzogne che, secondo gli affarucci contingenti del momento, è risultato agevole spostare da una parte all'altra del medio oriente, senza considerare che il vero ed unico "asse del male" è stato da più tempo identificato nel "pericoloso circuito tra povertà, malattie infettive, degrado ambientale e crescente competizione per l'accesso al petrolio ed altre risorse". Questo il chiaro atto d'accusa verso la Casa Bianca che emerge dallo "State of the World 2005", l'ultimo rapporto del Worldwatch Institute: la "lotta al terrorismo sta spostando l'attenzione del mondo dalle reali cause di instabilità" - notano i curatori del Rapporto - e fa comodo inventarsi e supportare con una escalation mediatica preordinata secondo le necessità del momento, giorno dopo giorno, le basi per una nuova aggressione, mentre alcuni esaltati sono liberi di far credere al mondo che le loro possibilità vadano ben oltre la confezione di video da lanciare su internet. I proclami si sprecano e il 28 maggio 2003 il ministro degli esteri russo Ivanov avverte della ripetizione dello schema della aggressione contro l'Iraq nel caso dell'Iran. E infatti il 31 maggio successivo Condoleeza Rice minaccia azioni contro l'Iran per il suo supposto appoggio al terrorismo, al gruppo Al Qaeda e per il suo programma di sviluppo nucleare. E inizia il balletto dei punti di non ritorno. "Israele è convinto che a breve termine il programma nucleare iraniano raggiungerà un punto di non ritorno. «Se non si interviene, tra sei mesi l'iran sarà in grado di produrre uranio arricchito e avrà così la possibilità di fabbricare entro il 2008 la sua prima bomba atomica», ha affermato il 12 gennaio 2005 il generale Abraham Zeevi, capo dell'intelligence militare israeliana; e ha poi sottolineato che l'Iran dispone già di un missile della portata di 1300 km, lo Shihab-3, "in grado di colpire il cuore dello stato di Israele" [Le Monde diplomatique, febbraio 2005]. E il 12 aprile 2005 [NY Times] "Spargendo delle fotografie dei siti nucleari iraniani sopra il tavolo da pranzo del ranch di Bush in Texas, lunedì scorso il PM israeliano Sharon ha sollecitato il presidente Bush ad aumentare le pressioni sull'Iran perchè rinunci a tutti gli elementi del suo programma nucleare (così riferito da fonti ufficiali americane e istraeliane). Le stesse fonti hanno riferito che il signor Sharon ha detto che i servizi di intelligence israeliani hanno dimostrato che l'Iran è vicino a "un punto di non ritorno" nell'apprendere come sviluppare un'arma (nucleare). DebkaFile del 13 dicembre 2005: "Ahmadinejad’s previous calls to wipe Israel off the map and "cleanse Palestine" by relocating the Jewish state in Europe were roundly condemned by the UN Security Council and world leaders. IDF chief of staff Dan Halutz repeated: "Within three months Iran will reach the point of no-return in terms of its capability to manufacture a nuclear bomb, although it still has problems to overcome". Quanti punti di non ritorno eh? Finisce che poi qualcuno ci crede.