Nonostante la febbrile attività di chi - per provenienza o affiliazione - si fa portatore, talvolta inconsapevole, del messaggio lobbystico filo israeliano e malgrado la grande quantità di mezzi e parole impiegati dai centri di decezione professionale per influire sulla politica degli USA in Medio Oriente (e allo stesso tempo per negare l'esistenza di questa strabordante influenza), proprio dagli Stati Uniti molti cominciano infine ad esprimere l'accademico sospetto che le aggressive ingerenze esercitate sull'opinione pubblica americana non sortiscano più l'effetto voluto. Più in particolare qualcuno ha intravisto la possibilità che le assillanti iniezioni di allarmismo filo sionista (all'insegna del "repetita juvant") stiano finendo per minare, da un lato, la causa cui sono devote, dall'altro - e più importante - gli effetti positivi e duraturi di un onesto dibattito sulla questione israelo palestinese. Certo, bisognerebbe definire cosa si intende per effetti positivi e duraturi, ma diamo per certa la buona fede rinviandone la prova all'esito di questo auspicato ed allargato dibattito.
Una riflessione sul punto è proprio di questi giorni. Un gruppo pacifista tra i tanti con sede negli USA, il Comitato per una Pace Giusta in Israele e Palestina (CJPIP), trae spunto per la discussione del problema da due tra i più recenti episodi di pubblico ostracismo. Episodi che hanno coinvolto i professori John Mearsheimer e Stephen Walt (autorevoli redattori del dibattuto saggio "The Israel Lobby") da parte del Chicago Council on Global Affairs e l'Arcivescovo Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, ad opera dell'Università St. Thomas in St. Paul, Minnesota. Inutile qui richiamare i particolari del boicottaggio, che molti media hanno riportato e discusso. In breve, gli accademici e l'eminente prelato si sono visti cancellare i rispettivi interventi presso i suddetti istituti americani a cagione delle pressioni esercitate da circoli filo sionisti o, quel che è peggio, per una sorta di dichiarata autocensura operata da quelle stesse istituzioni e finalizzata, in buona sostanza, ad evitare problemi. Nulla di che stupirsi, dato che sono gli stessi problemi che affrontano moltissimi accademici, gran parte dei giornalisti, tutti i candidati alla presidenza degli Stati Uniti (v. su questo blog, Il cancro del silenzio, 27.09.2007).
In proposito il Comitato ha sottolineato come alcuni osservatori vedano nel prepotente atteggiamento dei potentati filo sionisti "tremendi rischi per gli ebrei" (sic) e - raccogliendo gli ammonimenti del Jewish Daily Forward - ha stigmatizzato il "ridursi della credibilità e del buon nome dei gruppi americani di influenza ebraica in un mondo dove le regole sono cambiate". Con ciò considerando un danno potenziale ed imminente l'allineamento acritico alle allarmistiche posizioni para-israeliane e la fideistica sovresposizione dello spettro dell'antisemitismo. Ma le preoccupazioni del Comitato non sono rivolte ai soli effetti formali delle faziose esagerazioni lobbystiche negli USA. Il gruppo enfatizza, nei fatti, la contemporanea esistenza di una vera e propria isteria americana, indotta dalle assordanti pressioni filo israeliane e - viceversa - l'eco quasi impercettibile della disperazione e della rabbia che alberga tra la gente di Palestina "impoverita, isolata, brutalizzata di fronte all'inflessibile spossessamento condotto dall'occupante israeliano". Una sferzata critica ed autocritica è poi dedicata dal Comitato ai personaggi pubblici, a quelli che fanno opinione e raggiungono in generale la gente. Scrive il CJPIP che "amministratori di università, professionisti dei media, leader religiosi, funzionari pubblici e [noi]altri, che evitiamo la scottante questione israelo palestinese per paura di nuocere, di provocare o innescare una polemica, dovremmo ricordare che la strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni. Sopprimendo la discussione pubblica e libera su un argomento che suscita grandi preoccupazioni, si conferma il pericoloso status quo di Israele e Palestina, per il quale come americani siamo largamente responsabili. Per quanto tempo prolungheremo le [loro] sofferenze e procrastineremo la pace?". A titolo di esempio il Comitato ha ricordato che mentre in Israele un recente studio psicologico condotto (dall'Università Ebraica di Gerusalemme) sui soldati dell'IDF ha rivelato i risvolti sadici e nefasti dell'occupazione per bocca degli stessi occupanti ed ha suscitato drammatiche domande nella popolazione israeliana, il rapporto non ha viceversa meritato alcuna attenzione negli USA. Le conseguenze di questo genere di vuoto o del monopolio informativo saranno micidiali. Al riguardo Juan Cole - professore di storia all'Università del Michigan - ha espresso le proprie peggiori previsioni scrivendo che "l'elite politica americana e i media che nascondono la brutalità dell'occupazione israeliana per interessi settoriali [di bottega] sono complici di quel sadismo e il loro silenzio mette in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti" ed aggiungendo, come americano, che "fino a quando non riusciremo a capire perchè il pubblico arabo - che sa perfettamente quello che l'esercito israeliano ha fatto per decenni ai palestinesi - è indignato, faremo errori politici nei nostri rapporti con il Medio Oriente".
Se quindi, lentamente, una maggiore apertura al dibattito vorrebbe affacciarsi negli USA oltre il bavaglio calato da decadi sul principe degli argomenti tabù - i rapporti con Israele - l'abitudine all'inganno e una insuperabile arroganza consentono ai consueti potentati di remare freneticamente in senso contrario, senza vergogna per le tracce lasciate sul terreno. Non è infatti necessario - per trovarle - scomodare i servizi segreti, perchè nel campo l'obliquità è nota ed è ufficiale. E' la regola. Un esempio per tutti ce lo regala il giornalista e blogger Philip Weiss (New York Observer, The Nation, The American Conservative, National Review, Washington Monthly, New York Times Magazine, Esquire, Harper's Magazine, Jewish World Review, The Huffington Post). Questo leggiamo sul suo blog personale il 28 ottobre scorso.
«Domenica scorsa sono andato alla conferenza di CAMERA [Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America] sul tema "Ebrei che diffamano Israele" e ci sono voluti un giorno o due per capire dove fosse la notizia. Era in un discorso in cui la presidentessa di CAMERA, Andrea Levin, ha dichiarato che il gruppo lobbystico pro Israele ha un "contratto non scritto" con i media americani in base al quale vengono controllati i loro passi quando scrivono su Israele [...] Il discorso di Levin verteva su Haaretz, il giornale israeliano il cui deprimente ritratto dell'occupazione ha aiutato a spiegare al mondo le orribili condizioni imposte in quella zona. Levin ha detto che quando Haaretz ha descritto in un articolo le strade separate nel West Bank come “strade dell’apartheid", i membri di CAMERA hanno scritto all'editore di Haaretz, Amos Shocken, dicendo che l’accusa era falsa. Quindi [Levin] ha letto le risposte di Shocken. In una questi diceva: "il termine 'strade per soli ebrei', che può essere matematicamente non corretto, a me va bene perchè descrive la vera natura e lo scopo delle strade". In un'altra risposta Shocken scriveva: "la vostra risposta legalista è esattamente del tipo usato per nascondere la realtà, piuttosto che per fare chiarezza. E' assolutamente ridicolo non chiamare queste strade "strade dell'apartheid" perchè la stessa presenza di ebrei nei territori occupati ha natura di apartheid". Questo è sconvolgente - ha detto la Levin - perchè Haaretz si definisce "il New York Times di Israele". Il pubblico ha mormorato e deriso. Levin ha detto: "il fatto è, come sapete, che noi possiamo essere scontenti del New York Times qualche volta e qui a CAMERA lo siamo stati, ma devo dire che siamo fortunati. I media americani sono molto, molto più preparati a capire che c'è un contratto non scritto tra loro e noi, cioè, quelle cose dovrebbero essere accurate sui fatti e noi otteniamo correzioni tutte le volte. Quelle correzioni sono a volte assai significative. Possiamo prevenire la ripetizione di gravi errori... Così c'è questo dare ed avere qui negli USA". Qualcuno tra il pubblico ha chiesto se il governo israeliano non potesse entrare in azione. "Una buona domanda", ha detto la Levin. "Molte, molte volte abbiamo sollecitato al riguardo la copertura dei media americani su articoli gravemente diffamatori, abbiamo sollecitato il governo di Israele, fosse l'esercito o altra componente istituzionale, ad occuparsene, a volte, quando pensavamo che potessero essere intraprese azioni legali". Ma evidentemente questo non può accadere in Israele, dove hanno una "stampa davvero libera". Wow! Una lobbysta [filo] israeliana scopre alcune delle sue carte! Sollecitare Israele ad intraprendere azioni legali contro le pubblicazioni americane su questioni controverse? Un contratto non scritto con i media americani per non pronunciare apartheid? Un dare e avere con il New York Times? La signorile indifferenza di Amos Shocken a questo tipo di prepotenze mi rende orgoglioso di essere ebreo. La sua è la incorruttibile autorità di un giornalista che dice quello che dice perchè ci crede, e non intende essere dirottato...».
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Per approfondire
http://www.cjpip.org/
http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?SectionID=22&ItemID=14188
http://pipistro.blogspot.com/2007/09/cancro.html
http://www.philipweiss.org/mondoweiss/2007/10/cameras-unwritt.html
http://camera.org/
mercoledì, novembre 07, 2007
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