Benny Morris, a suo tempo autoproclamatosi avanguardia dei cosiddetti nuovi storici isreliani o storici post-sionisti, ormai da tempo è dedito ad annichilire la sua precedente opera critica dei più eclatanti miti della propaganda filo-sionista. Ottimo archivista – questo tutti glielo hanno riconosciuto – ed oggi professore di storia alla Ben-Gurion University del Negev, a Be'er Sheva, Morris non trova ormai di meglio da fare che reinterpretare, in chiave ideologica e sorprendentemente faziosa, i fatti sviscerati anche nella sua opera più celebrata: "La nascita del problema dei rifugiati palestinesi, 1947-1949", pubblicata nel 1987 e – non a caso – “rivista” nel 2004. La questione non è nuova, come non sono affatto nuove le critiche a Morris per aver tratto conclusioni incoerenti dai fatti che egli stesso aveva portato alla luce (cfr. Norman Finkelstein, oltre quindici anni fa, nello studio “Myths, old and new – Debate on the 1948 exodus”, pubblicato dal Journal of Palestine Studies XXI, n. 1, Autumn 1991, pp. 66-89 e poi nel libro "Images and Reality of the Israel-Palestine Conflict"). Conclusioni viceversa presto enfatizzate – e non stupisce – da quel parziale pot-pourri che impazza col nome di MEMRI Middle East Media Research Institute, che nel caso non si faceva pregare per riproporre, con gran fanfara e col significativo titolo “Gli arabi sono responsabili. Lo storico post-sionista Benny Morris chiarisce le sue tesi”, un'intervista a Morris raccolta da Yedioth Ahronoth del 23 novembre 2001 (v. in MEMRI Special Dispatch, 9 dicembre 2001).
Le righe che seguono non costituiscono, purtroppo, un aneddoto. Il pezzullo, riportato alla luce da “The Irish Times”, sembra un condensato di pensieri senili di Morris, che, evidentemente – parole del compianto accademico Baruch Kimmerling (George S. Wise Professor di Sociologia all'Università ebraica di Gerusalemme) – “ha abbandonato il mantello di studioso per vestire l'armatura dell'ebreo sciovinista che vuole la Terra di Israele del tutto ripulita dagli arabi” (cfr. B. Kimmerling, “Benny Morris's Shocking Interview", in Logos 3.1 – Winter 2004). Un estratto dell'articolo dell'Irish Times di oggi (per abbonati) è stato gratuitamente rilanciato da PIWP - Palestine Information with Provenance e sembra riferirsi alle interviste rilasciate nel 2004 da Morris in occasione della “riedizione” del suo pensiero di nuovo-storico-pentito. Affermazioni che appaiono pura spazzatura morale di nessuna utilità se non per decifrare l'insopportabile deriva percorsa da Morris tanto nell'interpretazione e giustificazione dei fatti del passato, quanto nell'esposizione ed apologia di quelli del presente (quali la “generosa offerta” di Barak a Camp David 2000 - link).
Sui percorsi di Morris è sempre Baruch Kimmerling (op. cit. 2004) ad osservare con ironia che “non ci si può aspettare molta logica negli scatti emotivi di un archivista, quando questi cerchi di comporre un quadro coerente e generale da migliaia di dettagli”. Parimenti, ma assai meno lieve, Ilan Pappe, dopo essere stato oggetto di un attacco “ad hominem” da parte di Morris su New Republic (“Politics by Other Means”, 17 marzo 2004), sottolineava: “Diversamente da altri non ho mai pensato che le sue buone qualità come cronologo, emerse nel suo libro più famoso, 'The Birth of the Palestinian Refugee Problem' (Cambridge 1987) – non è mai stato uno storico in senso proprio – e specialmente il suo inestimabile contributo nel raccogliere, per noi, dati sulla pulizia etnica del 1948, compensino la sua intolleranza e ristrettezza mentale”.
Ma ecco, infine, il riassuntino di PIWP: «In una nota intervista con il giornalista Ari Shavit di Haaretz, Morris ha sostenuto che "dall'aprile 1948, Ben-Gurion progetta un messaggio di trasferimento. Non è un ordine scritto esplicito, non è una politica sistematica, ma un'atmosfera di trasferimento". Shavit ha commentato: "non sento [in lei] una condanna". Morris ha risposto brutalmente: "Ben-Gurion aveva ragione... Non è possibile fare una frittata senza rompere le uova... Una società che ha in animo di ucciderti, ti forza a distruggerla... Ci sono circostanze nella storia che giustificano la pulizia etnica... Uno stato ebraico non sarebbe venuto alla luce senza espellere 700.000 palestinesi. Per questo era necessario sradicarli... Nemmeno la grande democrazia americana avrebbe potuto essere creata senza annichilire gli indiani. Ci sono casi in cui il bene finale complessivo giustifica gli atti aspri e crudeli commessi nel corso della storia"».
Un amaro commento alle parole di Morris chiude l'antologia riportata da PIWP Database: con difensori come Benny Morris lo Stato di Israele non ha bisogno di nemici.
lunedì, febbraio 25, 2008
lunedì, febbraio 18, 2008
Finkelstein v. Dershowitz (continua)
Frank J. Menetrez (PhD presso l'Università di Los Angeles - California) aveva a suo tempo analizzato la diatriba accademica tra Norman Finkelstein e Alan Dershowitz, aveva pubblicato i risultati della sua analisi su Counterpunch con il titolo "Dershowitz v. Finkelstein: chi ha ragione e chi ha torto?" e suscitato più di un sospetto che il rinomato avvocato Dershowitz, cattedratico di Harvard, fosse - per così dire - uscito ben oltre le righe nel tentativo di difendere la sostanza e la confezione della sua opera "The Case for Israel". Il libro di Dershowitz era stato infatti aspramente denunciato da Finkelstein come scolasticamente povero e per di più infarcito di scopiazzature tratte da un altro prodotto ("From Time Immemorial" di Joan Peters) a suo tempo autorevolmente qualificato opera assai scadente e passato al dimenticatoio. In proposito i due accademici americani - Finkelstein e Dershowitz - non se le erano certo "mandate a dire" e avevano esposto le rispettive accuse e giustificazioni nel corso di un acceso dibattito su Democracy Now! (qui i video: parte prima e seconda).
La vicenda aveva poi avuto un seguito. Punto sul vivo, Alan Dershowitz aveva riversato tutto il proprio peso nella vicenda, cercando prima di impedire la pubblicazione del libro "Beyond Chutzpah" (letteralmente: "Oltre l'arroganza") - in cui Finkelstein esponeva nel dettaglio le proprie critiche al lavoro di Dershowitz - e chiamando poi in causa l'autorevolezza dell'Università di Harvard a propria difesa e affinché venissero negati cattedra e impiego al medesimo Finkelstein, allora assistente presso la facoltà di Scienze Politiche della cattolica Università DePaul di Chicago.
Nonostante gli interventi presso la casa editrice di "Beyond Chutzpah" e presso il Governatore della California, Arnold Schwarzenegger, l'avvocato Dershowitz non era riuscito a bloccare la pubblicazione del volume di Finkelstein, ma aveva ottenuto, di fatto, nonostante la asserita resistenza dei vertici della DePaul alle sue documentate pressioni, il diniego e il licenziamento anzitempo del professore di Chicago contro il parere del Dipartimento di scienze politiche e del college-level committee. (Come ha scritto Menetrez: «In June 2007, DePaul University denied tenure to Norman Finkelstein, an assistant professor of political science. The decision ignited a firestorm of protest from DePaul students and faculty, as well as from faculty across the country and abroad. Finkelstein’s department had voted 9-3 in favor of tenure, and a college-level committee unanimously joined that recommendation, 5-0. But the University Board on Promotion and Tenure (UBPT) voted 4-3 against tenure, and DePaul’s president claimed to “find no compelling reasons to overturn the UBPT’s decision»).
L'istituto cattolico che lo aveva accolto per sei anni, quindi, pur celebrando la sua competenza e capacità sotto ogni profilo si era liberato dello scomodo prof. Finkelstein nel giugno del 2007, mediante un accordo di cui non sono stati resi noti i particolari.
Ma torniamo a Frank J. Menetrez. Lo studioso ha pubblicato nei giorni scorsi un seguito all'analisi della vicenda che ha visto contrapposti i due accademici e ha stilato una lista di venti identici errori contenuti sia in "The Case for Israel" di Dershowitz, sia in "From Time Immemorial" di Joan Peters, a riprova della pedissequa scopiazzatura, con relativa omissione nelle citazioni della fonte diretta (secondaria). Questione a suo tempo pubblicamente denunciata da Norman Finkelstein. L'appendice di Menetrez, intitolata "The Case against Alan Dershowitz", è stata pubblicata su Counterpunch e costituirà, con parti del precedente articolo di Menetrez, l'epilogo all'edizione economica (paperback) di "Beyond Chutzpah".
L'edificante vicenda, che rispecchia la sofferenza del mondo accademico USA rispetto all'arroganza ed alle pressioni lobbystiche, ha - secondo Menetrez - un risvolto ancora più inquietante. Dershowitz ha infatti proclamato a gran voce, nel corso della diatriba, che una commissione indipendente di Harvard lo avrebbe mandato esente da colpe accademiche, omettendo tuttavia di precisare che - sempre secondo Menetrez - questa presunta commissione non ha mai investigato sul punto, basilare, degli identici errori contenuti nel suo lavoro e nel libro della Peters. Con questo atteggiamento il rinomato avvocato americano avrebbe quindi millantato l'esistenza di un autorevolissimo nulla osta di Harvard circa la bontà della sua opera, utilizzandolo a proprio discarico (rispetto all'accusa di plagio) e quale arma per influire a fondo sulla decisione dei vertici della DePaul di negare l'assegnazione della cattedra e dell'impiego a Norman Finkelstein. Di conseguenza, sotto questo profilo - precisa Menetrez - l'Università di Harvard sarebbe stata utilizzata come inconsapevole complice del disegno di Dershowitz e forse non è troppo aspettarsi oggi, quanto meno, il riconoscimento e le scuse di quella istituzione (Cfr. in "The Case against Dershowitz": «...because of Dershowitz’s repeated but apparently false claim that Harvard “completely cleared” him of Finkelstein’s charges, Harvard has been made an unwitting accomplice in Dershowitz’s wrongdoing. If my analysis is sound, then Dershowitz deliberately deceived DePaul not only about the plagiarism itself but also about the investigation that Harvard allegedly conducted [...] As of this writing, Dershowitz appears to have succeeded in protecting his own career by destroying Finkelstein’s. It is now probably too late to remedy all of the harm that Dershowitz’s conduct has caused, both to the review of Finkelstein’s tenure application and to public perceptions of Finkelstein and his work. But some sort of acknowledgement or apology by Harvard concerning Dershowitz’s wrongdoing might go some distance toward clearing the air and making amends»).
La vicenda aveva poi avuto un seguito. Punto sul vivo, Alan Dershowitz aveva riversato tutto il proprio peso nella vicenda, cercando prima di impedire la pubblicazione del libro "Beyond Chutzpah" (letteralmente: "Oltre l'arroganza") - in cui Finkelstein esponeva nel dettaglio le proprie critiche al lavoro di Dershowitz - e chiamando poi in causa l'autorevolezza dell'Università di Harvard a propria difesa e affinché venissero negati cattedra e impiego al medesimo Finkelstein, allora assistente presso la facoltà di Scienze Politiche della cattolica Università DePaul di Chicago.
Nonostante gli interventi presso la casa editrice di "Beyond Chutzpah" e presso il Governatore della California, Arnold Schwarzenegger, l'avvocato Dershowitz non era riuscito a bloccare la pubblicazione del volume di Finkelstein, ma aveva ottenuto, di fatto, nonostante la asserita resistenza dei vertici della DePaul alle sue documentate pressioni, il diniego e il licenziamento anzitempo del professore di Chicago contro il parere del Dipartimento di scienze politiche e del college-level committee. (Come ha scritto Menetrez: «In June 2007, DePaul University denied tenure to Norman Finkelstein, an assistant professor of political science. The decision ignited a firestorm of protest from DePaul students and faculty, as well as from faculty across the country and abroad. Finkelstein’s department had voted 9-3 in favor of tenure, and a college-level committee unanimously joined that recommendation, 5-0. But the University Board on Promotion and Tenure (UBPT) voted 4-3 against tenure, and DePaul’s president claimed to “find no compelling reasons to overturn the UBPT’s decision»).
L'istituto cattolico che lo aveva accolto per sei anni, quindi, pur celebrando la sua competenza e capacità sotto ogni profilo si era liberato dello scomodo prof. Finkelstein nel giugno del 2007, mediante un accordo di cui non sono stati resi noti i particolari.
Ma torniamo a Frank J. Menetrez. Lo studioso ha pubblicato nei giorni scorsi un seguito all'analisi della vicenda che ha visto contrapposti i due accademici e ha stilato una lista di venti identici errori contenuti sia in "The Case for Israel" di Dershowitz, sia in "From Time Immemorial" di Joan Peters, a riprova della pedissequa scopiazzatura, con relativa omissione nelle citazioni della fonte diretta (secondaria). Questione a suo tempo pubblicamente denunciata da Norman Finkelstein. L'appendice di Menetrez, intitolata "The Case against Alan Dershowitz", è stata pubblicata su Counterpunch e costituirà, con parti del precedente articolo di Menetrez, l'epilogo all'edizione economica (paperback) di "Beyond Chutzpah".
L'edificante vicenda, che rispecchia la sofferenza del mondo accademico USA rispetto all'arroganza ed alle pressioni lobbystiche, ha - secondo Menetrez - un risvolto ancora più inquietante. Dershowitz ha infatti proclamato a gran voce, nel corso della diatriba, che una commissione indipendente di Harvard lo avrebbe mandato esente da colpe accademiche, omettendo tuttavia di precisare che - sempre secondo Menetrez - questa presunta commissione non ha mai investigato sul punto, basilare, degli identici errori contenuti nel suo lavoro e nel libro della Peters. Con questo atteggiamento il rinomato avvocato americano avrebbe quindi millantato l'esistenza di un autorevolissimo nulla osta di Harvard circa la bontà della sua opera, utilizzandolo a proprio discarico (rispetto all'accusa di plagio) e quale arma per influire a fondo sulla decisione dei vertici della DePaul di negare l'assegnazione della cattedra e dell'impiego a Norman Finkelstein. Di conseguenza, sotto questo profilo - precisa Menetrez - l'Università di Harvard sarebbe stata utilizzata come inconsapevole complice del disegno di Dershowitz e forse non è troppo aspettarsi oggi, quanto meno, il riconoscimento e le scuse di quella istituzione (Cfr. in "The Case against Dershowitz": «...because of Dershowitz’s repeated but apparently false claim that Harvard “completely cleared” him of Finkelstein’s charges, Harvard has been made an unwitting accomplice in Dershowitz’s wrongdoing. If my analysis is sound, then Dershowitz deliberately deceived DePaul not only about the plagiarism itself but also about the investigation that Harvard allegedly conducted [...] As of this writing, Dershowitz appears to have succeeded in protecting his own career by destroying Finkelstein’s. It is now probably too late to remedy all of the harm that Dershowitz’s conduct has caused, both to the review of Finkelstein’s tenure application and to public perceptions of Finkelstein and his work. But some sort of acknowledgement or apology by Harvard concerning Dershowitz’s wrongdoing might go some distance toward clearing the air and making amends»).
domenica, febbraio 17, 2008
Promuovere i blog a Kabul
«Molto presto Afghan Penlog lancerà il primo workshop per promuovere la diffusione dei blog a Kabul. Obiettivi di questo laboratorio / seminario sono lo sviluppo culturale e una maggior presenza dei blogger come media. Questo primo workshop è indirizzato agli studenti e ai blogger di Kabul, ma è nostra intenzione lanciare analoghe iniziative in altre province e il nostro prossimo passo sarà la promozione di seminari anche a Jalalabad, Kandahar, Heart, Ghazni ed altre zone del paese. Afghan Penlog non ha avuto finora alcun aiuto economico e per questo chiede a tutti gli operatori culturali e agli amici di sostenere il progetto con un unico fine, sviluppare l'attività dei blogger in Afghanistan. I nomi dei donatori saranno pubblicati sul sito e forniremo loro tutti i dettagli del progetto e i relativi costi. Abbiamo necessità impellenti: comprare un generatore e pagare il collegamento internet. Ed anche se non abbiamo abbastanza danaro per affittare un laboratorio informatico, probabilmente saremo in grado di tenere il workshop presso il centro scolastico di Payam-e-Noor, situato a Karte-Chahar, Kabul. Ma abbiamo ancora bisogno di un po' di danaro per realizzare questo obiettivo. Prima avevamo in mente di comprare un computer e ottenere la disponibilità di una linea internet da Afghan Telecom ma non abbiamo raggiunto il nostro scopo per mancanza di donazioni e la nostra idea è sfumata. Così l'abbiamo abbandonata. Ora ci accontentiamo di lanciare questo workshop». Nasim Fekrat
Come quello che era dei Taliban e in parte lo è ancora. Come quello che era dei signori della guerra e in parte lo è ancora. Come quello dei burka, delle lapidazioni, delle invasioni, delle vedove impotenti, dei bambini per strada. Come quello delle vie del petrolio e dell'oppio. Come quello delle missioni di pace dove è stata portata la guerra. Agnello sacrificale e pretesto. Anche questo è Afghanistan.
Come quello che era dei Taliban e in parte lo è ancora. Come quello che era dei signori della guerra e in parte lo è ancora. Come quello dei burka, delle lapidazioni, delle invasioni, delle vedove impotenti, dei bambini per strada. Come quello delle vie del petrolio e dell'oppio. Come quello delle missioni di pace dove è stata portata la guerra. Agnello sacrificale e pretesto. Anche questo è Afghanistan.
martedì, febbraio 05, 2008
Gas
Il 16 marzo 1988 la città di Halabja, nell'Iraq nord occidentale, fu bombardata con proiettili contenenti gas velenoso. Secondo le analisi mediche condotte sui corpi si trattava di un gas a base di cianuro. Nel dettaglio di quella operazione di guerra, pare che uno scarno contingente di truppe irachene avesse evacuato la città di Halabja pochi giorni prima dell'attacco degli iraniani, che di seguito la occuparono, ma fu il governo di Tehran a sfruttare questa atrocità come strumento di propaganda contro gli iraqeni. La stampa e le televisioni occidentali furono invitate dagli iraniani a visitare la città di Halabja, occupata, e in quella occasione l'Iraq fu forse troppo frettolosamente accusato di gassare il proprio popolo.
Subito dopo gli attacchi la Defence Intelligence Agency americana (USDIA) svolse un' indagine e scrisse un rapporto "classificato" in cui si dimostrava che sarebbe stato gas iraniano a uccidere i curdi e non gas iracheno. Il Prof. Stephen Pelletiere, "senior political analyst" della CIA sull'Iraq e coautore del rapporto, scrisse poi sul New York Times del 31 Gennaio 2003 una sintesi dello studio su quell'episodio: «Immediatamente dopo la battaglia la Defense Intelligence Agency degli Stati uniti indagò e produsse un rapporto dettagliato, che circolò all'interno della comunità dell'intelligence classificato come 'importante da studiare'. Lo studio affermò che fu il gas iraniano ad uccidere i curdi, non quello iracheno. L'agenzia scoprì che entrambe le fazioni avevano usato il gas l'una contro l'altra nella battaglia attorno ad Halabja. Le condizioni dei corpi dei curdi morti, comunque, indicavano che erano stati uccisi con un coagulante del sangue – basato sul cianuro – noto per essere usato dagli iraniani. Non si è mai avuta notizia che gli iracheni, i quali si ritiene usassero l'iprite nella battaglia, fossero all'epoca dotati di coagulante del sangue». Un altro rapporto preparato dallo Strategic Studies Institute dell'Army War College statunitense rivelò che «la maggior parte delle vittime viste dai giornalisti e dagli altri osservatori che visitarono il luogo erano blu alle estremità dei loro arti. Questo significa che esse sono state uccise da una agente del sangue, probabilmente il cloruro cianogeno o il cianuro d'idrogeno (hydrogen cyanide)». Questi ultimi hanno odore di mandorle amare e sono letali anche in percentuali minime (An HCN concentration of 300 mg/m3 in air will kill a human within a few minutes. The toxicity is caused by the cyanide ion, which prevents cellular respiration). Incidentalmente, l'idrogeno cianuro (in grani confezionati sotto il nome di Zyklon B) fu utilizzato dal regime nazista - fonti, tra gli altri, il comandante di Auschwitz, Rudolf Hoess, e Adolf Eichmann - nelle procedure di disinfezione e nelle camere a gas. Non a caso il possibile uso di cianuro d'idrogeno da parte iraqena venne enfatizzato da Geffrey Goldberg (sul New Yorker del 25 marzo 2002), che tra i molti gridò al genocidio, sottolineando ipotetiche affinità tra i sistemi di Saddam Hussein e quelli nazisti. Viceversa l'iprite (o gas mostarda) è un vescicante dal forte odore di aglio o senape, il suo effetto è sicuramente invalidante, ma gli esiti letali sono limitati al 2% dei casi. Sia quel che sia (cioè, propaganda a parte), il rapporto Army War College precisava, invece, che l'Iraq non aveva mai usato sostanze chimiche quali i gas di cianuro e inoltre mancava della capacità di produrle. Mentre gli iraniani le avevano. Quindi si concludeva che erano stati gli iraniani a uccidere i Curdi.
La questione è rimasta (per anni) ed è tuttora oggetto di dibattito, ma c'è da osservare che gli intensi rapporti tra il mondo occidentale e l'Iraq di Saddam Hussein non vennero meno a tutto il 1990, e si "sorvolò" quindi sulla atroce operazione condotta sui Curdi, anchè perchè il fatto era parte della guerra intrapresa da Saddam, con il favore occidentale, contro l'Iran di Khomeini (1980-1988). Ma i tempi erano maturi per una nuova sortita in Medio Oriente. Motivo: acqua, petrolio, controllo nella regione? Qui non ha molta importanza. Ottenuta una sorta di beneplacito all'invasione del Kuwait tramite l'ambasciatore USA April Glaspie, Saddam si rese alla fine conto del voltafaccia americano. E laddove la sua aggressione non avrebbe innescato un movimento di opinione radicalmente sfavorevole all'Iraq, fece il suo ingresso la propaganda con fasulle descrizioni delle atrocità commesse dall'esercito iraqeno - per il vero non certo morbido - in Kuwait, ma anche utilizzando l'oscura pagina di Halabja e soprassedendo ai dubbi (documentati nei relativi rapporti) sulla responsabilità per quei fatti. Gli stessi fatti sono stati poi utilizzati come terza chance, sotto il profilo umanitario, per l'aggressione all'Iraq di Saddam Hussein nel 2003.
Naturalmente pochi conoscono la "verità", ma oggi le accuse per i fatti di Halabja farebbero senz'altro comodo ai warmonger USA più come strumento di propaganda contro l'Iran di Ahmadinejad, che contro Saddam Hussein, già "sistemato" per quella e per altre vie. Sotto questo aspetto l'intervista a George Piro (v. sotto in "Postumi") non consentirebbe ai dirigenti neocon USA - per ora - di ribaltare le carte. Ma siccome l'improntitudine non ha limiti, non è detto che non lo si faccia in un prossimo futuro. In proposito sembra infatti che la lapidaria risposta di Saddam Hussein, proprio sul punto degli attacchi chimici ai Curdi (le cui conseguenze sono definite in quell'intervista genericamente e semplicemente "necessary"), possa lasciare spazio alla riesumazione strumentale di una pagina ambigua e terribile della guerra tra Iran e Iraq.
Subito dopo gli attacchi la Defence Intelligence Agency americana (USDIA) svolse un' indagine e scrisse un rapporto "classificato" in cui si dimostrava che sarebbe stato gas iraniano a uccidere i curdi e non gas iracheno. Il Prof. Stephen Pelletiere, "senior political analyst" della CIA sull'Iraq e coautore del rapporto, scrisse poi sul New York Times del 31 Gennaio 2003 una sintesi dello studio su quell'episodio: «Immediatamente dopo la battaglia la Defense Intelligence Agency degli Stati uniti indagò e produsse un rapporto dettagliato, che circolò all'interno della comunità dell'intelligence classificato come 'importante da studiare'. Lo studio affermò che fu il gas iraniano ad uccidere i curdi, non quello iracheno. L'agenzia scoprì che entrambe le fazioni avevano usato il gas l'una contro l'altra nella battaglia attorno ad Halabja. Le condizioni dei corpi dei curdi morti, comunque, indicavano che erano stati uccisi con un coagulante del sangue – basato sul cianuro – noto per essere usato dagli iraniani. Non si è mai avuta notizia che gli iracheni, i quali si ritiene usassero l'iprite nella battaglia, fossero all'epoca dotati di coagulante del sangue». Un altro rapporto preparato dallo Strategic Studies Institute dell'Army War College statunitense rivelò che «la maggior parte delle vittime viste dai giornalisti e dagli altri osservatori che visitarono il luogo erano blu alle estremità dei loro arti. Questo significa che esse sono state uccise da una agente del sangue, probabilmente il cloruro cianogeno o il cianuro d'idrogeno (hydrogen cyanide)». Questi ultimi hanno odore di mandorle amare e sono letali anche in percentuali minime (An HCN concentration of 300 mg/m3 in air will kill a human within a few minutes. The toxicity is caused by the cyanide ion, which prevents cellular respiration). Incidentalmente, l'idrogeno cianuro (in grani confezionati sotto il nome di Zyklon B) fu utilizzato dal regime nazista - fonti, tra gli altri, il comandante di Auschwitz, Rudolf Hoess, e Adolf Eichmann - nelle procedure di disinfezione e nelle camere a gas. Non a caso il possibile uso di cianuro d'idrogeno da parte iraqena venne enfatizzato da Geffrey Goldberg (sul New Yorker del 25 marzo 2002), che tra i molti gridò al genocidio, sottolineando ipotetiche affinità tra i sistemi di Saddam Hussein e quelli nazisti. Viceversa l'iprite (o gas mostarda) è un vescicante dal forte odore di aglio o senape, il suo effetto è sicuramente invalidante, ma gli esiti letali sono limitati al 2% dei casi. Sia quel che sia (cioè, propaganda a parte), il rapporto Army War College precisava, invece, che l'Iraq non aveva mai usato sostanze chimiche quali i gas di cianuro e inoltre mancava della capacità di produrle. Mentre gli iraniani le avevano. Quindi si concludeva che erano stati gli iraniani a uccidere i Curdi.
La questione è rimasta (per anni) ed è tuttora oggetto di dibattito, ma c'è da osservare che gli intensi rapporti tra il mondo occidentale e l'Iraq di Saddam Hussein non vennero meno a tutto il 1990, e si "sorvolò" quindi sulla atroce operazione condotta sui Curdi, anchè perchè il fatto era parte della guerra intrapresa da Saddam, con il favore occidentale, contro l'Iran di Khomeini (1980-1988). Ma i tempi erano maturi per una nuova sortita in Medio Oriente. Motivo: acqua, petrolio, controllo nella regione? Qui non ha molta importanza. Ottenuta una sorta di beneplacito all'invasione del Kuwait tramite l'ambasciatore USA April Glaspie, Saddam si rese alla fine conto del voltafaccia americano. E laddove la sua aggressione non avrebbe innescato un movimento di opinione radicalmente sfavorevole all'Iraq, fece il suo ingresso la propaganda con fasulle descrizioni delle atrocità commesse dall'esercito iraqeno - per il vero non certo morbido - in Kuwait, ma anche utilizzando l'oscura pagina di Halabja e soprassedendo ai dubbi (documentati nei relativi rapporti) sulla responsabilità per quei fatti. Gli stessi fatti sono stati poi utilizzati come terza chance, sotto il profilo umanitario, per l'aggressione all'Iraq di Saddam Hussein nel 2003.
Naturalmente pochi conoscono la "verità", ma oggi le accuse per i fatti di Halabja farebbero senz'altro comodo ai warmonger USA più come strumento di propaganda contro l'Iran di Ahmadinejad, che contro Saddam Hussein, già "sistemato" per quella e per altre vie. Sotto questo aspetto l'intervista a George Piro (v. sotto in "Postumi") non consentirebbe ai dirigenti neocon USA - per ora - di ribaltare le carte. Ma siccome l'improntitudine non ha limiti, non è detto che non lo si faccia in un prossimo futuro. In proposito sembra infatti che la lapidaria risposta di Saddam Hussein, proprio sul punto degli attacchi chimici ai Curdi (le cui conseguenze sono definite in quell'intervista genericamente e semplicemente "necessary"), possa lasciare spazio alla riesumazione strumentale di una pagina ambigua e terribile della guerra tra Iran e Iraq.
lunedì, febbraio 04, 2008
domenica, febbraio 03, 2008
Postumi
In stile tutto USA, ci perviene di terza mano dalla CBS un'intervista postuma a Saddam Hussein. E' una riedizione - si ritiene, condensata - diffusa da CBS News sulle domande poste da Scott Pelley ad un oscuro agente di origine libanese dell'FBI, quattro gocce del "bello della diretta" su fatti in qualche modo comunque assodati, ma aggiustati, ove possibile, in un'ottica autoassolutoria. In ispecie nell'intervista si ribadisce che all'atto dell'invasione iraqena, fortemente voluta da George W. Bush (e prima di lui da Dick Cheney) e prospettata sin dalle primissime ore successive all'attacco sul World Trade Center, l'Iraq non possedeva armi di distruzione di massa e non c'era alcun legame tra Saddam Hussein e la sopravvalutata organizzazione di Osama Bin Laden. Il preambolo è significativo, George Piro millanta con Saddam di essere un filo diretto tra lui e il presidente Bush ed espone i trucchi (almeno, riteniamo, quelli riferibili) impiegati per entrare in confidenza con il presidente iraqeno. Ci traduce poi mesi e mesi di vicinanza con il prigioniero ed espone in poche righe i fatti che avrebbe appreso circonvenendo Saddam. Essenzialmente due: il pericolo rappresentato dalle WMD (Weapons of Mass Destruction) iraqene era solo apparentemente inesistente. Le armi non c'erano ma il perfido Saddam avrebbe consentito si potesse ancora intuire ci fossero, con ciò in qualche modo giustificando la percezione degli USA. Nulla, invece, su Osama: Saddam lo considerava un inaffidabile fanatico. Gli è che la prima questione non è adeguata all'atteggiamento di Saddam Hussein e degli ispettori dell'ONU, che avevano escluso quella possibilità (esistenza attuale di armi di distruzione di massa iraqene), la seconda è pacifica. La secolarizzazione iraqena - tramite la sua dirigenza e il regime di Saddam - non era e non è mai stata compatibile con l'atteggiamento vantato da quel che si è voluta dipingere sin dai primi momenti successivi all'11 settembre, come operazione della banda al-Qaeda. Di nuovo apprendiamo, invece, che le poesie di Saddam Hussein erano considerate assai brutte dall'agente dell'FBI George Piro e che sono stati necessari mesi di manipolazione del prigioniero per poter tradurre, a beneficio delle operazioni USA, una pretesa (ma tutta da provare) ambiguità sull'esistenza delle armi di distruzione di massa in un presunto nulla osta all'invasione. Non si può pensare che serva, infine, a giustificare l'aggressione e l'attuale disastro iraqeno, la nota conclusiva per cui - sempre secondo il filtro dell'agente George Piro - Saddam Hussein avrebbe forse avuto intenzione, "se ne avesse avuto l'opportunità", di dotarsi in futuro di queste armi.
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