venerdì, luglio 18, 2008

Una dedica

Quella che segue a suo modo è una dedica. Nasce come commento a un post sulla Torre di Babele - Rai che ricorda una donna coraggiosa, Nadia Anjuman, 25 anni, poetessa e moglie afghana, uccisa di botte dal marito. Nessuna notizia o novità, purtroppo, nulla di stupefacente. Riporto il commento com'era, salvo qualche piccola modifica e correzione, precisando ancora una volta che saltarne a pie' pari la lettura non renderà alcuno più povero, ma neanche più ricco. (Fotogramma tratto da Nemici della Felicità)

Mi risulta difficile piangere di una situazione, di una persona, di un’ingiustizia, di un crimine, senza che da queste cose si possa trarre un programma, una denuncia, il germe di un’idea, una parola perchè le cose non restino perennemente uguali a se stesse. Perchè la vita e la dignità delle persone non debbano scontrarsi in eterno con un muro di primitiva intransigenza.
Il sistema anacronistico e criminale impostato in Afghanistan a tutto il 2001 con il beneplacito e l’aiuto di troppi e poi parzialmente e malamente scalzato con il pretesto delle torri gemelle, non ha sofferto in nulla del cambiamento. L’ipocrita guerra dei mondi perpetrata da USA & Clienti è arrivata alle grotte in cui si è detto nascondersi il male personificato da un comodo capro (Osama) non più utile.
Viceversa quello che era il modus vivendi della parte più debole della popolazione afghana, cioè tutta la parte femminile e molta di quella maschile, vessata dai prìncipi locali, warlords, signori dell’oppio e loro manovalanza, non è stato intaccato.
Nel maggio scorso, parlando della posizione di Malalai Joya (”rising star” del panorama politico locale, minacciata e cacciata dal parlamento afghano), annotavo che Brad Adams, direttore per l’Asia di Human Rights Watch, aveva rammentato all’occidente che in giugno l’Afghanistan avrebbe “chiesto donazioni per miliardi di dollari in assistenza, presentandosi come democrazia emergente”. Se, allora, con la violenza delle armi si era intrapresa una campagna di conquista, con la potenza della diplomazia e del denaro forse sarebbe stato possibile sperare anche in una inversione di tendenza sotto il profilo dei diritti umani.
E invece questo non è accaduto e non accadrà. Fatalmente. I cambiamenti non sono promossi dalle armi, dalla diplomazia, dal petrolio o dal denaro che, in ogni caso, resta per lo più nelle stesse mani. Più facilmente sono promossi dal tempo, dagli scambi, dalla comunicazione e dalla cultura, unici elementi che con fatica riescono ad estirpare i rami secchi di tradizioni (e religioni) asservite al mantenimento, con la forza e la prevaricazione, di un potere e di una stabilità precipuamente - occorre dirlo - maschili. Salvo - ogni tanto - l’avvento di una rivoluzione. Ma si è detto bene ricordando l’esistenza attuale di “un “coso” chiamato computer che ti mette in comunicazione con tutto il mondo e ti fa dire la tua”. Un “coso chè a suo modo è l’inizio di una rivoluzione incruenta.
Ma - tornando al caso specifico, quello afghano - qualcuno avrà mai fatto veramente “pesare” al presidente Karzai, rappresentante della longa manus parassitaria della ricostruzione americana, che la dichiarata ‘emergenza democratica’ nella regione non arriva neppure ai confini di Kabul? Che la posizione della donna afghana è tuttora ancorata a pulsioni maschili di tipo talebano? Che una vedova povera è una donna a perdere? Che i suoi figli muoiono con lei per la strada per fame e freddo?
Oppressa e compressa dalla religione del potere e dal potere della religione, la donna afghana è la prova vivente del fatto che l’esportazione occidentale di democrazia - cosa ben diversa da una rivoluzione spontanea - riguarda i lucrosi contratti da distribuire secondo la consueta logica clientelare, riguarda le vie del petrolio e del gas, riguarda precarie alleanze economiche e strategiche confezionate secondo i più fantasiosi disegni di egemonia e di conquista spesso dichiaratamente funzionali al mantenimento di uno standard occidentale palesemente iniquo (”abbiamo bisogno di energia e di guerra per mantenere il nostro sistema di vita”).
Tutte cose che naturalmente con la democrazia - anche con quella che si pretende debba passare attraverso un benessere di tipo occidentale - e con i fasulli presupposti agitati per giustificare l’invasione di una terra altrui, non c’entrano assolutamente nulla.
Ma, come ho detto all'inizio, tutto ciò non è nulla di nuovo. Stupefacente è solo il fatto che qualcuno creda veramente che sia la carenza di diritti umani a condurci laggiù, ad "esportare democrazia". Sbalorditivo è poi che sia dia credito a chi, in perfetta malafede, dai palazzi del potere finge anche di crederci e si avvale della credulità popolare per assecondare i propri sogni malati.

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