Nel 1988 l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina organizzò un viaggio per mare, partenza da Cipro, destinazione il porto israeliano di Haifa. L'imbarcazione pronta per il viaggio, denominata Sol Phryne, fu danneggiata da una bomba nel porto cipriota di Limassol prima della partenza. Un giorno prima tre ufficiali dell'OLP erano stati uccisi, sempre a Limassol, con una bomba installata nella loro auto. Sono passati più di vent'anni. Tra il 6 e il 7 agosto prossimi, due imbarcazioni di legno (la Free Gaza, di ventuno metri e la Liberty, di diciotto, entrambe battenti bandiera greca) partiranno da Cipro per approdare a Gaza. La spedizione è stata ideata da tempo ed organizzata dal Movimento Free Gaza. Tra gli organizzatori Paul Larudee di El Cerrito (California) e Greta Berlin. Quest'ultima spiegava, lo scorso agosto, che il progetto, già sul punto di essere messo in pratica, veniva posticipato per tre ordini di motivi: "primo, semplicemente non abbiano i soldi per comprare le imbarcazioni di cui abbiamo bisogno; secondo, molti dei problemi logistici come la registrazione delle navi, l'assicurazione per il viaggio e il reperimento di un comandante impegnato nel progetto e di una ciurma hanno richiesto più tempo del previsto; infine, abbiamo deciso di coordinare l'operazione con il 60° anniversario della Nakba". Oggi, raccolti secondo gli organizzatori circa 300.000 dollari ed armate le due imbarcazioni, la spedizione è sul punto di prendere il mare dal porto cipriota di Larnaca alla volta di Gaza, mettendo nuovamente in fibrillazione, dopo vent'anni, la dirigenza e i media israeliani. Secondo il movimento Free Gaza parteciperanno alla spedizione una quarantina di persone, tra cui tre parlamentari europei, giornalisti, attivisti, sopravvissuti dell'olocausto e della nakba palestinese. "Israele sostiene di aver ritirato i propri soldati" dice Larudee, "e allora non avranno obiezioni sul fatto che noi si vada là". E aggiunge: "Siamo in contatto con le autorità di Grecia, Cipro e con i palestinesi, non c'è ragione per contattare le autorità israeliane perchè non utilizzeremo il loro territorio". Si tratterà quindi - come veniva riferito un anno fa - di approdare a Gaza aprendola simbolicamente al libero accesso internazionale, affermando cioè la sovranità palestinese sulla Striscia e sul suo mare e dimostrando allo stesso tempo, quand'anche ve ne fosse bisogno, che Israele tiene mantiene ancora Gaza sotto occupazione e peggio: un carcere a cielo aperto. All'evento viene già dato ampio risalto e non resta che aspettare la prima settimana di agosto per capire se da Israele intendano seguire una strategia di basso profilo lasciando che le navi raggiungano Gaza per evitare gli scontri che forse la spedizione vorrebbe suscitare (Haaretz), o adottare una linea rigida, illegale e - quel che più rileva - sempre meno accettabile da una comunità internazionale che in parte non accetta strumentalizzazioni e in parte va sgravandosi di sensi di colpa.
Una cosa è certa, non sarà facile, oggi, per le autorità dello stato ebraico, rinnovare l'operazione portata contro un'altra nave e i tre dirigenti dell'OLP nel 1988. In proposito non è inutile ricordare la sorte di quella spedizione abortita. L'operazione di sabotaggio riguardò la nave Sol Phryne, costruita in Giappone quarantuno anni prima, sequestrata a Cipro per debiti e pressochè in disarmo e tre dirigenti palestinesi di Fatah che asseritamente la stavano comprando per 600.000 dollari per indirizzarla ad Haifa. A bordo vi sarebbero saliti 135 palestinesi deportati da Israele, giornalisti e attivisti partiti appositamente dall'aeroporto di Atene e qualche autorità europea. La nave fu sabotata il 15 febbraio 1988. Meno di ventiquattro ore prima i tre ufficiali dell'OLP che si stavano forse occupando dell'acquisto dell'imbarcazione, erano stati massacrati facendo esplodere una bomba comandata a distanza e posta sotto il posto di guida della Volkswagen del Colonnello Marwan Ibrahim Kayyali. Secondo le autorità cipriote la nave era stata acquistata da una sconosciuta compagnia, la Karpathos Shipping, per un prezzo (appunto, 600.000 dollari) considerevolmente più alto di quanto si sarebbe potuto ricavare ad un'asta. L'OLP dichiarò successivamente che avrebbe noleggiato e non acquistato l'imbarcazione e negò che i suoi tre ufficiali fossero stati incaricati di acquistare il vascello. Prima di quel giorno la Sol Phryne, ancorata a Limassol, aveva percorso le isole della Grecia dal 67 al 74, era poi stata utilizzata per trasportare pellegrini ad Haifa e nel 1982 per evacuare milizie palestinesi da Beirut a Tunisi dopo l'invasione israeliana. Il capitano della nave, Cleanthos Vlahopoulos, dichiarò di non conoscere l'identità dei nuovi proprietari del Sol Phryne e di non essere a conoscenza del viaggio imminente. Di fatto alle 5.30 del mattino del 15 febbraio 1988, 18 ore dopo l'esplosione dell'automobile dei tre dirigenti di Fatah, il comandante Vlahopoulos e i 52 membri dell'equipaggio vennero svegliati da un'altra esplosione. Una mina magnetica sottomarina applicata sotto la linea di galleggiamento aprì una falla nel vascello ponendo nel nulla il viaggio e il progettato approdo palestinese - da molti definito teatrale - ad Haifa. Il viaggio era stato chiamato el-awda, il ritorno. Vi fu più di una rivendicazione, ma il Mossad fu ampiamente ed autorevolmente sospettato (Time) dì avere condotto l'intera operazione. Nei fatti prima che l'esplosione venisse resa nota il ministro della difesa israeliano, Yitzhak Rabin, aveva dichiarato in pubblico che Israele si sarebbe opposto al viaggio "in qualsiasi modo possibile" (New York Times).
mercoledì, luglio 30, 2008
lunedì, luglio 28, 2008
Iraq memo
Il 7 marzo 2003, poco prima dell'invasione dell'Iraq da parte della coalizione capeggiata dagli USA, l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (IAEA) emetteva un esaustivo aggiornamento sullo stato delle ispezioni in quel paese. Ma anche quel documento, ufficiale, che conteneva la prova definitiva delle falsità utilizzate per scatenare una guerra d'aggressione, rimaneva lettera morta, come inutile era stata l'infinità di indizi lasciata per strada dalla banda del Nuovo Secolo Americano. La banda che ha tenuto e tiene gli ultimi fili di George W. Bush, degradato solo di recente da anatra utile ad anatra zoppa e in rapida discesa - perché gli va bene - verso la pattumiera della storia. La stessa accolita che si rivolge con rinnovata alacrità (ma con qualche comprensibile difficoltà) agli elettori e ai candidati ad una presidenza che difficilmente potrà far di peggio di quella che va a morire.
Indizi innumerevoli dicevamo. Uno per tutti: gli aerei dirottati dell'11 settembre volavano ancora per i cieli degli Stati Uniti quando Donald Rumsfeld prendeva appunti per utilizzare quanto stava accadendo quale pretesto per scatenare la campagna d'Iraq. Poi qualcuno evidentemente gli disse che veniva prima l'Afghanistan e che il pretesto (già corredato di nomi, cognomi e indirizzi dei responsabili) era già bell'e pronto. Delle responsabilità italiane - sì, italianissime - in merito alla fabbricazione della bufala dell'uranio del Niger, di quanto costruì negli USA la junta "zio-con" in proposito e della riedizione del tentativo in chiave iraniana parleremo un'altra volta. Ma nessuno dimentica niente.
A bomba (ohibò, è proprio il caso di dirlo). Menzogne, connivenze e propaganda che a Norimberga indirizzarono infine e giustamente al patibolo chi si era reso responsabile anche indirettamente della follia nazista, si sono quindi ripresentate nel terzo millennio in una rielaborazione formalmente edulcorata - più elegante ma non per questo meno pericolosa - di guerrafondaio e criminale avventurismo.
Questa deriva da centinaia e centinaia di migliaia di morti, al cui riguardo occorre evidenziare che le minacce di aggressione militare sono equiparate all'intervento militare stesso dalla svalutata e tradita Carta delle Nazioni Unite - articolo 2, comma 4 - richiamata sul punto, per quanto di ragione, nel preambolo al Trattato di non proliferazione nucleare, non dimostra ancora - nonostante qualche sparuta indicazione (percepita addirittura come una "minaccia di pace" da John Bolton e gente della sua risma) - una concreta inversione di tendenza.
Ricordiamolo, allora, questo principio, che non fa male a noi e tantomeno alle smemorate elite di questo paese: "...in conformità alla Carta delle Nazioni Unite, gli Stati devono astenersi,nelle loro relazioni internazionali, dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza, sia volgendola contro l’integrità territoriale o contro l’indipendenza politica di ognuno, sia in ogni altra forma incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite".
Torniamo allora un attimo a Norimberga per concludere con le inascoltate parole dell'Agenzia Atomica. Senza infatti mai dimenticare che (allora come oggi, mutatis mutandis) il criminale percorso del Reich si era avvalso indubbiamente di protagonisti e manodopera germanici, ma anche di volenterosi ed interessati collaboratori di mezza Europa, riportiamo quindi di seguito alcuni stralci del grido disperato e inascoltato dell'Agenzia IAEA che inequivocabilmente anticipava al mondo, nero su bianco e nei fatti, che la guerra di conquista mossa al popolo iraqeno - perché di questo si è trattato e si tratta - era voluta al di fuori di qualsiasi giustificazione ed anzi avvalendosi di indicazioni (chiamarle prove sarebbe troppo) all'uopo fabbricate con la collaborazione della schiuma politica e di intelligence di un'Europa imbelle. Tanto imbelle - per non dire in malafede o peggio - quanto aveva già dimostrato di essere nel secondo ventennio del secolo scorso. Non è niente di nuovo, dunque, quello che segue. E' appunto un semplice memorandum, ma sembra - anche alla luce dei proclami degli italici conquistadores - che richiamare alcuni fatti noti e arcinoti non possa far male.
"L'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica ha fatto progressi nelle sue investigazioni sui rapporti per cui l'Iraq avrebbe cercato di comprare uranio dalla Nigeria negli anni recenti. L'investigazione si è concentrata in particolare sui documenti forniti da alcuni Stati, che hanno riferito di un accordo tra la Nigeria e l'Iraq per la compravendita di uranio tra il 1999 e il 2001. L'Agenzia ha discusso questi rapporti con i Governi dell'Iraq e del Niger, entrambi i quali hanno negato che alcuna attività di questo genere abbia avuto luogo. Da parte sua l'Iraq ha fornito all'Agenzia una esaustiva spiegazione delle sue relazioni con la Nigeria ed ha descritto una visita del febbraio 1999, dell'autorità iraqena ad alcuni paesi africani, inclusa la Nigeria, che l'Iraq ha pensato potesse aver dato luogo a quei rapporti. L'Agenzia è stata pure in grado di esaminare la corrispondenza proveniente da vari organi del governo nigeriano e di confrontare la forma, il formato, i contenuti e le firme in quella corrispondenza con quelli dei documenti relativi alla asserita compravendita. Basandosi su una analisi completa, la IAEA ha concluso, con l'accordo di esperti indipendenti, che quei documenti - che avevano formato la base dei rapporti sulle recenti forniture di uranio dalla Nigeria all'Iraq - di fatto non sono autentici. Abbiamo quindi concluso che quelle specifiche allegazioni sono infondate. In ogni caso continueremo ad investigare ogni ulteriore elemento, se emergerà, in relazione a sforzi dell'Iraq di importare illecitamente materiale nucleare".
Il rapporto - denso di dati su tutti gli aspetti "incriminati" della situazione iraqena - concludeva lapidariamente che: "Allo stato può essere dichiarato che: - non ci sono indicazioni della ripresa di attività nucleare in quei fabbricati identificati attraverso l'uso di immagini satellitari, come ricostruiti o nuovamente edificati dal 1998, né alcuna indicazione di attività proibite relativamente al nucleare in alcuno dei siti ispezionati; - non ci sono indicazioni che l'Iraq abbia tentato di importare uranio dal 1990; - non ci sono indicazioni che l'Iraq abbia tentato di importare tubi di alluminio da usare in centrifughe per l'arricchimento. Inoltre, quand'anche l'Iraq avesse perseguito questo piano, avrebbe incontrato difficoltà pratiche nella manifattura delle centrifughe derivate dai tubi di alluminio in questione; - benchè [l'Agenzia] stia ancora studiando le questioni relative ai magneti e alla produzione di magneti, non ci sono indicazioni aggiornate che l'Iraq abbia importato magneti da usare per le centrifughe in un programma di arricchimento".
Meno di un mese dopo era guerra.
Indizi innumerevoli dicevamo. Uno per tutti: gli aerei dirottati dell'11 settembre volavano ancora per i cieli degli Stati Uniti quando Donald Rumsfeld prendeva appunti per utilizzare quanto stava accadendo quale pretesto per scatenare la campagna d'Iraq. Poi qualcuno evidentemente gli disse che veniva prima l'Afghanistan e che il pretesto (già corredato di nomi, cognomi e indirizzi dei responsabili) era già bell'e pronto. Delle responsabilità italiane - sì, italianissime - in merito alla fabbricazione della bufala dell'uranio del Niger, di quanto costruì negli USA la junta "zio-con" in proposito e della riedizione del tentativo in chiave iraniana parleremo un'altra volta. Ma nessuno dimentica niente.
A bomba (ohibò, è proprio il caso di dirlo). Menzogne, connivenze e propaganda che a Norimberga indirizzarono infine e giustamente al patibolo chi si era reso responsabile anche indirettamente della follia nazista, si sono quindi ripresentate nel terzo millennio in una rielaborazione formalmente edulcorata - più elegante ma non per questo meno pericolosa - di guerrafondaio e criminale avventurismo.
Questa deriva da centinaia e centinaia di migliaia di morti, al cui riguardo occorre evidenziare che le minacce di aggressione militare sono equiparate all'intervento militare stesso dalla svalutata e tradita Carta delle Nazioni Unite - articolo 2, comma 4 - richiamata sul punto, per quanto di ragione, nel preambolo al Trattato di non proliferazione nucleare, non dimostra ancora - nonostante qualche sparuta indicazione (percepita addirittura come una "minaccia di pace" da John Bolton e gente della sua risma) - una concreta inversione di tendenza.
Ricordiamolo, allora, questo principio, che non fa male a noi e tantomeno alle smemorate elite di questo paese: "...in conformità alla Carta delle Nazioni Unite, gli Stati devono astenersi,nelle loro relazioni internazionali, dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza, sia volgendola contro l’integrità territoriale o contro l’indipendenza politica di ognuno, sia in ogni altra forma incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite".
Torniamo allora un attimo a Norimberga per concludere con le inascoltate parole dell'Agenzia Atomica. Senza infatti mai dimenticare che (allora come oggi, mutatis mutandis) il criminale percorso del Reich si era avvalso indubbiamente di protagonisti e manodopera germanici, ma anche di volenterosi ed interessati collaboratori di mezza Europa, riportiamo quindi di seguito alcuni stralci del grido disperato e inascoltato dell'Agenzia IAEA che inequivocabilmente anticipava al mondo, nero su bianco e nei fatti, che la guerra di conquista mossa al popolo iraqeno - perché di questo si è trattato e si tratta - era voluta al di fuori di qualsiasi giustificazione ed anzi avvalendosi di indicazioni (chiamarle prove sarebbe troppo) all'uopo fabbricate con la collaborazione della schiuma politica e di intelligence di un'Europa imbelle. Tanto imbelle - per non dire in malafede o peggio - quanto aveva già dimostrato di essere nel secondo ventennio del secolo scorso. Non è niente di nuovo, dunque, quello che segue. E' appunto un semplice memorandum, ma sembra - anche alla luce dei proclami degli italici conquistadores - che richiamare alcuni fatti noti e arcinoti non possa far male.
"L'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica ha fatto progressi nelle sue investigazioni sui rapporti per cui l'Iraq avrebbe cercato di comprare uranio dalla Nigeria negli anni recenti. L'investigazione si è concentrata in particolare sui documenti forniti da alcuni Stati, che hanno riferito di un accordo tra la Nigeria e l'Iraq per la compravendita di uranio tra il 1999 e il 2001. L'Agenzia ha discusso questi rapporti con i Governi dell'Iraq e del Niger, entrambi i quali hanno negato che alcuna attività di questo genere abbia avuto luogo. Da parte sua l'Iraq ha fornito all'Agenzia una esaustiva spiegazione delle sue relazioni con la Nigeria ed ha descritto una visita del febbraio 1999, dell'autorità iraqena ad alcuni paesi africani, inclusa la Nigeria, che l'Iraq ha pensato potesse aver dato luogo a quei rapporti. L'Agenzia è stata pure in grado di esaminare la corrispondenza proveniente da vari organi del governo nigeriano e di confrontare la forma, il formato, i contenuti e le firme in quella corrispondenza con quelli dei documenti relativi alla asserita compravendita. Basandosi su una analisi completa, la IAEA ha concluso, con l'accordo di esperti indipendenti, che quei documenti - che avevano formato la base dei rapporti sulle recenti forniture di uranio dalla Nigeria all'Iraq - di fatto non sono autentici. Abbiamo quindi concluso che quelle specifiche allegazioni sono infondate. In ogni caso continueremo ad investigare ogni ulteriore elemento, se emergerà, in relazione a sforzi dell'Iraq di importare illecitamente materiale nucleare".
Il rapporto - denso di dati su tutti gli aspetti "incriminati" della situazione iraqena - concludeva lapidariamente che: "Allo stato può essere dichiarato che: - non ci sono indicazioni della ripresa di attività nucleare in quei fabbricati identificati attraverso l'uso di immagini satellitari, come ricostruiti o nuovamente edificati dal 1998, né alcuna indicazione di attività proibite relativamente al nucleare in alcuno dei siti ispezionati; - non ci sono indicazioni che l'Iraq abbia tentato di importare uranio dal 1990; - non ci sono indicazioni che l'Iraq abbia tentato di importare tubi di alluminio da usare in centrifughe per l'arricchimento. Inoltre, quand'anche l'Iraq avesse perseguito questo piano, avrebbe incontrato difficoltà pratiche nella manifattura delle centrifughe derivate dai tubi di alluminio in questione; - benchè [l'Agenzia] stia ancora studiando le questioni relative ai magneti e alla produzione di magneti, non ci sono indicazioni aggiornate che l'Iraq abbia importato magneti da usare per le centrifughe in un programma di arricchimento".
Meno di un mese dopo era guerra.
giovedì, luglio 24, 2008
Benny Morris sulla crisi iraniana (la malattia del pensiero)
"Il male di solito nasconde la faccia perchè la sua vista è repellente per tutti, tranne che per i depravati. Nondimeno, nel caso di Benny Morris - che scrive venerdì (18 luglio) sul New York Times - vediamo qualcosa di nuovo: il male orgoglioso di sé, che si compiace della pura malevolenza. Il suo articolo è un tentativo freddo, calcolato, di stupire e contemporaneamente intimidire. Gli riesce la prima cosa, la seconda fallisce miseramente. Ecco la parte scioccante: 'Israele quasi sicuramente attaccherà le strutture nucleari iraniane nei prossimi quattro, sei mesi'. O questo - scrive Morris - o Israele dovrà infine lanciare 'un attacco nucleare preventivo'. E' il suo messaggio all'Occidente: fermate l'Iran o lanceremo su di loro la bomba".
Nulla di nuovo, precisa Justin Raimondo su antiwar.com, sono sei mesi che Israele minaccia di attaccare l'Iran. Quello che cambia è il tono di certezza assunto da Morris e quello che preoccupa è la sua vicinanza agli ambienti governativi israeliani che non possono non essere a conoscenza del suo exploit e non possono non avergli conferito il nulla osta necessario a spargere minacce dal più importante quotidiano del mondo.
Di lui - di Morris - dei suoi meriti come archivista e della sua deriva abbiamo già parlato (Debunking the guru). Un'intera generazione di storici deve infatti alle sue raccolte di dati la conoscenza degli esordi di uno stato ebraico in terra di Palestina. Ancora di più si deve proprio a Morris la conoscenza del peccato originale di Israele: il processo di pulizia etnica nascosto per decenni ai libri di storia, trascurato dall'Europa colpevole del dopoguerra e sacrificato alla costruzione del mito di un Davide israeliano che vede i propri sogni di pace minacciati incomprensibilmente dai Golia arabi e li combatte e li vince nonostante la leggendaria, vantata sproporzione dei mezzi (proprio Morris enumera nelle sue compilazioni quelli che erano i mezzi in campo, sfatando il mito).
Ma la cura messa da Morris nella raccolta dei fatti non corrisponde, purtroppo, alle sciatte opinioni che l'ex nuovo storico - il guru - dispensa a destra e a manca minando il significato delle prove da lui stesso raccolte e agitando un senso morale che va dall'opinabile, al machiavellico al criminale. Sì, criminale, perchè la menzogna e l'omissione in tema di guerra e di nucleare, così come la minaccia e la ripugnante apologia di un strage benigna, sono crimini.
"Leggendo il noioso libello di Morris - continua Raimondo - ci si stupisce di come sia arrivato a scrivere una simile, insipida apologia di quello che si classificherebbe tra i peggiori crimini nella storia dell'umanità: 'tutti sanno' che gli iraniani stanno cercando di costruire ordigni nucleari (dove l'abbiamo già sentita questa?), le sanzioni non stanno funzionando, i russi e i cinesi non vogliono cooperare, oh, e 'il pubblico americano riversa poco entusiasmo per le guerre in terra islamica".
Un Morris davvero incontenibile, quindi. quello che parla dalle pagine del New York Times. Fa propria la lezione di Goebbels sulla reiterazione delle falsità e sembra gli costi poco sorvolare sui fatti, sui rapporti dell'AIEA e sulle risultanze degli stessi servizi USA. Allora proclama che "tutte le agenzie di intelligence del mondo credono che il programma iraniano sia finalizzato alla costruzione di armi, non ad applicazioni pacifiche dell'energia nucleare". E non si fa mancare un po' di consueta propaganda sulla minaccia esistenziale, piatto forte da servire ai più ingenui ed anacronistici latori, in buona o in malafede, del senso di colpa occidentale. "Israele, sapendo che la sua stessa esistenza è in gioco - questo è un sentimento condiviso dalla maggior parte degli israeliani di tutto lo spettro politico - farà sicuramente questo sforzo. I leader israeliani, dal primo ministro Ehud Olmert in giù, hanno tutti esplicitamente dichiarato che una bomba iraniana significa la distruzione di Israele; all'Iran non sarà consentito di ottenere la bomba".
Ora, gli indegni sproloqui di un John Bolton (o simili) ci hanno abituati ad elaborare i doverosi anticorpi contro i germi di ordinario malanimo che impronta i loro scritti e le relative malate o compravendute opinioni. L'evidente malattia di molti apologeti della guerra totale suscita, oltre al comprensibile disgusto, un po' di umana compassione. In altri termini le palesi menzogne di chi mente con caparbia costanza, quand'anche diffuse dalle autorevoli pagine del Wall Street Journal, sono in fondo meno pericolose delle opinioni di chi - a torto, a ragione o nascondendo la propria natura - aveva acquistato in passato una certa credibilità.
Proprio per questo non sono tanto pericolosi quanto patetici i Bolton rispetto agli accademici, agli storici, agli studiosi o presunti tali, ai Benny Morris della situazione e rispetto ai relativi interessati megafoni. In sostanza è meno efficace uno scritto svergognato, se è riversato nei canali della macchina della propaganda guerriera americana e israeliana, dell'odioso manifesto consentito ad un personaggio svalutato come Morris sulle pagine del New York Times.
Nulla di nuovo, precisa Justin Raimondo su antiwar.com, sono sei mesi che Israele minaccia di attaccare l'Iran. Quello che cambia è il tono di certezza assunto da Morris e quello che preoccupa è la sua vicinanza agli ambienti governativi israeliani che non possono non essere a conoscenza del suo exploit e non possono non avergli conferito il nulla osta necessario a spargere minacce dal più importante quotidiano del mondo.
Di lui - di Morris - dei suoi meriti come archivista e della sua deriva abbiamo già parlato (Debunking the guru). Un'intera generazione di storici deve infatti alle sue raccolte di dati la conoscenza degli esordi di uno stato ebraico in terra di Palestina. Ancora di più si deve proprio a Morris la conoscenza del peccato originale di Israele: il processo di pulizia etnica nascosto per decenni ai libri di storia, trascurato dall'Europa colpevole del dopoguerra e sacrificato alla costruzione del mito di un Davide israeliano che vede i propri sogni di pace minacciati incomprensibilmente dai Golia arabi e li combatte e li vince nonostante la leggendaria, vantata sproporzione dei mezzi (proprio Morris enumera nelle sue compilazioni quelli che erano i mezzi in campo, sfatando il mito).
Ma la cura messa da Morris nella raccolta dei fatti non corrisponde, purtroppo, alle sciatte opinioni che l'ex nuovo storico - il guru - dispensa a destra e a manca minando il significato delle prove da lui stesso raccolte e agitando un senso morale che va dall'opinabile, al machiavellico al criminale. Sì, criminale, perchè la menzogna e l'omissione in tema di guerra e di nucleare, così come la minaccia e la ripugnante apologia di un strage benigna, sono crimini.
"Leggendo il noioso libello di Morris - continua Raimondo - ci si stupisce di come sia arrivato a scrivere una simile, insipida apologia di quello che si classificherebbe tra i peggiori crimini nella storia dell'umanità: 'tutti sanno' che gli iraniani stanno cercando di costruire ordigni nucleari (dove l'abbiamo già sentita questa?), le sanzioni non stanno funzionando, i russi e i cinesi non vogliono cooperare, oh, e 'il pubblico americano riversa poco entusiasmo per le guerre in terra islamica".
Un Morris davvero incontenibile, quindi. quello che parla dalle pagine del New York Times. Fa propria la lezione di Goebbels sulla reiterazione delle falsità e sembra gli costi poco sorvolare sui fatti, sui rapporti dell'AIEA e sulle risultanze degli stessi servizi USA. Allora proclama che "tutte le agenzie di intelligence del mondo credono che il programma iraniano sia finalizzato alla costruzione di armi, non ad applicazioni pacifiche dell'energia nucleare". E non si fa mancare un po' di consueta propaganda sulla minaccia esistenziale, piatto forte da servire ai più ingenui ed anacronistici latori, in buona o in malafede, del senso di colpa occidentale. "Israele, sapendo che la sua stessa esistenza è in gioco - questo è un sentimento condiviso dalla maggior parte degli israeliani di tutto lo spettro politico - farà sicuramente questo sforzo. I leader israeliani, dal primo ministro Ehud Olmert in giù, hanno tutti esplicitamente dichiarato che una bomba iraniana significa la distruzione di Israele; all'Iran non sarà consentito di ottenere la bomba".
Ora, gli indegni sproloqui di un John Bolton (o simili) ci hanno abituati ad elaborare i doverosi anticorpi contro i germi di ordinario malanimo che impronta i loro scritti e le relative malate o compravendute opinioni. L'evidente malattia di molti apologeti della guerra totale suscita, oltre al comprensibile disgusto, un po' di umana compassione. In altri termini le palesi menzogne di chi mente con caparbia costanza, quand'anche diffuse dalle autorevoli pagine del Wall Street Journal, sono in fondo meno pericolose delle opinioni di chi - a torto, a ragione o nascondendo la propria natura - aveva acquistato in passato una certa credibilità.
Proprio per questo non sono tanto pericolosi quanto patetici i Bolton rispetto agli accademici, agli storici, agli studiosi o presunti tali, ai Benny Morris della situazione e rispetto ai relativi interessati megafoni. In sostanza è meno efficace uno scritto svergognato, se è riversato nei canali della macchina della propaganda guerriera americana e israeliana, dell'odioso manifesto consentito ad un personaggio svalutato come Morris sulle pagine del New York Times.
venerdì, luglio 18, 2008
Una dedica
Quella che segue a suo modo è una dedica. Nasce come commento a un post sulla Torre di Babele - Rai che ricorda una donna coraggiosa, Nadia Anjuman, 25 anni, poetessa e moglie afghana, uccisa di botte dal marito. Nessuna notizia o novità, purtroppo, nulla di stupefacente. Riporto il commento com'era, salvo qualche piccola modifica e correzione, precisando ancora una volta che saltarne a pie' pari la lettura non renderà alcuno più povero, ma neanche più ricco. (Fotogramma tratto da Nemici della Felicità)
Mi risulta difficile piangere di una situazione, di una persona, di un’ingiustizia, di un crimine, senza che da queste cose si possa trarre un programma, una denuncia, il germe di un’idea, una parola perchè le cose non restino perennemente uguali a se stesse. Perchè la vita e la dignità delle persone non debbano scontrarsi in eterno con un muro di primitiva intransigenza.
Il sistema anacronistico e criminale impostato in Afghanistan a tutto il 2001 con il beneplacito e l’aiuto di troppi e poi parzialmente e malamente scalzato con il pretesto delle torri gemelle, non ha sofferto in nulla del cambiamento. L’ipocrita guerra dei mondi perpetrata da USA & Clienti è arrivata alle grotte in cui si è detto nascondersi il male personificato da un comodo capro (Osama) non più utile.
Viceversa quello che era il modus vivendi della parte più debole della popolazione afghana, cioè tutta la parte femminile e molta di quella maschile, vessata dai prìncipi locali, warlords, signori dell’oppio e loro manovalanza, non è stato intaccato.
Nel maggio scorso, parlando della posizione di Malalai Joya (”rising star” del panorama politico locale, minacciata e cacciata dal parlamento afghano), annotavo che Brad Adams, direttore per l’Asia di Human Rights Watch, aveva rammentato all’occidente che in giugno l’Afghanistan avrebbe “chiesto donazioni per miliardi di dollari in assistenza, presentandosi come democrazia emergente”. Se, allora, con la violenza delle armi si era intrapresa una campagna di conquista, con la potenza della diplomazia e del denaro forse sarebbe stato possibile sperare anche in una inversione di tendenza sotto il profilo dei diritti umani.
E invece questo non è accaduto e non accadrà. Fatalmente. I cambiamenti non sono promossi dalle armi, dalla diplomazia, dal petrolio o dal denaro che, in ogni caso, resta per lo più nelle stesse mani. Più facilmente sono promossi dal tempo, dagli scambi, dalla comunicazione e dalla cultura, unici elementi che con fatica riescono ad estirpare i rami secchi di tradizioni (e religioni) asservite al mantenimento, con la forza e la prevaricazione, di un potere e di una stabilità precipuamente - occorre dirlo - maschili. Salvo - ogni tanto - l’avvento di una rivoluzione. Ma si è detto bene ricordando l’esistenza attuale di “un “coso” chiamato computer che ti mette in comunicazione con tutto il mondo e ti fa dire la tua”. Un “coso chè a suo modo è l’inizio di una rivoluzione incruenta.
Ma - tornando al caso specifico, quello afghano - qualcuno avrà mai fatto veramente “pesare” al presidente Karzai, rappresentante della longa manus parassitaria della ricostruzione americana, che la dichiarata ‘emergenza democratica’ nella regione non arriva neppure ai confini di Kabul? Che la posizione della donna afghana è tuttora ancorata a pulsioni maschili di tipo talebano? Che una vedova povera è una donna a perdere? Che i suoi figli muoiono con lei per la strada per fame e freddo?
Oppressa e compressa dalla religione del potere e dal potere della religione, la donna afghana è la prova vivente del fatto che l’esportazione occidentale di democrazia - cosa ben diversa da una rivoluzione spontanea - riguarda i lucrosi contratti da distribuire secondo la consueta logica clientelare, riguarda le vie del petrolio e del gas, riguarda precarie alleanze economiche e strategiche confezionate secondo i più fantasiosi disegni di egemonia e di conquista spesso dichiaratamente funzionali al mantenimento di uno standard occidentale palesemente iniquo (”abbiamo bisogno di energia e di guerra per mantenere il nostro sistema di vita”).
Tutte cose che naturalmente con la democrazia - anche con quella che si pretende debba passare attraverso un benessere di tipo occidentale - e con i fasulli presupposti agitati per giustificare l’invasione di una terra altrui, non c’entrano assolutamente nulla.
Ma, come ho detto all'inizio, tutto ciò non è nulla di nuovo. Stupefacente è solo il fatto che qualcuno creda veramente che sia la carenza di diritti umani a condurci laggiù, ad "esportare democrazia". Sbalorditivo è poi che sia dia credito a chi, in perfetta malafede, dai palazzi del potere finge anche di crederci e si avvale della credulità popolare per assecondare i propri sogni malati.
Mi risulta difficile piangere di una situazione, di una persona, di un’ingiustizia, di un crimine, senza che da queste cose si possa trarre un programma, una denuncia, il germe di un’idea, una parola perchè le cose non restino perennemente uguali a se stesse. Perchè la vita e la dignità delle persone non debbano scontrarsi in eterno con un muro di primitiva intransigenza.
Il sistema anacronistico e criminale impostato in Afghanistan a tutto il 2001 con il beneplacito e l’aiuto di troppi e poi parzialmente e malamente scalzato con il pretesto delle torri gemelle, non ha sofferto in nulla del cambiamento. L’ipocrita guerra dei mondi perpetrata da USA & Clienti è arrivata alle grotte in cui si è detto nascondersi il male personificato da un comodo capro (Osama) non più utile.
Viceversa quello che era il modus vivendi della parte più debole della popolazione afghana, cioè tutta la parte femminile e molta di quella maschile, vessata dai prìncipi locali, warlords, signori dell’oppio e loro manovalanza, non è stato intaccato.
Nel maggio scorso, parlando della posizione di Malalai Joya (”rising star” del panorama politico locale, minacciata e cacciata dal parlamento afghano), annotavo che Brad Adams, direttore per l’Asia di Human Rights Watch, aveva rammentato all’occidente che in giugno l’Afghanistan avrebbe “chiesto donazioni per miliardi di dollari in assistenza, presentandosi come democrazia emergente”. Se, allora, con la violenza delle armi si era intrapresa una campagna di conquista, con la potenza della diplomazia e del denaro forse sarebbe stato possibile sperare anche in una inversione di tendenza sotto il profilo dei diritti umani.
E invece questo non è accaduto e non accadrà. Fatalmente. I cambiamenti non sono promossi dalle armi, dalla diplomazia, dal petrolio o dal denaro che, in ogni caso, resta per lo più nelle stesse mani. Più facilmente sono promossi dal tempo, dagli scambi, dalla comunicazione e dalla cultura, unici elementi che con fatica riescono ad estirpare i rami secchi di tradizioni (e religioni) asservite al mantenimento, con la forza e la prevaricazione, di un potere e di una stabilità precipuamente - occorre dirlo - maschili. Salvo - ogni tanto - l’avvento di una rivoluzione. Ma si è detto bene ricordando l’esistenza attuale di “un “coso” chiamato computer che ti mette in comunicazione con tutto il mondo e ti fa dire la tua”. Un “coso chè a suo modo è l’inizio di una rivoluzione incruenta.
Ma - tornando al caso specifico, quello afghano - qualcuno avrà mai fatto veramente “pesare” al presidente Karzai, rappresentante della longa manus parassitaria della ricostruzione americana, che la dichiarata ‘emergenza democratica’ nella regione non arriva neppure ai confini di Kabul? Che la posizione della donna afghana è tuttora ancorata a pulsioni maschili di tipo talebano? Che una vedova povera è una donna a perdere? Che i suoi figli muoiono con lei per la strada per fame e freddo?
Oppressa e compressa dalla religione del potere e dal potere della religione, la donna afghana è la prova vivente del fatto che l’esportazione occidentale di democrazia - cosa ben diversa da una rivoluzione spontanea - riguarda i lucrosi contratti da distribuire secondo la consueta logica clientelare, riguarda le vie del petrolio e del gas, riguarda precarie alleanze economiche e strategiche confezionate secondo i più fantasiosi disegni di egemonia e di conquista spesso dichiaratamente funzionali al mantenimento di uno standard occidentale palesemente iniquo (”abbiamo bisogno di energia e di guerra per mantenere il nostro sistema di vita”).
Tutte cose che naturalmente con la democrazia - anche con quella che si pretende debba passare attraverso un benessere di tipo occidentale - e con i fasulli presupposti agitati per giustificare l’invasione di una terra altrui, non c’entrano assolutamente nulla.
Ma, come ho detto all'inizio, tutto ciò non è nulla di nuovo. Stupefacente è solo il fatto che qualcuno creda veramente che sia la carenza di diritti umani a condurci laggiù, ad "esportare democrazia". Sbalorditivo è poi che sia dia credito a chi, in perfetta malafede, dai palazzi del potere finge anche di crederci e si avvale della credulità popolare per assecondare i propri sogni malati.
venerdì, luglio 04, 2008
Ipi e Tapi, guerra per il gas?
Sembrano nomi da personaggi dei fumetti, IPI e TAPI, invece sono i protagonisti di un ulteriore motivo per gettare carburante sul fuoco della propaganda anti iraniana. Pare che entro fine mese la prospettata collaborazione tra Iran, Pakistan e India (IPI) per l'approvvigionamento di gas al continente indiano sarà cosa fatta. Le dirigenze di quei paesi stanno per siglare un accordo per la costruzione del gasdotto che servirà ad esaudire la sete indiana di energia, portando una consistente quantità di gas iraniano, attraverso il Pakistan (che incasserà i relativi diritti per il passaggio) in India. Un condotto denominato "Peace Pipeline" e contemporaneamente un affare da 7 miliardi e mezzo di dollari, uno schiaffo alle sanzioni ONU di derivazione americana. L'India - dopo una serie di tentennamenti indotti dalle pressioni degli Stati Uniti - avrebbe infine scelto di far parte di un asse tutto asiatico per rifornirsi di gas, preferendo la concretezza del progetto iraniano alla stagnazione di analogo progetto occidentale. Ed ecco il secondo protagonista della vicenda: TAPI, cioè il piano americano per incanalare il gas necessario alle incipienti ed imponenti necessità indiane ricavandolo da presunti giacimenti in Turkmenistan, attraverso l'Afghanistan - tuttora martoriato dalla guerra - e il Pakistan. Un progetto che, vuoi per l'incremento dei costi, vuoi per la situazione afghana, sembra non essere (o non essere più) appetibile, né economico. Questo è allora il motivo per infiammare le polveri del "problema" iraniano e stamane apprendiamo dal Corriere della Sera che "secondo l’ammiraglio James Winnefeld, comandante della Sesta flotta Usa nel Mediterraneo, l’Iran probabilmente lancerà un attacco con missili balistici contro Israele, e gli Stati Uniti e gli alleati Nato devono prepararsi a questa eventualità". Il pezzullo - cinque o sei righe - tace il motivo di questa gratuita boutade, ma farebbe riferimento ad analogo monito comparso su Haaretz di stamattina. Ce lo andiamo a leggere e anche il nostro allarme quotidiano viene sensibilmente ridimensionato. Infatti il quotidiano israeliano, riportando nel corpo dell'articolo le parole dell'ammiraglio Winnefeld, ha preventivamente titolato quanto già detto, ridetto e ritenuto nelle scorse settimane e non si tratta certo di una novità. L'Iran ribadisce il fatto che "Any attack on our nuclear facility will be beginning of war", cioè promette che un eventuale attacco alle proprie strutture nucleari segnerà l'inizio di una guerra. Il sistema non è nuovo: liquidando in poche righe esplosive una reazione già paventata e motivata ma solo ipotetica della Repubblica Islamica come se fosse una sua probabile ed autonoma iniziativa, il messaggio arriva forte e chiaro. I fatti no.
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