giovedì, agosto 30, 2007

Bavaglio accademico a Finkelstein

Avevo anticipato di sfuggita, pochi giorni fa (v. I dispetti della Lobby), la notizia dello stop virtuale imposto dalla DePaul University all'attività del professor Finkelstein prima della naturale scadenza del suo incarico. L'operazione di boicottaggio da parte della cattolica università DePaul di Chicago è stata resa nota ufficialmente due giorni dopo con la pubblicazione - da parte di Finkelstein - di una lettera di censura rivolta al medesimo istituto dall'AAUP (American Association of University Professors). L'organizzazione, che tutela il corpo insegnante nelle università, ha già preso più volte posizione in favore di Finkelstein e da ultimo, il 27 agosto scorso, ha infatti indirizzato al presidente dell'università, Rev. Dennis Holtschneider, una nuova e recisa richiesta di spiegazioni per l'aggressione subita dallo scomodo accademico di Chicago, in particolare rispetto al diritto - codificato nelle regole base dell'ateneo - di portare a termine il proprio programma di insegnamento per l'anno in corso.


«Vi scriviamo ancora in merito ad una nuova questione di procedura (...) in
relazione ad un messaggio e-mail di venerdì 24 agosto del rettore Ellmut Epp al professor Finkelstein, con il quale gli viene notificata la decisione dell'amministrazione di metterlo in "administrative leave" con stipendio, rilevandolo da ulteriori doveri accademici nel suo ultimo anno di servizio. (Abbiamo saputo che gli è pure stato negato l'accesso al suo ufficio). Secondo il messaggio del rettore l'azione per rilevare il professor Finkelstein dall'ulteriore insegnamento è stata presa "sulla base delle necessità del dipartimento e del collegio e causa del suo comportamento alla fine del quadrimestre primaverile"...»

Il Chicago Tribune ha riferito della nuova ed umiliante operazione di ostracismo dell'istituto cattolico, precisando che, a pochi giorni dall'inizio delle lezioni, le dispense necessarie per il corso di Finkelstein erano già in libreria, gli studenti avevano il programma del corso e lo spazio disponibile a "Scienze Politiche 235 - Uguaglianza nella giustizia sociale", era ormai limitato ai soli posti in piedi. Il quotidiano ha precisato che secondo le norme accademiche un professore a cui sia stata negata cattedra e impiego ha il diritto ad un anno finale di insegnamento all'università che lo licenzia. Il controllo di queste norme è affidato appunto alla AAUP, che può censurare un istituto qualora ricorrano violazioni delle sue regole fondamentali, il che può essere propedeutico ad una causa civile contro l'università da parte di un membro del corpo accademico pregiudicato da tale comportamento.

Secondo Jonathan Knight, direttore del programma dell'AAUP per la libertà accademica e l'impiego, un'università deve al suo membro licenziato ben più di un anno di salario. Ha diritto ad un'aula e presumibilmente ad un ufficio. Ribadisce Knight che un ateneo non può semplicemente chiamarsi fuori ricorrendo all'aspettativa con stipendio. Ha aggiunto che tale provvedimento non può essere preso senza un'udienza salvo i casi di estrema urgenza e che - in questo caso - non risultano sussistere gli estremi per una decisione dell'ultimo minuto da parte della DePaul.

Vi è da aggiungere qui che solo due anni fa - come riferisce il Chicago Tribune - il professor Finkelstein veniva additato come "esempio dell'impegno della DePaul per la libertà di informazione" proprio da parte del presidente, Rev. Holtschneider. Lo stesso chierico che - pur negando per ovvi motivi questa circostanza - palesemente non ha saputo difendere la libertà dell'istituto dalle pressioni dei potentati che hanno eretto a proprio campione l'avvocato e prof. Alan Dershowitz, ormai pubblicamente squalificato (da Finkelstein) per la povertà dei suoi scritti in difesa della violenza dell'apartheid di Israele e della tortura e in strisciante, malcelata adesione all'imposizione di una devastante pax israeliana in Palestina.

Per parte sua Norman Finkelstein ha dichiarato che, piuttosto che una causa, intende opporre la propria disobbedienza civile al provvedimento ed ha aggiunto che, se verrà messo in prigione per questo, inizierà uno sciopero della fame fino a che l'università DePaul non sia tornata in sé. "Nel tribunale della pubblica opinione posso vincere", ha detto Finkelstein, "lasciamo che sia la gente a giudicare". La gente chissà, ma sicuramente gli studenti sono dalla sua parte, come - sembra - la maggior parte del corpo insegnante alla DePaul.

____________________________________
Per approfondire
http://www.normanfinkelstein.com/article.php?pg=11&ar=1190
http://www.normanfinkelstein.com/article.php?pg=11&ar=1191
http://www.insidehighered.com/news/2007/08/27/depaul
http://www.chicagotribune.com/news/local/chi-depaul28aug28,0,7661996.story
http://education.guardian.co.uk/higher/news/story/0,,2158191,00.html

sabato, agosto 25, 2007

I dispetti della Lobby

La martellante operazione di boicottaggio di Alan Dershowitz sembra aver dato i suoi frutti. Proseguono anche le meschinità collaterali al diniego della cattedra a Norman Finkelstein, questione di cui si è già abbondantemente parlato su questo blog (v. Lobby - Negata la cattedra a Finkelstein, Lo scienziato e il professore, Viam sapientiae monstrabo tibi).

A Finkelstein è stata negata l'opportunità di un impiego stabile nella cattolica DePaul University e il suo rapporto con l'istituto cesserà formalmente (di fatto è già cessato) nel 2008. Per il resto i maneggi di Dershowitz sembrano aver ottenuto il solo risultato di promuovere la figura dello scomodo professore nel mondo accademico internazionale. Una straordinaria ondata di solidarietà, anche da parte di eminenti studiosi, quali Avi Shlaim e il compianto Raul Hilberg, da poco scomparso, ha evidenziato il valore di Norman Finkelstein, la sua visione scientifica del problema mediorientale e, viceversa, la pochezza intellettuale messa in atto dall'avvocato Dershowitz nel suo tentativo di riciclare e giovarsi di alcuni scadenti miti sulle origini del conflitto (v. anche in Riciclaggio).

Dei libelli di Dershowitz nei confronti di chiunque abbia una visione a 360° della questione israelo (ebraico) palestinese viene fatta quotidianamente giustizia nelle piazze (blog) in cui il principe del foro americano accetta in qualche modo il dibattito, senza degnarsi di rispondere ma consentendo - altro non potrebbe fare - che vengano messe rapidamente alla berlina le sue faziose visioni della storia e dell'attualità. Dei suoi scritti e (in particolare del suo Case for Israel) ha già scritto abbastanza, con puntuale documentazione, Norman Finkelstein. Sotto questo profilo bisogna dire, tuttavia, che gli artifizi dell'avvocato Dershowitz tesi a giustificare l'imposizione del suo punto di vista non godono della pregevole fattura e delle assai più sottili infiltrazioni di menzogna e ipocrisia riscontrate tra le righe di altri rinomati scritti, anche italiani, e nella martellante operazione dei media asserviti alla campana filoisraeliana.

Talune meschinità nei confronti di Finkelstein non accennano a diminuire. Di seguito trascrivo un ridicolo gioiellino in tema di boicottaggio all'interno della struttura universitaria DePaul, dove, per converso, gli studenti e buona parte del corpo accademico non mancano di manifestare solidarietà per Finkelstein e sdegno per i vertici dell'istituto che non hanno avuto il coraggio di una decisione (quella sulla cattedra) invisa alla Lobby e ai suoi sicari. Del resto Fink ci è abituato da tempo e al boicottaggio culturale sono assuefatti tutti gli studiosi del Medioriente negli USA che si pongano in qualche misura fuori dal coro. Ne sa qualcosa il prof. Tony Judt e ne sanno parecchio - di recente - i prof. John Mearsheimer e Stephen Walt, autori del documentato saggio critico La Lobby Israeliana, che è da tempo reperibile su internet, è già stato tradotto e pubblicato in Italia (Asterios Editore - Trieste)* ma uscirà in un volume completo solo il 4 settembre negli USA (v. foto). E' facile prevedere che la pubblicazione "in print" dell'opera - dice Finkelstein - scatenerà un bel po' di agitazione negli Stati Uniti. Ma questa è un'altra storia. Passiamo ai semplici dispetti del Preside della DePaul - già portatore delle istanze di Dershowitz nel "processo" accademico contro Finkelstein - leggendo l'umiliante missiva da poco rivolta al professore ostracizzato.

"Prof. Finkelstein, il Professor Budde mi ha fatto sapere che lei ha chiesto dello spazio negli uffici per i suoi libri. Non abbiamo una collocazione per lei nel prossimo anno accademico. Vedrò se potremo renderle disponibile qualcosa ed io o il Professor Budde ci metteremo in contatto con lei la prossima settimana con più informazioni. Nel frattempo lei non avrà accesso al suo vecchio spazio negli uffici. Visto che lei ha lasciato alcuni effetti personali nel suo vecchio posto, potremo discutere un piano per la restituzione [di queste cose] quando la contatterò la settimana prossima. Lei non deve pianificare spostamenti in alcuno spazio degli uffici, poichè questa opzione per lei non è disponibile. La contatterò la settimana prossima con maggiori informazioni". Dr. Charles (Chuck) Suchar - Professor and Dean College of Liberal Arts and Sciences - DePaul University - Vincent dePaul Professor - Office of the Dean
_____________________________________
(*) «Abbiamo scritto “La lobby israeliana” al fine di iniziare una discussione su un soggetto che è diventato difficile da trattare apertamente negli Stati Uniti. Sapevamo di provocare una forte reazione e non siamo sorpresi che alcuni dei nostri critici abbiano scelto di attaccare apertamente i nostri scritti e di travisare di proposito le nostre argomentazioni. Siamo però anche gratificati dalle tante attestazioni di stima che abbiamo ricevuto e dai commenti positivi che sono emersi sui media e nella blogsfera. È evidente che molte persone, inclusi ebrei e israeliani, sanno che è venuto il momento di aprire una discussione seria sul ruolo di Israele nella politica estera americana e sulle relazioni tra questi due paesi. Uno degli argomenti addotti contro di noi è che noi vedremmo la lobby israeliana come una bene organizzata cospirazione da parte degli ebrei. Alcuni sostengono che le “accuse al potere degli ebrei rappresentano una delle più pericolose forme moderne di anti-semitismo”. È una posizione che noi condanniamo e respingiamo nei nostri scritti. Infatti, descriviamo la lobby come una coalizione di elementi individuali e di organizzazioni indipendenti senza un quartier generale. Essa include persone perbene come gli Ebrei e gli ebrei-americani che non rigirano la legge a seconda delle proprie posizioni. La cosa più importante è che la lobby israeliana non è segreta, clandestina; al contrario è apertamente diffusa e sostenuta nei più vari gruppi di interesse politico, dietro a essa non vi è alcun atto illegale o cospiratorio». [John Mearsheimer, insegna Scienze Politiche a Chicago. Stephen Walt, insegna Affari Internazionali alla Kennedy School of Government di Harvard].

_____________________________________
Per approfondire
http://pipistro.blogspot.com/2007/06/lobby-negata-la-cattedra-finkelstein.html
http://pipistro.blogspot.com/2007/06/continua-negli-usa-accompagnata-da-un.html
http://pipistro.blogspot.com/2007/05/viam-sapientiae-monstrabo-tibi.html
http://pipistro.blogspot.com/2007/01/riciclaggio.html
http://www.normanfinkelstein.com/article.php?pg=11&ar=1188
http://www.lemonde.fr/web/article/0,1-0@2-3222,36-753823@51-751866,0.html
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200708articoli/25065girata.asp
http://www.scribemedia.org/2006/10/11/israel-lobby/
http://clients.mediaondemand.net/thedohadebates/index.aspx?sessionid=23&bandwidth=hi

giovedì, agosto 23, 2007

Una cartolina per Ben


(disegno - elaborazione grafica by Danith)

"Ho letto un Ben molto provato. Vogliamo ridargli un pò di fiducia,trasmettergli la nostra vicinanza e solidarietà di italiani cittadini dell'Italia e non di una "italietta" pronta a piegarsi davanti alle stelle e strisce? Scrivete a Benedetto...". (Anna)

Una richiesta di aiuto da Benedetto Cipriani

Ricevo or ora tramite Anna Cellucci, la compagna di Benedetto Cipriani e a cura del legale di Cipriani nel Connecticut, l'avvocato Ioannis (John) A. Kaloidis, una lettera del nostro connazionale, che come ricorderete è stato repentinamente estradato negli USA ed ora è in vista di un processo per omicidio di cui sono stati già evidenziati, anche in questo blog, i contorni quantomeno dubbi ed unilaterali. E il contesto di accesa ostilità scatenatosi nei confronti dell'imputato, visto immediatamente come non americano e dipinto, per quanto lui stesso ci riferisce, come il mafioso italiano. L'avvocato Kaloidis ha specificato, allegando la lettera di "Ben" (v. immagine a lato), che "Mr. Cipriani has asked that the attached letter be forwarded to the Italian press".

Di seguito vi sottopongo immediatamente il testo della lettera di Benedetto Cipriani, che protesta recisamente la sua innocenza e paventa il profilarsi di un processo iniquo. E' una richiesta di aiuto e una dichiarazione di affetto per la sua famiglia, per la sua compagna Anna, per tutti gli italiani.

«Vi ringrazio per il vs aiuto ed interesse nella mia vicenda. Vi prego solo di non lasciarmi solo a combattere questa immane battaglia per la mia vita. Sono stato vittima di un disegno ben preciso e persecutivo già dalle prime battute della mia vicenda. Le dichiarazioni accusatorie delle carte estradizionali non esistevano ecco perchè le rogatorie non furono permesse. I prof. Gaito e Furfaro vi potranno dire delle mie vicende. Adesso sono qui estradato per la "ragion di stato". Vi può essere un giusto processo dove i membri di una giuria sono stati bombardati in continuazione con "il mafioso venuto dall'Italia". E' una guerra razziale. Italiano e mafioso! Ho un intero stato contro di me. Vengo trattato come se fossi un boss mafioso. Non mi fanno parlare con la mia famiglia. I miei avvocati si stanno impegnando ma hanno bisogno di mezzi. E la mia famiglia è finanziariamente dissanguata. Aiutatemi ed aiutatela voi che potete. Spero solo che voi non mi lasciate solo a combattere questa guerra. Le autorità del Connecticut non hanno mai accettato le condizioni del decreto, non mi vogliono far tornare in Italia. Me lo hanno detto appena mi hanno avuto il 13/7. Se io non torno in in Italia in qualsiasi momento vi può essere una revisione e l'applicazione della pena di morte. Aiutate la mia famiglia con una campagna di aiuti. Ufficialmente tramite voi tutti faccio formale richiesta che io voglio tornare in Italia, chiedo quindi l'applicazione delle condizioni imposte dal decreto Castelli. Un saluto particolare a mia madre, mia sorella e famiglia, ad Anna mia fedele compagna che amo ed a cui sono sempre stato innamorato e fedele. Vi amo molto, mi mancate tanto. Aiutatemi, ho bisogno del vostro aiuto, aiutatemi a provare la mia innocenza. Aiutatemi a tornare in Italia». Benedetto Cipriani

mercoledì, agosto 22, 2007

Ghareeb, il racconto di Ed Kinane


Mohammed Hussein Ramadan, detto Ghareeb (straniero), morto sulla strada da Najaf per Baghdad il 20 agosto 2004 mentre accompagnava il nostro Enzo Baldoni verso il medesimo destino. Questo è il racconto di Ed Kinane in occasione di un precedente viaggio a Najaf con Ghareeb. (Ed Kinane - Voices in The Wilderness - Baghdad, October 14, 2003)

PRESS CONFERENCE
Intorno alle 11 del mattino Ghareeb porta me e Neville a Najaf, un viaggio di due ore. Una volta lì ci vuole un'ora per trovare la conferenza stampa. La conferenza è stata spostata dal luogo stabilito, parcheggiamo vicino a una barriera per il traffico nella città vecchia, attraversiamo un isolato lungo la galleria di una strada commerciale, incontriamo parecchi uomini armati verso la moschea principale.
Ghareeb cerca l'ufficio dell'organizzazione di Moktada al-Sadr per avere il permesso e le indicazioni per raggiungere la conferenza stampa. In un vicolo Ghareeb viene perquisito da un gruppetto di uomini armati prima di essere scortato nell'ufficio. Due uomini sono incaricati di accompagnarci mentre andiamo in auto verso il posto stabilito, forse un paio di miglia più in là. Quando arriviamo ci sono parecchi uomini armati a fare la guardia, alcuni sui tetti vicini. Non ci sono autorità in uniforme. Non dobbiamo mostrare alcun documento di identità, né tessera della stampa. Siamo abbassati gentilmente prima di essere introdotti attraverso una porticina in un'abitazione. Ci dirigiamo di sopra fino a un tetto affollato di giornalisti e cameramen. Trovo una sedia su cui stare in piedi. Sia Neville che Ghareeb scattano foto. Non c'è nessuno dei nostri due visitatori di ieri, né riconosciamo alcuna testata americana. In mezzo alla calca, ad un tavolo, siede Sayed Moktada, che si sporge davanti a un banco di microfoni. Capisco solo alcuni frammenti della traduzione e così perdo la sostanza delle sue osservazioni.
Il Sayed ha la barba ed è sui trent'anni. E' il figlio e nipote di famosi clerici shiiti, giustiziati da Saddam. Diversamente dai nostri visitatori di ieri, lui non ha l'aspetto "presidenziale" (o "papale"). Sembra teso. E' seccato quando un giornalista gli chiede se il suo nuovo governo costringerà le donne ad indossare il velo. Risponde che ognuno - ebrei, cristiani e musulmani - dovrebbero rispettare le proprie tradizioni. Continua ad agitare il dito indice. Probabilmente sta montando un cavallo che non può controllare. Mi chiedo per quanto tempo rimarrà vivo.
Più tardi, quando chiedo a [....], non sciita, che tipo di uomo sia Moktada, lui dice: "E' un killer, a capo di assassini".
KARBALA ROAD BLOCKS
Ghareeb vuole andare a Karbala, che è più o meno sulla via del ritorno per Baghdad. Non troppo lontano da Karbala incappiamo in un blocco stradale, circa una dozzina di soldati in fila attraverso l'autostrada. La coda delle auto fermate arriva ad una novantina di metri dai soldati. Siccome sono l'unico "gringo" nella folla, Ghareeb mi suggerisce di parlare con i soldati. Neville si offre di raggiungermi, ma Ghareeb pensa sia meglio che io vada da solo.
Mi avvicino di qualche metro. I soldati sono tesi. Con sempre più automobili che si avvicinano ogni minuto, sono in un pasticcio e non hanno idea di come venirne fuori. Faccio una domanda, ma non vogliono fornire risposte. Dico loro che vogliamo solo passare per andare verso Baghdad. Dicono che tutte le strade dentro Karbala sono bloccate, forse per due o tre ore. Chiedo che sta succedendo. Mi dicono che non ne hanno idea. Capisco che parte della loro tensione deriva dal fatto che parlano a stento l'inglese. Chiedo chi siano. Uno risponde indicando un tizio e poi l'altro "è un soldato, è un soldato, è un soldato". Quando un altro soldato lo chiama, capisco che questi uomini devono essere polacchi. In che situazione infernale sono! Se capiscono solo po' di inglese, probabilmente capiscono molto meno l'arabo. Eppure si sono ficcati in Iraq tra gente ben armata che li vede come invasori. Non è stato molti anni fa che i polacchi stessi sono stati occupati. Mi dicono che devo tornare indietro, allontanarmi da loro. Hanno paura che altri, vedendomi, si avvicinino a loro. Ritorno da Nev e Ghareeb.
Ci dirigiamo indietro giù per l'autostrada per un po' prima di girare in una strada sterrata. Raggiungiamo una fila polverosa di veicoli che aggirano il blocco stradale. Un camion è caduto in un fosso per l'irrigazione bloccandoci parzialmente la strada. Ghareeb ci fa uscire dall'auto prima di lanciare il motore per oltrepassare il camion senza finire a nostra volta nel fosso. Andiamo con la colonna alcune centinaia di metri prima di tornare sull'asfalto. Lungo l'autostrada possiamo giusto vedere i soldati polacchi, le loro schiene verso di noi. Ben presto oltrepassiamo dei poliziotti iraqeni, ci fanno cenno di andare avanti.
A Karbala Ghareeb sbriga i suoi affari e ci dirigiamo fuori dalla città solo per essere fermati ad un blocco stradale americano. Ci spostiamo verso un'altra direzione. Quando ci fermiamo per aggiungere un po' d'olio dei freni Ghareeb sente che più presto oggi la fazione sciita di Sistani, insieme alla fazione sciita di Hakim, hanno combattuto contro la fazione sciita di al-Sadr, scambiandosi l'un l'altra colpi di mortaio dai loro quartier generali di Karbala.
Continuiamo a viaggiare, ma veniamo fermati nuovamente, da un ponte bloccato. Aggirarlo ci conduce sulla vecchia strada per Baghdad attraverso miglia e miglia di lussureggianti piantagioni di datteri su entrambi i lati della strada, un aspetto dell'Iraq che avremmo perso se fossimo rimasti sulla strada principale.

Tutte queste ore sulla strada mi hanno aiutato a vedere Ghareeb in una nuova luce. Neville mi ha lasciato viaggiare nel sedile anteriore all'andata e al ritorno. Ghareeb è alle prese con un attacco di "influenza di Baghdad" e uno dei sintomi è il bruciore agli occhi. E' contento di parlare per rimanere attento. Lo porto a parlare della sua famiglia. Vien fuori che Ghareeb è una specie di soprannome che gli ha dato sua madre. Il suo vero nome è Mohammed Ramadan. Quella dei Ramadan è una tribù con migliaia di persone disperse in tutto il Medioriente.
Ghareeb dice che suo padre, di 67 anni, vive in Palestina dove ha delle proprietà. La famiglia ha investimenti in tutto il Medioriente. Il padre di Ghareeb è il capo della tribù dei Ramadan. Il fratello maggiore di Ghareeb succederà al padre quando questi verrà a mancare. Ghareeb è il successivo nella linea dopo suo fratello. Ghareeb dice di essere stato educato per essere un capo. Questo lo ha reso differente dai suoi compagni, non è necessariamente un destino facile per una persona così socievole. Sia lui che suo fratello sono piloti, il fratello ha un brevetto per gli aerei, Ghareeb per gli elicotteri. Un altra volta mi accennò di avere il brevetto per le auto da corsa.
Chiedo a Ghareeb cosa significa essere educato per essere un capo. Dice che significa che devi sempre aiutare chi ha bisogno. Devi sempre sacrificare le tue risorse per gli altri. E questa etica non è limitata nei confronti dei soli membri della tribù. Sembra essere una persona insolitamente premurosa. Qualche volta mi sento adottato da lui.
Il compito di Ghareeb, oggi a Karbala, era quello di controllare la situazione della donna che era venuta a Voices (in the Wilderness) per cercare un aiuto economico presumibilmente per un'intervento per il suo bambino. Mentre quella storia non salta fuori (avevamo controllato con l'ospedale nuovamente oggi) Ghareeb mi spiega che qualche volta devi penetrare nella rete di bugie di una persona per arrivare alla disperazione che la guida. Ghareeb è veramente un principe.
Ma è un principe senza una terra. Ora ha un visto per il Ghana. Andrà là o si tratterrà per cercare di andare in Canada? (Deve essere l'unico Ramadan in Iraq, ma ce ne devono essere alcuni in Canada). L'ultima destinazione è quella di tornare dalla sua famiglia in Palestina. E' stato via dalla Palestina per tanti anni e ne ha nostalgia. Parla della Palestina con orgoglio. "In Palestina non ci sono sciiti, né sunniti. I palestinesi sono gente sofisticata in un modo che non può essere trovato altrove in Medioriente".

giovedì, agosto 16, 2007

Notizie dal circo americano

Christians United for Israel (CUFI), quattromila partecipanti alla sua seconda Convention annuale a Washington tra il 16 e il 19 luglio scorsi, raccoglie consensi tra i senatori candidati alle presidenziali e influenza il Congresso degli Stati Uniti, rappresenta circa un quinto dei 75 milioni di cristiani evangelici negli USA e quindi una quindicina di milioni di persone. Si propone come associazione non-profit, i cui fondi sono usati per educare la comunità cristiana sulle ragioni bibliche per cui i cristiani dovrebbero sostenere Israele. Il suo sistema è vicino e i suoi programmi si rispecchiano in quelli dell'American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) - che si auto descrive come la Lobby d'America pro Israele - e della destra israeliana. L'agenda di questi enti si può sintetizzare oggi come segue: strangolare le aspettative nucleari iraniane anche con l'uso della forza militare, sbarazzarsi degli Hezbollah, fornire aiuto militare a Israele. L'organizzazione affronta il visitatore virtuale con uno sproloquio che riassume le fondamenta del suo pensiero in un incredibile gagliardetto integralista: "La Bibbia ci ordina di pregare per la pace di Gerusalemme (Salmi 122,6), a proclamare la salvezza di Sion (Isaia 62,1), ad essere guardiani delle mura di Gerusalemme (Isaia 62,6) e a benedire il popolo ebraico (Genesi 12,3). Questi e tanti altri versi della Bibbia portano un messaggio fondamentale, come cristiani abbiamo un obbligo biblico di difendere Israele e il popolo ebraico nel loro momento del bisogno". Il divino potpourri profetico e politico che ha suggerito a questi cristiani sionisti di darsi un nome, che - come si suol dire - non sta né in cielo, né in terra, imporrebbe poi agli stessi signori un'azione concreta (e molto politica) adatta a favorire il verificarsi delle profezie nella fanatica attesa della seconda venuta del Messia e dell'Armageddon, ma tutto questo solo nel preconizzato momento in cui gli ebrei, già tutti riuniti in un fantasioso ipertrofico Israele esteso dal Nilo all'Eufrate, verranno quasi interamente e profeticamente distrutti, salvo pochi di essi che, altrettanto profeticamente, saranno convertiti ad una forma di cristianesimo.

Non è chiaro come intendano cavarsela i sedicenti cristiano-sionisti con i loro sodali neo-grandi-israeliani, poichè allor che si compia la profezia essi dovrebbero essere necessariamente cancellati e i pochi rimasti convertiti, né è facile immaginare con cosa pensino di riempire una mitologica Israele che occupi terra dal Nilo all'Eufrate. Ma nel frattempo certamente intendono impegnarsi alacremente nei compiti che si sono assegnati con l'allucinato proclama emesso dal Terzo Congresso Cristiano Sionista Internazionale di Gerusalemme del febbraio 1996, primo fra tutti la difesa del contratto immobiliare divino, ivi descritto con precisione notarile ("According to God's distribution of nations, the Land of Israel has been given to the Jewish People by God as an everlasting possession by an eternal covenant. The Jewish People have the absolute right to possess and dwell in the Land, including Judea, Samaria' Gaza and the Golan") pur omettendo imperdonabilmente di considerare, in questo affrettato breviario, le Shebaa Farms e l'acqua libanese.

Per quanto occorrer possa e inerpicandosi nei disegni divini il minimo indispensabile (la cosa è imbarazzante in un'ottica anche solo vagamente agnostica, ma è necessitata dalla autodefinizione di questi clown quali cristiano-sionisti), leggiamo le prime poche parole della Dichiarazione di Gerusalemme, compilata dal Patriarca cattolico latino e dai capi delle chiese locali con riferimento al programma e al proclama: "il Cristiano-sionismo è un movimento teologico e politico moderno, che abbraccia le posizioni più estreme del Sionismo, così nuocendo ad una pace giusta tra Palestina e Israele. Il programma Cristiano Sionista fornisce una visione del mondo dove il Vangelo è identificato in una ideologia imperialista, colonialista e militarista. Nella sua forma estrema enfatizza gli eventi apocalittici che portano alla fine della storia, piuttosto che a vivere l'amore e la giustizia di Cristo oggi. Rigettiamo categoricamente le dottrine Cristiano Sioniste come falsi insegnamenti che corrompono il messaggio biblico di amore, giustizia e riconciliazione ...".

Ho detto prima "per quanto occorrer possa". E' infatti storia che si voglia far discendere le miserie umane da improbabili disegni superiori, ma, in questo caso, il movimento non gode neppure di quel minimo di serietà per cui valga la pena di scomodare gli dei e trattare - su un piano teologico - ciò che agli dei l'uomo stesso ha messo in bocca o nella penna al soldo delle più svariate bandiere, per giustificare ed alimentare la propria inguaribile rapacità.

lunedì, agosto 13, 2007

La truffa del processo di pace in Medioriente

«Quando Ehud Olmert e George Bush si sono incontrati alla Casa Bianca, in giugno, hanno concluso che l'esautorazione violenta di Fatah da parte di Hamas a Gaza - che ha annullato il governo di unità nazionale palestinese patrocinato dai Sauditi alla Mecca in marzo - aveva dato al mondo una nuova 'finestra di opportunità' (mai un processo di pace fallito aveva goduto di tante finestre di opportunità). L'isolamento di Hamas a Gaza - concordavano Olmert e Bush - avrebbe consentito di assicurare concessioni generose al presidente palestinese Mahmoud Abbas, offrendogli la credibilità di cui aveva bisogno davanti al popolo palestinese per prevalere su Hamas. Sia Bush che Olmert hanno discusso a non finire sul loro impegno per una soluzione 'a due stati' del conflitto israelo palestinese, ma è la loro determinazione a distruggere Hamas piuttosto che a costruire uno stato palestinese, che anima il loro rinnovato entusiasmo nel far sì che Abbas appaia quello buono. Ecco perchè la loro aspettativa che Hamas venga sconfitto è illusoria. I moderati palestinesi non prevarranno mai su quelli considerati estremisti dal momento che ciò che viene considerato moderazione per Olmert è l'acquiescenza palestinese allo smembramento del proprio territorio da parte di Israele. Alla fine quello che Olmert e il suo governo sono disposti ad offrire ai palestinesi verrà respinto da Mahmoud Abbas non meno che da Hamas. Ugualmente illusorie sono le aspettative di Bush in merito a ciò che verrà raggiunto con la conferenza da lui recentemente annunciata per l'autunno prossimo (adesso la conferenza è stata degradata ad 'incontro'). Secondo lui tutte le passate iniziative di pace sono fallite in gran parte, se non esclusivamente, perchè i palestinesi non erano pronti per un loro stato. L'incontro si focalizzerà quindi strettamente sulla costruzione e la riforma delle istituzioni palestinesi sotto la tutela di Tony Blair, il neoaccreditato inviato del Quartetto. Nei fatti tutte le passate iniziative di pace non sono approdate a nulla per un motivo che, né Bush, né l'Unione Europea, hanno avuto il coraggio politico di riconoscere. Il motivo è il consenso raggiunto tanto tempo fa dall'establishment israeliano sul fatto che Israele non consentirà mai la nascita di uno stato palestinese che ostacoli l'effettivo controllo militare ed economico israeliano nel West Bank. Certamente Israele consentirebbe - meglio, insisterebbe con - la creazione di un certo numero di enclavi isolate che i palestinesi potrebbero chiamare stato, ma solo al fine di prevenire la creazione di uno stato binazionale in cui i palestinesi avrebbero la maggioranza. Il processo di pace in Medioriente potrà ben essere l'inganno più spettacolare nella storia della diplomazia moderna, dal momento che al fallimentare summit di Camp David e nei fatti assai prima, l'interesse di Israele in un processo di pace - diverso da quello di ottenere il consenso palestinese ed internazionale al mantenimento dello status quo - è stato un copertura per la sistematica confisca di terra palestinese e per un'occupazione il cui scopo, secondo l'ex capo di stato maggiore Moshe Ya'alon, è quello di 'inserire profondamente nella coscienza dei palestinesi il fatto che essi sono un popolo sconfitto'. Nel suo riluttante abbracciare gli accordi di Oslo e nella sua avversione per i coloni, Yitzhak Rabin sarebbe potuto essere l'eccezione, ma anch'egli non considerava possibile una restituzione dei territori palestinesi oltre quanto previsto nel cosiddetto Piano Allon, che consentiva ad Israele di trattenere la Valle del Giordano ed altre parti del West Bank...». [Henry Siegman - The London Review of Books - Vol 29, dd. 16 agosto 2007]

Sarebbe incredibile se, nonostante il proliferare di piani, conferenze, processi e percorsi di pace, la soluzione della questione israelo (ebraico) palestinese - essenzialmente 'non complicata' secondo il diritto internazionale ed umanitario - non sortisse alcun risultato, senza una spiegazione altrettanto chiara e semplice, dettata dal rifiuto spontaneo o coatto di vedere l'iniquità di una situazione che il contributo degli agenti internazionali occidentali ha originato e non vuole riconoscere. Il prenderne atto non giustifica certo l'ignoranza e la sufficienza con cui gli stessi agenti colpevoli si accostano al problema (con la inutile e rassegnata levità di un ramoscello d'olivo o l'arroganza di chi confida nella propria posizione di forza e vede, sbagliando, la possibilità di sfruttare a tempo indefinito un 'vantaggio' che la storia insegna altro non può essere che contingente), ma suggerisce l'esistenza di un imprescindibile punto di partenza, negato o avversato da molti, soffocato da altri nella retorica, nell'insipienza, nella malafede. Come sempre accade, infatti, il 'pre-occuparsi' di un problema risulta un comodo alibi per non 'occuparsene', in attesa di tempi migliori che non arrivano mai o - nell'ambito specifico - dell'opportunità ormai codificata e recepita in ogni dirigenza israeliana, di raggranellare ancora un po' di vantaggio (terra, posizione, acqua) sulla pelle degli occupati e loro sodali.

Risulta pertanto insopportabile vedere come il peccato originale israeliano, costituito dalla violenta appropriazione di terra altrui con il peloso benestare di quella parte del vecchio continente che scelse di non essere assassina per rimanere colonizzatrice, possa essere perpetuato e coccolato solo grazie a due precondizioni di fatto: il supposto debito morale europeo sopravvalutato in progressione esponenziale; l'altrettanto enfatizzato e virtuale interesse degli USA nella regione. Qualcuno sostiene, inoltre, probabilmente a buona ragione, che questo interesse americano non esista (o non esista più) ma venga oggi spudoratamente concimato dall'azione indefessa della lobby filoisraeliana. E che questo ultimo pensiero colga nel segno è dimostrato dalla violenta (ma sempre più scomposta) 'reazione' dei potentati filosionisti USA e, per quanto di loro pertinenza, europei, nei confronti di chi abbia l'ardire di teorizzare che la quantità di cattiva coscienza israeliana nei territori occupati, sia direttamente proporzionale - cioè proceda di pari passo - da un lato con la proclamata, fasulla reviviscenza di fenomeni di nuovo antisemitismo, dall'altro con un rinnovato allarmismo circa la sopravvivenza stessa dello stato ebraico. Illustrando con semplicità questa situazione, Alexander Cockburn rammenta che «nei vent'anni passati ho imparato che c'è un modo rapido per determinare esattamente quanto si sta comportando male Israele, c'è un vivace incremento nel numero degli articoli che accusano la "sinistra" di antisemitismo».

Ai portavoce sempre più numerosi e autorevoli di doveroso rimprovero e critica della violenza israeliana nei territori occupati fanno infatti e non a caso da immediato contraltare, voci disposte ad abbracciare con grande strepito l'idea di un improbabile rigurgito di odio 'razziale', comodamente indirizzato, per l'occasione, verso il sacrosanto disgusto per un comportamento politico, sociale, militare, qualificato iniquo secondo ogni regola o convenzione. Vista la palese inopportunità di discorrerne nel mondo occidentale in anacronistici termini di razza, di costumi o di religione, la vecchia accusa di antisemitismo viene quindi abbastanza agevolmente accomodata verso chi critichi il comportamento dello stato ebraico. Il gioco è fatto, l'antisionismo diventa antisemitismo, Israele diventa, così, 'l'ebreo delle nazioni' e allo stesso modo può avvampare l'insopportabile, truffaldino allarmismo di chi vorrebbe individuare nelle critiche aspre ma legittime, la ratificazione o la connivenza con una minaccia esistenziale diversa da quella a cui proprio le operazioni dello staterello teppista e militarmente ipernutrito forniscono il detonatore.

Al nuovo percorso-truffa ideato dall'establishment filo-israeliano, con ciò intendendo comprendere sia la dirigenza USA, ricattata dalla Lobby e rafforzata dall'ignoranza, sia quella europea, ricattata dalla paura e da un anacronistico ed ormai male indirizzato senso di colpa, è quindi inutile rispondere con ulteriori teorie o criticare senza costrutto - come tuttavia viene spontaneo - l'insipiente prosopopea delle scadenti pedine nostrane sulla questione mediorientale, quanto utile è tornare ai fatti, i pochi fatti certi che il diritto con tutti i suoi limiti ci concede e la legittimità internazionale impone, e pretendere la doverosa considerazione di quanto rappresentato da pochi semplici numeri registrati alle Nazioni Unite: 181, 194, 242, 338. Non sono da giocare al lotto e si può dunque pretendere da coloro che parlano in nostro nome e non sempre degnamente ci rappresentano che abbiano almeno idea di cosa si tratti.

martedì, agosto 07, 2007

La guerra di Piero

Il 25 luglio scorso scrivevo che neppure Abu Mazen (Mahmoud Abbas) avrebbe avuto la faccia tosta di riproporre alla sua gente l'ennesimo "piano" annacquato di pace che - nelle parole stesse del primo ministro israeliano Olmert - non sembra scostarsi dallo sciagurato sentiero percorso a Oslo. Ebbene, mi sono sbagliato, ma non sulla risibile riedizione della proposta di pace degli occupanti e dei loro protettori d'occidente, bensì sul fatto che Abu Mazen si è aggrappato anche stavolta alle chiacchiere, le uniche suscettibili di mantenergli le terga saldamente ancorate alla poltrona collaborazionista ma personalmente tranquillizzante che tanta parte ha avuto nel tracollo di Arafat. Ma non è solo di Abu Mazen la pelosa condiscendenza alla barzelletta patrocinata da Bush & clienti.

Dopo la scenografica discesa in Medioriente di Tony Blair, che allo stato ha mostrato solo il manto al vento, il cavallo bianco e le parole vuote di un principe azzurro da operetta, ci tocca subire oggi le uscite domestiche e addomesticate di Piero Fassino, probabilmente più impegnato o istruito ad enfatizzare ad ogni piè sospinto il fatto che le sue parole sono lo specchio del pensiero dei suoi "vecchi amici israeliani" (mettendo in un unico improbabile calderone: Yossi Beilin, Shimon Peres e Ehud Barak) che a leggere quello che il suo "nuovo" amico Olmert ha dichiarato solo il 25 luglio scorso sui punti fermi israeliani di questa bufala, tipica, da fine mandato inglorioso di un presidente USA. Un presidente stavolta troppo stupido per lasciare stare i proclami e dedicare le sue ultime forze alle disinvolte attenzioni di una qualsiasi Lewinski.

Tant'è, il nostro Fassino nazionale si schiera contro ogni apertura ad Hamas (che incidentalmente gode dell'appoggio incondizionato di buona parte del popolo palestinese, che lo ha eletto), pasticcia con i fatti di Gaza e se ne esce con questa perla, suggeritagli - dice - dai suoi (vecchi e nuovi) amici Peres e Tzipi Livni: "mi hanno spiegato la filosofia che accompagna i preparativi della conferenza. Sostengono che il processo iniziato a Oslo nel 1993 sia fallito anche perché si era deciso di rinviare all'infinito i problemi più complicati. Sono almeno cinque: il futuro di Gerusalemme, i confini dello Stato palestinese, l'amministrazione delle risorse idriche, la questione dei profughi palestinesi e quella delle colonie ebraiche in Cisgiordania. Adesso invece verranno affrontati di petto sin da subito».

Ahia, Piero, forse tra amici non si sono parlati! E' ben diverso, infatti, quello che ha dichiarato una decina di giorni fa l'amico (nuovo) Ehud Olmert secondo Ha'aretz (è un noto quotidiano israeliano, Piero, talvolta da leggere): "La proposta di Olmert ad Abbas è basata sulla sua visione del fatto che è importante prima discutere questioni ove le due parti potrebbero concordare in modo relativamente facile". Ricorda niente? Tipo Oslo? Vabbè, così proseguono le dichiarazioni del PM israeliano secondo l'autorevole giornale israeliano: "Intendo creare una traccia che mi consentirà di intrattenere serie discussioni con Abu Mazen [...] dopo un "Accordo sui Principi", le due parti affronteranno le questioni diplomatiche più delicate, come i confini definitivi e gli accordi transitori [...] Nella visione del primo ministro, non è ancora tempo per trattare i dettagli precisi dell'accordo, perchè sarà molto difficile raggiungere un'intesa sullo status finale, come i confini, Gerusalemme e i rifugiati. Queste cose, Olmert propone, dovrebbero essere lasciate alla fine dei negoziati. Vorrebbe raggiungere un accordo sui principi e quindi procedere con le questioni più difficili".

Ma un assaggio del pensiero israeliano sulle questioni "difficili" lo abbiamo subito. Olmert ce lo propone in forma assolutamente chiara, parlando di "scambio di territori per compensare i grossi [sic] blocchi di insediamenti che rimarranno sotto controllo israeliano nel West Bank". E ancora: "I palestinesi potranno dichiarare [sic] Gerusalemme loro capitale", ma Ha'aretz sottolinea che "nel passato Olmert ha suggerito che sarebbe disponibile ad evacuare i sobborghi arabi "sul margine" di Gerusalemme Est, che non sono mai stati considerati parte della città storica".

Blocchi nel West Bank e Abu Dis... Ricordi niente Piero? Tipo che sia il caso di riprendere in mano un libro su Oslo, l'insuccesso e i suoi perchè, invece di ascoltare i suggerimenti degli amici? Ma prima che la frittata sia rifatta anche per merito tuo, per merito europeo, cioè nostro. Fermati Piero, fermati adesso, lascia che il vento ti passi un po' addosso... ♪

_________________________________________________
Per approfondire:
Meron Benvenisti - Beware of Oslo's destructive route
Mitchell Plitnick - Gaza: Can Disaster Be Avoided?
Nadia Hijab - How US Middle East Policy Continues to Undermine the “Moderates”
Ali Abunimah - Division among Palestinians
Ahmed Yousef - What Hamas wants
Carter calls western rejection of Hamas's election victory criminal act
PFLP: Bush and Olmert use Abbas's weakness to impose solutions

Noam Chomsky - Guillotining Gaza
Barak: Missile defense is precondition for pullout

giovedì, agosto 02, 2007

Palestine, please not apartheid

Apartheid, "separazione" in lingua afrikaans (origine o significativa assonanza con l'inglese apart-hood), era la politica ufficiale di segregazione razziale formalmente adottata dal governo bianco della Repubblica del Sudafrica nei confronti dei neri dal dopoguerra fino al 1990. Consisteva in discriminazioni sociali, politiche, legali ed economiche nei confronti dei neri e nella istituzione dei bantustan, enclave solo formalmente indipendenti dove confinarli. Le tracce del trascorso apartheid in Sudafrica sono venute meno con le elezioni del 1994. Nel 1973 l'apartheid - diventato termine comune - è stato proclamato crimine internazionale dall'ONU e nel 1976 la "International Convention on the Suppression and Punishment of the Crime of Apartheid" lo ha incluso nella lista dei crimini contro l'umanità.

Lo sfruttamento del debito morale dell'Occidente, scaturito dagli orrori della Shoah e gravato di interessi in progressione esponenziale in favore dello Stato di Israele, ma soprattutto una guerra mediatica surrettizia e senza esclusione di colpi e molta disinvolta ignoranza hanno consentito la perpetuazione di una situazione di apartheid nei Territori palestinesi occupati. Finora. La connivente indifferenza politica della vecchia Europa, il sostegno degli USA e dei suoi clienti (la cui collaborazione e il cui voto in sede ONU può essere agevolmente comprato a vario titolo ad opera dell'amico americano) non sono infatti più sufficienti a mantenere una benda sugli occhi del mondo, né oggi un bavaglio capace di limitare l'enorme potere della comunicazione immediata e documentata su scala globale. In particolare è stato lapidariamente affermato che la generale percezione del conflitto israelo palestinese - soprattutto negli USA ma in minor misura anche in Europa - è filtrato da una rete di spudorata disinformazione che, grazie al mainstream mediatico e - aggiungerei - a mala fede e molta superficiale nonchalance, diffonde miti martellanti come se fossero realtà e annichilisce il dibattito. Nulla di nuovo, quindi, e non ci sarebbe bisogno di scomodare autorevoli rapporti ed analisi per sostenere che la questione è stata tollerata o sfruttata a livello politico o strategico internazionale ed indotta ad essere ignorata o fraintesa fino ai giorni nostri a livello popolare. Un gioco che funziona ma, appunto, se non se ne parla troppo.

Gli è che ormai se ne parla. In un dossier dell’Onu datato 29 gennaio 2007 il funzionario sudafricano John Dugard, pur con la levità di una farfalla, osa scrivere che «è difficile evitare la conclusione che molte delle leggi e delle prassi d’Israele violano, soprattutto nella limitazione dei movimenti dei palestinesi, la convenzione internazionale del 1973 per la soppressione e la punizione del crimine dell'apartheid… Le demolizioni di case in Cisgiordania e a Gerusalemme est vengono attuate in un modo che discrimina contro i palestinesi… Nell’intera Cisgiordania, e in particolare a Hebron, ai coloni è concesso trattamento preferenziale sui palestinesi per quel che riguarda il movimento (le strade principali sono riservate ai coloni), i diritti di costruzione, la protezione dell’esercito e le leggi per la riunificazione familiare». [L'Unità]

Il mantenimento di questa situazione risulta poi, oltre che assolutamente riprovevole sotto il profilo umanitario, sociale e morale, naturalmente destinato a fallire nei fatti (*). Solo mantenendo una situazione palesemente iniqua, autorizzata dal silenzio dell'Occidente e favorita dallo spudorato sostegno USA, lo stato di Israele può difendere una "identità sociale" che il galoppante squilibrio demografico non consente e che non sarebbe consentita - politicamente - ad alcun altro paese membro della comunità internazionale che fosse intento ad una strisciante operazione di espansione e pulizia etnica su suolo occupato.

Un'operazione che è stata finora possibile, come si è detto, purchè non se ne parli troppo. Purchè il problema, cioè, non si diffonda sino al livello del comune sentire globale. Quello che ha a suo tempo costretto tutta la comunità internazionale ad isolare il Sudafrica. Per questo, dell'ultimo libro dell'ex presidente americano Carter, il tam tam mediatico filo israeliano ha aggredito più che la "tiepida" descrizione di una situazione arcinota, l'autore e il titolo, autorevole il primo, diretto e illuminante l'ultimo: "Palestine, peace not apartheid". Una definizione e un autore in grado di nuocere alla patologia sionista più di mille analisi per gli addetti ai lavori. E ciò nonostante il fatto, arcinoto, che - come ha dichiarato Yossi Beilin - «quello che Carter dice nel suo libro sull'occupazione israeliana e sul trattamento che riserviamo ai palestinesi nei territori occupati - e forse non meno importante il modo in cui lo dice - è interamente in armonia con il tipo di critica che gli stessi israeliani usano riguardo il loro stesso paese. Non c'è nulla nella critica di Carter nei confronti di Israele che non sia stato detto dagli stessi israeliani». [Yossi Beilin, The Jewish Daily Forward, 19 gennaio 2007]

________________________________________________________
(*) «...E' possibile che in futuro il tasso delle nascite da donne musulmane scenda al livello di altri settori sociali in Israele, ma per quel momento ci potrebbe essere un cambiamento sostanziale nel "peso" della popolazione musulmana, che crei una reale minaccia demografica al carattere dello Stato [...] L'emendamento alla Legge sulla Cittadinanza, che ha negato lo stato di residente e cittadino alle mogli palestinesi di cittadini israeliani, non è "carino" ed è materia di preoccupazione per i difensori dei diritti civili. Ma considerando la minaccia demografica, i diritti civili e le considerazioni liberali devono essere sospesi nello sforzo di agire secondo le regole: gli ebrei hanno il diritto di sposarsi e di sistemarsi nella loro terra, gli arabi hanno diritto di sposarsi e di sistemarsi in una terra che rappresenti la loro identità nazionale. Anche gli stati occidentali che propugnano il liberalismo e i diritti civili, sono stati costretti ad arrendersi alla minaccia demografica e ad imporre limiti all'ingresso di cittadini stranieri». ["Lo spaventapasseri demografico" di Avraham Tal - Haaretz]

lunedì, luglio 30, 2007

Moshe Dayan, pentimento dalla tomba

«Nel 1976, il generale e uomo politico Moshe Dayan si trovava nel marasma politico. La sua posizione era notevolmente sbiadita per gli abbagli presi nella preparazione della guerra dello Yom Kippur dell'ottobre 1973. Dayan sperava in una sorta di rientro politico e per questo proibì espressamente al giornalista Rami Tal, suo amico personale, di pubblicare i risultati di una lunga serie di interviste a lui rilasciate. Tal ha ricevuto di recente il permesso dalla figlia di Dayan, Yael, di pubblicare quel materiale. La prima intervista ebbe luogo il 22 novembre 1976». Uno stralcio dal sito israeliano haGalil onLine [La traduzione dall'ebraico è di Reuven Kaminer, dall'inglese è mia - link non più funzionante].

«Rapacità, semplice rapacità! DAYAN: ...Ma quello che volevo dire era che in due casi io non compii i miei doveri come Ministro della Difesa perchè non prevenni cose che ero certo dovessero essere fermate. Il primo episodio fu nel quarto giorno della Guerra dei Sei Giorni, quando una delegazione dei kibbutzim si incontrò con Eshkol per convincerlo ad iniziare una guerra contro la Siria. Li aveva mandati Dado [il generale David Elazar], che era il comandante del distretto nord ed aveva paura di essere lasciato fuori dalla guerra, così spedì i membri del kibbutzim. Quelli arrivarno ed inscenarono uno grande spettacolo per Eshkol: "Che succede? Ci stai abbandonando? Vuoi che i siriani restino indisturbati?" Robaccia di questo tipo. TAL: E tu dici che questo era superfluo? DAYAN: Era più che superfluo. Vedi, tu puoi dire cose come "i siriani sono dei furfanti, dovrebbero essere sistemati ed è questo il momento" e cose del genere, ma questa non è politica. Tu non sistemi il nemico perchè è un furfante, ma perchè ti minaccia. E i siriani, al quarto giorno di guerra, non erano una minaccia per noi. TAL: Ma si erano sistemati sulle Colline del Golan e... DAYAN: Lascia stare. So come sono iniziati almeno l'80% degli incidenti laggiù. Secondo me più dell'80%, ma diciamo l'80%. Succedeva così: mandavamo un trattore ad arare in qualche posto di nessun interesse, nella zona demilitarizzata, sapendo in anticipo che i siriani avrebbero iniziato a sparare. Se non cominciavano a sparare, avremmo detto al trattore di andare più avanti, fino a che i siriani non avessero iniziato ad innervosirsi e cominciato a sparare. Allora noi avremmo iniziato a fare fuoco con l'artiglieria e più tardi anche con l'aviazione, questo era il sistema. Lo misi in atto, e lo stesso fecero Laskov e Tzur [due precedenti comandanti in capo]. Lo applicò Yitzhak Rabin quando era lì (come comandante del distretto nord agli inizi degli anni sessanta), ma mi sembra che fosse Dado [David Elazar] più di chiunque altro a divertirsi con questi giochetti». TAL: Sono piuttosto stupito per quello che dici, ma perchè succedeva? [Dayan premette alla sua risposta un'analisi degli accordi di armistizio ed aggiunge] DAYAN: Cosa voglio dire con questo? Che allora pensammo - e il fatto continuò per un bel po' di tempo - che potevamo mutare le linee degli accordi di armistizio con azioni militari che erano qualcosa meno della guerra. Cioè, rubando un po' di terra e penzolando lì intorno finché il nemico non fosse sparito lasciandocela. Può essere assolutamente detto che questo sistema fosse in qualche modo ingenuo da parte nostra, ma devi ricordare che non avevamo l'esperienza di uno Stato...».

sabato, luglio 28, 2007

Caso Cipriani, il diritto e il rovescio

Il "famoso" decreto di estradizione nei confronti di Benedetto Cipriani in data 12 novembre 2005, opera dell'Ing. Castelli, è introvabile. Dal sommario della Gazzetta Ufficiale, a far tempo dal 12 novembre di quell'anno a tutto il 30 aprile 2006, semplicemente non si trova. O almeno io non lo trovo. Nel frattempo è valsa vale la pena di leggere la risposta di Mastella all'interrogazione di D'Elia circa l'esecuzione di quel provvedimento. Un piccolo capolavoro. Il ministro principia rammentando proprio le parole che la Corte Costituzionale (chiaramente, con la sentenza 223 del 1996) non avrebbe voluto più sentire ("Nel decreto è specificato che, se il Cipriani sarà condannato, nei suoi confronti non potrà essere irrogata e comunque eseguita la pena capitale"). E' evidente che, elidendo il secondo comma dell'art. 698 del codice di procedura penale (che parlava delle "assicurazioni" dello stato richiedente), la Corte ha inteso togliere dal mondo del diritto italiano la possibilità di considerare le "garanzie" in qualsiasi modo offerte all'estero. All'osservazione iniziale - che ha quindi, nel caso, il pregio di una chiacchiera da bar - sempre Mastella fa seguito sulla stessa falsariga ("Il governo degli Stati Uniti ha formalmente comunicato con nota verbale di aver accettato integralmente la condizione prevista dal decreto di estradizione" ecc. ecc.). Dopodiché il ministro passa a fare un po' di confusione tra fatti e reati ("...La sentenza, infatti, contempla l'ipotesi in cui la domanda di estradizione sia avanzata per un reato punibile con la pena capitale", "Nel caso del Cipriani, invece, l'estradizione fu domandata e concessa per un reato che, secondo l'ordinamento ..."). Infatti la norma di cui all'art. 698 cpp, nella parte dichiarata incostituzionale, non parlava di un "reato" punibile con la pena di morte, ma di un "fatto per il quale è prevista la pena di morte". La questione è piuttosto chiara, elidendo il secondo comma dell'art. 698 cpp, la Corte Costituzionale ha automaticamente tolto ogni margine di discrezionalità in relazione alla costruzione (ondivaga) del capo di imputazione, che è cosa ben diversa dal fatto (in se stesso). E per quel "fatto" - appunto - negli USA è prevista la pena di morte quand'anche la Procura e lo Stato del Connecticut abbiano deciso di contestare un reato che non la preveda, al solo scopo di ottenere l'estradizione, "assicurando" poi che il titolo del reato non potrà essere mutato (proprio come richiesto - sembra - nel decreto di Castelli all'alba del novembre 2005). Alla discrezionalità del nostro ministro abbiamo sostituito quella americana. Complimenti! Siamo in ogni caso ben lungi da quei principi assoluti che la Corte Costituzionale ha inserito nel corpo della sentenza 223/96 e in ispecie con il principio (disatteso - a mio parere - anche dal Consiglio di Stato), per cui: "..il divieto contenuto nell'art. 27, quarto comma, della Costituzione, e i valori ad esso sottostanti - primo fra tutti il bene essenziale della vita - impongono una garanzia assoluta. Non hanno fondamento i dubbi della parte privata sulla sussistenza di rimedi giudiziari nell'ordinamento statunitense a tutela della vincolatività dei trattati internazionali stipulati dal governo federale" [...] "L'assolutezza del principio costituzionale richiamato viene infirmata dalla presenza di una norma che demanda a valutazioni discrezionali, caso per caso, il giudizio di affidabilità e di effettività delle garanzie accordate dal Paese richiedente". E' solo il caso di aggiungere che, per converso e contrariamente a quello che sembra il lampante insegnamento della Corte, nella motivazione della sentenza il Consiglio di Stato ha stabilito che - nel caso - "La garanzia non deriva, in definitiva, dalle assicurazioni fornite dal Dipartimento della Giustizia statunitense ma dal sistema delle fonti normative applicabili in quel Paese dal Giudice penale". Di nuovo, si sostituisce alla discrezionalità del ministro, in Italia, quella del giudice (o del sistema) del paese in cui uno come Bush ha dato ingresso al Patriot Act!!

Da Anna, la compagna di Benedetto Cipriani, 28 luglio 2007: «Mi è giunta stamattina una lettera dagli USA.Finalmente ho notizie di Ben. Nuove non di certo completamente buone. Voglio riportare un sunto riguardo le vicende giuridiche. La giustizia americana non vuole che Ben torni in Italia per scontare la pena dato che non ha alcun accordo riguardo il rimpatrio da rispettare con il ministro Mastella. Qui ritiriamo in ballo il famoso decreto di cui nulla si sa,a cui non ci è dato accedere chissà perchè. Ribadisce Ben, a tal punto, che nemmeno il suo avvocato è a conoscenza del suddetto, per il momento. Già li si parla (e questo è un altro punto a favore della tesi di verdetto già emesso) di una condanna a 180 anni. Riguardo ancora il decreto, in esso dovrebbe essere specificato che a ben non sia inflitta la penna di morte avrebbe dovuto rispettare l'accordo di non mutare il capo d'accusa in modo da poter applicare la pena di morte, chi ci dice che questo non verrà fatto? Ho letto un Ben molto provato. Vogliamo ridargli un pò di fiducia,trasmettergli la nostra vicinanza e solidarietà di italiani cittadini dell'Italia e non di una "italietta" pronta a piegarsi davanti alle stelle e strisce? Scrivete a Benedetto, di seguito allego il suo recapito. Ringrazio e chiedo ancora scusa per gli errori, dovuti principalmente alla preoccupazione ed all'emozione: Ben Cipriani - IM 351906 - MacDougall/Walker Correctional Institution - 1153 East St. - South Suffield - 06080 - CT - USA

Ciao Anna, vedo cosa posso fare per diffondere il tuo appello. Intanto ti rispondo. Mastella (nella risposta a D'Elia) riempie il suo discorso di una "assolutezza" che la Corte Costituzionale ha escluso essere sufficiente. Dice il ministro: "Il governo degli Stati Uniti ...ha formalmente comunicato, con nota verbale del 27 giugno scorso, di aver accettato integralmente la condizione prevista nel decreto di estradizione che esclude la pena di morte" - e aggiunge in seguito - "Tale assolutezza trova del resto inequivoca conferma nell'ulteriore impegno, pure assunto formalmente dagli Stati Uniti con la stessa nota verbale, di consentire al Cipriani, in caso di condanna e su sua richiesta, di scontare parte della pena in Italia". Il Consiglio di Stato ha parimenti giustificato la propria decisione statuendo che "il reato per cui è accusato Benedetto Cipriani non prevede la pena capitale e i fatti per i quali l'estradizione è stata richiesta dagli USA non possono essere ivi riqualificati come elementi costitutivi di un reato punibile con la pena capitale, pena la violazione di una norma pattizia speciale e imperativa, recepita nell'ordinamento dello Stato richiedente". Questo significa, in soldoni, che gli USA si sono impegnati (pattiziamente, nel trattato Italia - USA) a non riqualificare il fatto con altro che preveda la pena di morte.Per quanto in concreto una decisione di segno diverso provocherebbe un incidente diplomatico e una bufera politica, questa garanzia non è ritenuta sufficiente dalla Corte Costituzionale, che, come ho già scritto, ha sentenziato che: "...non hanno fondamento i dubbi della parte privata sulla sussistenza di rimedi giudiziari nell'ordinamento statunitense a tutela della vincolatività dei trattati internazionali stipulati dal governo federale". In altre parole, la Corte Costituzionale non ritiene in generale sufficienti a garantire il principio assoluto di esclusione della pena di morte per un estradato, i rimedi eventualmente destinati a far rispettare il trattato stipulato fra Italia e USA nei singoli Stati dell'unione. Mi chiedo poi che significato e che valore possa avere l'impegno a far scontare "parte" della pena in Italia, ma senza leggere il decreto (e forse anche leggendolo) sembrano solo parole.

mercoledì, luglio 25, 2007

Proposta Olmert, uno scadente deja vu

"Il premier israeliano Ehud Olmert tende la mano al presidente dell'Anp Abu Mazen. Secondo il quotidiano dello Stato ebraico 'Haaretz', Olmert avrebbe offerto ad Abu Mazen un "accordo di principio" sulle caratteristiche del futuro Stato palestinese e sui legami con Israele da discutere fin da ora", così se ne esce il Corriere della Sera (Agr) all'alba del 25 luglio 2007. E quelle parole, "tende la mano", lasciano uno strato di unto metaforico che nessun pragmatico solvente riesce altrettanto metaforicamente a mitigare. Ma passiamo al merito di questa mano tesa.
Evidentemente per il premier israeliano Olmert il tempo si è fermato all'estate del 2000 e con fenomenale improntitudine tenta di ricondurre un capintesta palestinese oggi largamente delegittimato, il presidente Mahmoud Abbas, per le vie del totale insuccesso già percorse dal - pur sempre da molti compianto - padre-padrone Arafat.
Dopo aver letto le linee generali della proposta come riportate in un articolo apparso oggi su Haaretz, qualsiasi negoziatore palestinese degno di questo nome non potrebbe che alzarsi dal tavolo e salutare chiedendo - se del caso - chi sia l'artefice di questa buffonata a mezza strada tra il deja vu e l'incubo.
Dopo il disastro di Oslo, delle "dichiarazioni di principi" e loro corollari, delle fasulle offerte orali (con trucco) di Barak, la cui "generosità" viene tuttora pagata dalla gente (quella normale, quella che pensa a vivere o sopravvivere ed allevare i figli) di Palestina e Israele, leggiamo che il "Prime Minister Ehud Olmert is offering to hold negotiations toward an "Agreement of Principles" for the establishment of a Palestinian state on most of the territory of the West Bank and the Gaza Strip". In pratica un nuovo accordo a priori "sui principi", necessitato dal fatto che - testuali parole - "sarà molto difficile raggiungere un accordo sulle questioni relative allo status finale, quali i confini, Gerusalemme e i rifugiati" (e non parliamo per pudore degli insediamenti). Il resto a seguire, se e quando, sui punti che misero anche Arafat nell'impossibilità di elemosinare oltre.
Nelle piacevolezze della proposta, qui solo due esempi, si ripropone il medesimo vecchio escamotage di derivazione Beilin-Abu Mazen del 95, su tutti i punti poi ripresi a Camp David e, con qualche piccola eccezione, a Taba. Così è per Gerusalemme (non è uno scherzo! "The Palestinians will be able to declare Jerusalem their capital. In the past Olmert has hinted that he would be willing to withdraw from the Arab neighborhoods of East Jerusalem "on the edge," which have never been considered part of the historical city") laddove si tenta nuovamente di confinare la capitale palestinese al villaggio periferico di Abu Dis. E così è per gli insediamenti che permarrebbero - con tutto il contorno di esercito israeliano - nel cuore del West Bank ("large settlement blocs that will remain under Israeli control in the West Bank"), con il miraggio di improbabili compensazioni, che non pongono certo rimedio alla parcellizzazione del territorio del West Bank.
Il resto è sulla medesima falsariga ed ha il medesimo significato - il governo israeliano non persegue alcun concreto disegno di pace - e uno scopo in più: tentare in extremis la via della soluzione a due stati, ormai approdata alla fase enfisematoso colliquativa del cadavere.
Si spera, ma è forse una vana speranza, che non segua, ora, da parte europea, il coro dei più ingenui e dei più in malafede che non mancheranno di apprezzare o di spacciare questa indecorosa commediola quale segno di apertura e di buona volontà.
Si tratta in effetti di un muro ed è tanto alto e massiccio che neppure Mahmoud Abbas avrà la faccia tosta di riproporre alla sua gente questo reiterato tentativo di "pax romana", nemmeno a quella piccola quota che ritiene obtorto collo questione di sopravvivenza collaborare alla gestione della propria prigione a cielo aperto piuttosto che soccombere alla fame e - per un altro mezzo secolo - alla violenza e alle umiliazioni sotto un regime di apartheid.

martedì, luglio 24, 2007

Benedetto Cipriani, costruzioni o ricostruzioni

Oggi un giudice del Connecticut è chiamato a decidere se ci sono prove sufficienti per sostenere l'accusa in giudizio contro il nostro connazionale. Può essere utile un breve racconto della vicenda secondo la stampa americana (in particolare v. Journal Inquirer).

Benedetto Cipriani avrebbe assoldato Jose Guzman (26 anni, di Orlando), Erik Martinez (24 anni, di Hartford) e il cugino di Martinez, Michael Castillo (23 anni, di East Hartford), per uccidere Robert (Bobby) Stears, marito di una donna - Shelly - con cui aveva dal luglio 2001 - o aveva avuto, secondo lo stesso Cipriani - una relazione. Le autorità del Connecticut sostengono che Cipriani avrebbe deciso di uccidere Bobby Stears, 42 anni, dopo che Shelley si era rifiutata di lasciare il marito. Jose Guzman, uno dei tre sicari (che avrebbe materialmente esploso i colpi mortali contro Stears, il suo socio d'affari, Barry, e un loro impiegato, Lorne Stevens), si è dichiarato colpevole ed ha ammesso di aver colpito a morte i tre uomini dopo aver accettato di compiere l'omicidio su commissione per conto di Cipriani. Secondo le autorità di polizia anche Martinez avrebbe indicato Benedetto Cipriani quale leader del complotto.Barry Rossi (43) e Lorne Stevens (38), erano nello stesso garage B&B, gestito da Stears e Rossi, nel pomeriggio di venerdì 30 luglio 2003, quando, intorno alle 17.15, Jose Guzman - uno dei presunti killer - avrebbe affrontato Stears mentre questi stava lasciando il negozio, strattonandolo giù dal suo mezzo e riportandolo a forza nel garage. Una volta entrati, Guzman avrebbe ordinato ai tre sotto minaccia di un'arma di stendersi a faccia in giù. La polizia dice che ad ognuno dei tre uomini è stato poi sparato un colpo in testa. Successivamente un uomo che si era recato al garage per ritirare l'auto della moglie ha trovato i tre uomini agonizzanti e ha chiamato la polizia. La polizia sostiene che inizialmente Cipriani è stato rintracciato tramite le dichiarazioni di un uomo d'affari dei dintorni.
Questi avrebbe riferito che circa due settimane prima degli omicidi aveva visto per due volte un'auto con targa di New York parcheggiata fuori dal garage. Lo stesso testimone ha dichiarato di aver parlato, la seconda volta, con il conducente - la polizia dice che era Cipriani - e di aver preso nota della targa dell'auto. Quella stessa notte la polizia, ha interrogato Shelly Stears, che ha dichiarato di avere avuto una relazione con Cipriani. Questi - secondo la Stears - si era arrabbiato, circa un anno prima, perchè l'amante aveva rotto la relazione e voleva sistemare il prorio matrimonio. Ma la stessa Stears ha detto alla polizia di aver poi ripreso il rapporto con Cipriani e che quest'ultimo le aveva comprato dei regali.Il giorno degli assassini, sempre secondo la polizia, Shelly Stears avrebbe dichiarato di aver parlato con Cipriani intorno alle 16, circa un'ora prima degli omicidi e che Cipriani le disse che stava lasciando il suo lavoro a New York. Shelly Stears ha detto che Cipriani la chiamò poi altre due volte quel giorno e nel corso di una di queste conversazioni, intorno alle 18.15, le avrebbe chiesto dove fosse il marito. Il giorno dopo gli omicidi, la polizia di stato si recò presso la casa di Cipriani a Meriden, dove lo stesso confermò di avere avuto una relazione con Shelly Stears. Secondo la polizia egli disse che sapeva dell'autorimessa B&B da Shelly Stears, ma di non esserci mai stato, in apparente contraddizione con quanto un testimone (v. sopra) aveva dichiarato alle autorità. Secondo il rapporto della polizia Cipriani si sarebbe dimostrato inizialmente collaborativo, ma ad un certo punto avrebbe rifiutato di discutere le indagini. Il 7 agosto 2003, cioè una settimana dopo, nel giorno del suo compleanno, Benedetto Cipriani sarebbe infine volato in Italia.

Guzman, Castillo e Martinez sono stati arrestati solo nel dicembre 2003, dopo che un parente di Martinez avrebbe dichiarato alla polizia di aver dato un passaggio ai tre uomini, uno o due giorni dopo gli omicidi, fino ad uno supermercato di Wallingford per prendere dei soldi (5000 dollari). L'uomo avrebbe detto di aver chiesto loro in quell'occasione il motivo per cui avevano ricevuto quel danaro e che allora Martinez gli disse che Guzman aveva sparato a Stears, Rossi e Stevens. E' da sottolineare che, secondo la NBC (articolo del 18 dicembre 2003), proprio questo parente di Martinez avrebbe consentito alla polizia una svolta nelle indagini, rilasciando le proprie dichiarazioni dopo un arresto casuale per motivi di droga.
La madre di Martinez avrebbe inoltre incontrato Cipriani e la polizia afferma che così quest'ultimo avrebbe ingaggiato gli uomini per compiere gli omicidi. La sorella di Shelly Stears, Laurie Romaneck, avrebbe poi dichiarato alla polizia che la sorella le aveva riferito di essere spaventata da Cipriani e che questi una volta le aveva detto di volerle "portare via tutto quello che le era caro". Sempre secondo la Romaneck, Cipriani avrebbe pure minacciato Shelly di "andare al negozio e ammazzarli tutti". Per parte sua Shelly Stears ha dichiarato alle autorità di non aver mai discusso con Cipriani l'ipotesi di far del male o uccidere il marito. Gli investigatori dicono di aver trovato infine un legame tra il presunto mandante e i tre sicari esaminando le registrazioni telefoniche ottenute in base a un mandato.

Questa è - ripetiamo - la campana, in più punti inconsistente, della polizia e del procuratore di Hartford (USA).

Due dei presunti sicari hanno tuttavia accettato un accordo, confessando il loro ruolo negli omicidi e il terzo sta aspettando il processo. L'uomo che ha sparato, Jose Guzman, passerà la vita in prigione senza possibilità di rilascio, mentre Erik K. Martinez, che avrebbe acquistato l'arma, si è accordato per una condanna alla reclusione per un periodo tra i 25 e i 40 anni di prigione. E' sintomatico che, come parte dell'accordo, i due uomini testimonieranno contro Cipriani. La selezione dei giurati per il processo a Michael Castillo, l'uomo che secondo la polizia avrebbe trasportato Guzman al luogo dell'omicidio, dovrebbe invece iniziare questa settimana.

Risponde il 25 luglio su questo blog, Anna, la compagna di Benedetto Cipriani, con alcuni doverosi e significativi chiarimenti.

«Salve,sono Anna... Ho appena letto ed intendo ribadire che più di ricostruzione si tratta di costruzione.
Per ovvi motivi ritengo infatti che tutto quella che è stato scritto sia solo una comoda storia per cercare di dare un nome al mandante. Il giornale omette di riportare che tabulati telefonici richiesti dagli avvocati di Ben non collimano con quelli fatti pervenire dalle autorità statunitensi.
Che la signora Stears,unitamente alla signora Rossi (insospettabili?) sono le uniche che hanno beneficiato di una assicurazione sulla vita, guardacaso sottoscritta con particolari condizioni (ad hoc, nel caso specifico) e che per via di questa sono giunte notoriamente ai ferri corti.
Che la suddetta era stata alle dipendenze del marito nel B&B e da questi licenziata.
Che il marito della signora aveva un tenore di vita di gran lunga superiore a quello derivante dai proventi di una autofficina.
Che,- de relato - la signora non era nuova ad amicizie extraconiugali, quindi non solo con il Cipriani, per cui potrebbe in astratto essersi rivolta a qualcun altro per sbarazzarsi del marito (e anche dell'amante dato il caso) inopportuno e così godere del premio di assicurazione.
Come mai la signora, definita dai giornali locali esclusivamente come responsabile morale del delitto, non è stata mai sentita, in altra veste, dalle autorità d'oltreoceano?
Altra cosa abbastanza strana (o di prassi negli States?) il fatto che a Ben sia stata già sequestrata e poi venduta la sua casa per indennizzare gli eredi delle vittime.
Ma negli States non si è innocenti,come in Italia,fino a quando non ci sia stato un verdetto,sino al terzo grado di giudizio,al di sopra di ogni ragionevole dubbio?
Allora il processo è già scritto e con esso l'esito,di colpevolezza naturalmente.
Perchè considerare il delitto di stampo passionale ed abbandonare altre piste?
Forse perchè è la soluzione più facile comoda e spicciativa?
Forse perchè nella terra di libertà non si bada tanto ad avere IL colpevole ma UN colpevole?
Per me, per tutti noi Ben rimane innocente sin quando una giuria (siamo negli STATES) non lo riterrà colpevole. Ma il processo e la giuria saranno incondizionati ed incondizionabili? Il dubbio è forte e presente, visto i precedenti. E chi vigilerà?
Resta il fatto per ora che non riusciamo a capire come mai da Ben non ci giunga alcuna notizia. Che gli sia vietato o impedito? Non possiamo pensare che Ben di sua spontanea volontà non sia ricorso alla posta per darci sue notizie. Ci domandiamo delle sue condizioni fisiche, se ha bisogno di denaro per provvedere alle sue necessità.
Se il consolato italiano si è interessato a lui e se lo tutela adeguatamente.
Da parte delle autorità italiane tutto tace, impegnate come sono a cercare di risolvere o, finire di complicare, tutt'altri pasticci.
A mo' di Pilato l'Italia si è lavata le mani?
Chi e come controllerà che i patti tra il nostro stato e quello americano, che hanno consentito l'estradizione, vengano rispettati? E se no, in che modo Ben sarà tutelato?
Ben nota è la sudditanza che cert'uni italiani hanno nei confronti degli USA, a tal punto che la moglie di Calipari non potrà mai guardare negli occhi,in una aula di giustizia, l'assassino di suo marito,in quanto cittadino americano e come tale altamente tutelato dal governo. Altro esempio, il caro ministro, che in barba alla moratoria sulla pena di morte, dimentico delle scappatoie legali ricorse dagli americani, rammaricato dai diverbi diplomatici che sarebbero potuti sorgere, ha conccesso, subitaneamente l'estradizione. E visto che era combattutto tra l'idea di dimettersi e quella di restare (la più votata) voleva forse essere ricordato come il "giustoestradatore".
A tal proposito mi chiedo se sia il caso di ritirare, per non creare ulteriori questioni diplomatiche, dalla nostra TV la pubblicità di un noto caffè che paragonando il nostro a quello americano definisce quest'ultimo acqua!
NOBLESSE OBBLIGE!»
Anna

lunedì, luglio 23, 2007

Abunimah: "Superare il complotto contro la Palestina"

[Quanto segue è - quasi per intero - un significativo articolo di Ali Abunimah, pubblicato su Electronic Intifada del 18 luglio 2007]

"Siate certi che gli ultimi giorni di Yasser Arafat sono contati, ma consentiteci di finirlo a nostro modo, non a vostro modo. E siate pure sicuri che ...darò la mia vita per mantenere le promesse che ho fatto davanti al presidente Bush". Queste parole sono state scritte da Mohammed Dahlan - il signore della guerra le cui forze, appoggiate dagli USA e da Israele, sono state scacciate da Hamas nella Striscia di Gaza il mese scorso - in una lettera del 13 luglio 2003 all'allora ministro della difesa israeliano Shaul Mofaz e pubblicate sul sito di Hamas il 4 luglio di quest'anno.
Dahlan che nonostante il suo fallimento nel mantenere il controllo di Gaza rimane un autorevole consulente del presidente dell'ANP, Mahmoud Abbas, delinea il complotto per deporre Arafat, per distruggere le istituzioni palestinesi e rimpiazzarle con una leadership collaborazionista asservita a Israele.
Dahlan scrive della sua paura che Arafat voglia riunire il consiglio legislativo palestinese e chiedere di ritirare la fiducia all'allora primo ministro Mahmoud Abbas, che era stato nominato in precedenza, nel 2003, su insistenza di Bush, per limitare l'influenza di Arafat. Dahlan ha scritto che per prevenirlo era necessaria "coordinazione e collaborazione da parte di tutti", così come "sottoporre [Arafat] a pressione in modo che non possa fare questo passo". Dahlan rivela che "abbiamo già iniziato i tentativi di polarizzare il punto di vista di molti membri del consiglio legislativo con l'intimidazione e la corruzione, in modo che siano dalla nostra parte e non dalla sua [di Arafat]".
Questa lettera è un piccolo ma vivido elemento di prova da aggiungere alla esistente montagna di cospirazioni in cui la leadership di Abbas è coinvolta. In questo mese, da quando Abbas ha accreditato un "governo di emergenza" condotto da Salam Fayad, in stile Vichy, i capi storici di Fatah hanno manifestato la loro opposizione alle operazioni di Abbas, specificamente respingendo il suo ordine che i combattenti della resistenza palestinese vengano disarmati mentre l'occupazione israeliana procede indisturbata.
Ciò evidenzia che lo strappo tra i palestinesi non è oggi tra Hamas e Fatah, né tra "estremisti" e "moderati", o "islamisti" e "laici", ma tra la minoranza che ha affidato le propria fortuna alla collaborazione con il nemico, da una parte, e quelli che sostengono il diritto e il dovere di resistere, dall'altra.
I leader israeliani sono, per lo meno, di una chiarezza cristallina su quello che si aspettano dai loro servitori palestinesi. Così Ephraim Sneh, fino a tempi recenti vice ministro della difesa, esprime il consenso dell'establishment isreliano: "La missione più urgente e importante per Israele oggi è prevenire il fatto che Hamas prenda il controllo del West Bank. E' possibile farlo indebolendo Hamas attraverso tangibili progressi diplomatici, aiutando l'effettivo ed efficace funzionamento del governo del primo ministro palestinese Salam Fayad, creando le condizioni per un totale fallimento del regime di Hamas nella Striscia di Gaza" ("Come fermare Hamas", Haaretz, 17 luglio 2007) [...]

Dalla firma degli accordi di Oslo, Israele ha fatto tutto ciò che ha potuto per minare le prospettive di una sovranità statale palestinese, azzoppando significativamente l'Autorità Nazionale Palestinese. Che c'è dietro la decisione israliana di sostenere la leadership collaborazionista di Abbas? Perchè semplicemente non lasciare che collassi e dichiarare la vittoria?
I leader israliani sanno che mantenere il supporto ad uno "stato ebraico" etnico dipende dal nascondere la realtà che gli ebrei non costituiscono più la maggioranza della popolazione in Israele, West Bank e Striscia di Gaza, il territorio controllato dallo stato israeliano. Israele necessita della foglia di fico di una sovranità palestinese per togliere milioni di persone dai suoi registri, allo stesso modo in cui il Sud Africa dell'apartheid cercò di stendere la coperta delle "terre nere indipendenti" - Bantustans - per prolungare il controllo da parte dei bianchi e dargli una patina di legittimità. Se l'Autorità Palesinese collassa, Fatah, che non ha base poplare, collasserà con essa.
Quanto ad Hamas, esso sta ad un incrocio. Può sopravvivere al collasso dell'Autorità Palestinese ma che cosa diventerà? E' sorto da un segmento povero della socieà palestinese, da masse mobilitate con la religione, eppure porta un consenso assai più ampio per la sua resistenza contro Israele da parte dei palestinesi resi orfani dai loro leader voltagabbana ed affamati di una alternativa di principio. Hamas ha l'opportunità di articolare un'agenda che sia all'altezza delle aspirazioni della società palestinese in tutti i suoi aspetti, o può cascare nella trappola che gli viene preparata. [...]

Hamas si sta predisponendo ad accettare una soluzione a due stati proprio ora che la realtà del fatto che questa soluzione, suscettibile di salvare Israele come enclave di privilegi ebraici, sta sfuggendo di mano, comincia ad illuminare pure i sostenitori dell'industria del processo di pace di Oslo. Quanto più la soluzione a due stati "diventa meno probabile" - osserva Aaron David Miller, venticinquennale veterano del Dipartimento di Stato e anziana autorità nell'amministrazione Clinton al summit di Camp David del 2000 - "si parla sempre più tra i palestinesi di una soluzione ad uno stato, che naturalmente non è per nulla una soluzione e che significherebbe la fine di Israele come stato ebraico". ("La pace è fuori portata?", The Los Angeles Times, 15 luglio 2007)
Danny Rubinstein, columnist di Haaretz, prevede che "presto o tardi Hamas fallirà nella sua guerra contro Israele. Ma questo non significa che ci sia un ritorno ai giorni di Oslo ed alla visione di due stati". Piuttosto - teme - "ci saranno richieste sempre più pressanti da parte degli arabi palestinesi, che costituiscono circa metà degli abitanti di questa terra, che diranno: nelle condizioni attuali non possiamo stabilire un nostro stato e ciò che ci rimane da fare è chiedere diritti civili alla nazione che è nella nostra terra. Adotteranno gli slogan della battaglia degli arabi che sono cittadini israeliani e chiedono equità e la definizione di Israele come stato di tutti i suoi cittadini". ("Niente da vendere ai palestinesi", 16 luglio 2007)

Così possiamo capire che Abbas è ora per Israele l'ultima speranza nella lotta contro la democrazia. Una coalizione tanto patetica non può resistere alla via della liberazione.

giovedì, luglio 19, 2007

Ministri UE a Tony Blair, la solita zuppa

La vecchia Europa, da par suo, "arriva lunga". Sono passati sessant'anni dai nefasti della seconda guerra mondiale e dal corollario di sciagure iniettato in Palestina grazie alle interessate iniziative britanniche. Ne sono passati quaranta dalla guerra dei sei giorni, sette anni dal definitivo funerale del programma di Oslo, in realtà un aborto o al più un tentativo di tenere in vita il bambino senza fornirgli alcun nutrimento. Autoproclamatici membri, in quanto europei, dell'improbabile Quartetto finalizzato ad implementare una ancor più improbabile Road Map, leggiamo oggi i buoni propositi trasfusi nella lettera con la quale dieci ministri degli Esteri UE (tra di essi Massimo D'Alema) danno il viatico al nuovo inviato speciale in Medio Oriente (1).

E chi è costui? E' l'ex premier britannico, Tony Blair, già definito "uno degli artefici della distruzione proprio di quelle istituzioni che è stato ora incaricato di far rivivere" ed inviato speciale, appunto, oggi, di quell'organismo - il Quartetto - che è considerato in Palestina "organo vuoto, costruito per fornire legittimità alle incrollabili politiche filo israeliane dell'amministrazione Bush". (Osamah Khalil). E questo accade ancora una volta - come è stato rilevato - in esatta corrispondenza con il punto più basso della popolarità di un presidente americano uscente per gratificare Washington di un presentabile ed erudito portavoce delle fallimentari - o criminali - politiche americane in Medio Oriente. Clinton docet, ricordiamo Camp David, "invariabilmente questi tentativi di risolvere il conflitto arabo israeliano capitano quando il presidente USA è al suo punto di massima debolezza in politica interna".

Sia quel che sia (il discorso in realtà sarebbe poco complicato, ma abbastanza lungo) leggiamo questa lettera senza saltare a piè pari, per una volta, i convenevoli di rito e il preambolo in consueto stile "stracciamento di vesti". Fin dalle premesse possiamo capire che la posizione espressa al neo inviato speciale pecca di una condiscendente anzianità di vedute o addirittura, in taluni punti, di insipiente opportunismo. Lo possiamo constatare dalla subitanea enumerazione dei "fattori ostili" alla pace, come dal proposito di rivivificare la dirigenza dell'ANP (Fatah) giustamente ripudiata dal proprio popolo, come dal riproporre in extremis la soluzione a due Stati alla cui agonia tutti i membri del cosiddetto Quartetto hanno contribuito, per azione o per omissione. Occorre infatti una certa improntitudine nello stigmatizzare innanzi a tutto il "colpo di forza di Hamas" e molta malcelata piaggeria nel parlare di "attendismo americano", per poi mitigare - ma solo in seconda battuta - l'atteggiamento nei confronti del governo palestinese - quello eletto - e lasciar cadere in un silenzio consolatorio l'imbarazzante evidenza di una strategia americana fondata sui voleri delle lobby (anche, ma non solo, quella filo israeliana) e dei neoconservatori. La lettera aperta dei ministri UE non è poi esente da voli di fantasioso ottimismo, qual è l'idea della "concertazione rinnovata" del Quartetto e della Lega Araba e di rimarchevole miopia laddove si confida nel flirt di dubbia consistenza tra un presidente palestinese, delegittimato con l'intero suo entourage, e un premier israeliano a dir poco ondivago ed anelante al beneplacito della junta militare che governa il paese. Il tutto senza considerare che la dirigenza dell'ANP ha dimostrato di influire ben poco sulla gente che - ripetutamente tradita - l'ha buttata fuori da Gaza e messa ai margini di un percorso che dagli anni ottanta avrebbe dovuto avere come obiettivo la fine dell'occupazione e non l'autoreferenziale mantenimento a spese dei palestinesi di una struttura dirigenziale incapace, largamente antidemocratica e corrotta.

I dichiarati obiettivi della missiva non si scostano poi dalla retorica. L'idea di negoziati sullo statuto finale senza preliminari si scontra con la possibilità già prevista di un "percorso in fasi successive" già tragicamente sperimentato con gli accordi di Oslo ed il cui spirito e la cui lettera venivano largamente traditi dalle scelte espansionistiche israeliane mentre l'inchiostro era ancora fresco. L'utopia di fissare obiettivi realistici per la questione di Gerusalemme e dei rifugiati di per sé non significa niente se questi obiettivi sono affrontati - come è già accaduto - nel timore di un muro israeliano di illegittima ed inopinata intransigenza. Pacchi di risoluzioni ONU, intere enciclopedie e sessant'anni di violenza sono lì a ricordarci che non ci sono alternative al Diritto per aspirare alla definizione di una situazione illegittima e che la "sicurezza di Israele" non potrà mai prescindere dalla giusta definizione di un problema di sovranità in senso proprio, di confini surrettiziamente mai delimitati e di insediamenti abusivi. L'esplicito obiettivo di ottenere da Israele quasi a titolo di concessione per facilitare questo ennesimo percorso di pace la restituzione della totalità delle tasse dovute ai palestinesi, la liberazione di migliaia di prigionieri politici, il congelamento - bontà loro - della colonizzazione illegittima, sembra infine addirittura umiliante trattandosi nel caso della giusta pretesa di ottenere per i palestinesi un immediato anticipo sul doveroso ripristino della legittimità internazionale.

Ma - come sovente accade - il piatto forte dello scritto è alla fine, laddove è previsto che il rinnovato impegno del Quartetto sia finalizzato a "far diventare realtà la visione di due Stati, israeliano e palestinese, che vivono l'uno accanto all'altro in pace e in sicurezza", parole già sentite, già scritte e per decenni e mai corroborate dai fatti. Parole che ripropongono un'alternativa da moltissimi ormai considerata agonizzante in favore di una fatale per quanto dolorosa "One State Solution" (2).
__________________________________________

(1) Caro Tony, dopo dieci anni passati al servizio della Gran Bretagna, e mentre il mondo si stava già rammaricando di vederla lasciare le luci della ribalta, lei ha accettato una missione più complessa, addirittura più impossibile di tutte quelle in cui si era finora impegnato. Impossibile? Il compito, effettivamente, è tale da scoraggiare più di una persona.
Alla storia apparentemente senza fine di una pace tra Israele e i Palestinesi, si aggiunge oggi un insieme di fattori ostili: il colpo di forza di Hamas a Gaza ovviamente, le difficoltà politiche interne israeliane, l'attendismo degli Stati Uniti, la mancanza di convinzione dell'Europa, nonostante l'azione meritoria di Javier Solana, e soprattutto quella terribile sensazione di impotenza che sembra propagarsi in tutta la comunità internazionale.
C'è indubbiamente di che scoraggiarsi. E tuttavia, non possiamo impedirci, rallegrandoci della sua decisione di accettare questa missione, di provare un improbabile ottimismo. Prima di tutto, poiché noi conosciamo il suo coraggio, il suo senso del bene comune e la sua determinazione. Ma anche perché l'ampiezza della crisi ha provocato una presa di coscienza salutare, che paradossalmente rende finalmente possibile il progresso.
Tanto vale riconoscerlo subito, la prima constatazione di questa analisi è quella di un insuccesso condiviso che non possiamo più ignorare: la "road map" è fallita. Lo status quo che prevale dal 2000 non porta a nulla, lo sappiamo. Le condizioni troppo rigide che avevamo l'abitudine di imporre come preliminari alla ripresa del processo di pace non hanno fatto altro che aggravare la situazione.
L'immobilità timorosa della comunità internazionale ha provocato troppi danni. Questo bilancio negativo ci impone di cambiare approccio. Ci autorizza soprattutto a vedere più lontano. L'Europa ha il dovere di dirlo ai suoi amici sia israeliani che palestinesi. Poiché, se si accetta di cambiare prospettiva, se ci si azzarda a vedere la situazione con occhi nuovi, la situazione attuale offre anche le sue opportunità. Ne citeremo due. Per prima cosa, la presa di Gaza da parte di Hamas. Da questa sconfitta può nascere una speranza. Il rischio di guerra civile in Cisgiordania, le minacce della divisione di fatto della Palestina e del ritorno degli scenari giordano e egiziano di prima del 1967 possono effettivamente dare uno scossone. Il Presidente dell'Autorità Palestinese, con la sua tenacia nel favorire la pace e il dialogo e nel denunciare coraggiosamente il terrorismo, ci invita all'ottimismo.
Altro motivo di sperare: la determinazione dell'Arabia Saudita, degli Emirati e del Qatar a fianco dell'Egitto e della Giordania. Questi nuovi protagonisti sono in grado, con le loro considerevoli risorse, di portare un aiuto decisivo.
Questi due punti, caro Tony, ci autorizzano a ridefinire i nostri obiettivi. Sostenuti da una concertazione rinnovata del Quartetto e della Lega Araba (con Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Siria, Emirati) che associ le due parti (Olmert e Mahmud Abbas), questi obbiettivi dovrebbero ragionevolmente essere quattro:
a) Offrire una speranza, una vera soluzione politica ai popoli della regione. Questo passa attraverso negoziati, senza preliminari, sullo statuto finale, salvo che il percorso avvenga per fasi successive. Comprendendo le questioni di Gerusalemme, i rifugiati e le frontiere, questi negoziati permetteranno di fissare un obiettivo condiviso e realistico.
b) Prendere in considerazione il bisogno di sicurezza di Israele. Vale la pena esaminare l'idea di una forza internazionale robusta del tipo Nato o Onu capitolo VII. Questa avrebbe ogni legittimità ad assicurare l'ordine nei territori e a imporre il rispetto di un necessario cessate il fuoco. I rischi, ovviamente, sono elevati, ma questa forza può essere funzionante e sicura se noi rispettiamo due condizioni: che accompagni un piano di pace senza sostituirvisi e che si appoggi su un accordo inter-palestinese.
c) Ottenere da Israele provvedimenti concreti e immediati a favore di Mahmud Abbas, tra i quali il trasferimento della totalità delle tasse dovute, la liberazione di migliaia di prigionieri che non abbiano le mani macchiate di sangue, la liberazione anche dei principali leader palestinesi per assicurare il ricambio in seno a Fatah, il congelamento della colonizzazione e l'evacuazione degli
insediamenti selvaggi. Nessuno di questi provvedimenti può essere contestato per motivi di sicurezza. L'Europa e il Quartetto devono dirlo con fermezza e amicizia a Israele. È troppo tardi per tergiversare.
d) Non spingere Hamas a rilanciare. Questo implica riaprire le frontiere tra Gaza e l'Egitto, facilitare il passaggio tra Gaza e Israele, e incoraggiare l'Arabia Saudita e l'Egitto, come il Presidente Mubarak ha proposto, a ristabilire il dialogo tra Hamas e Fatah.
Questi quattro obiettivi sono alla nostra portata. Nonostante le circostanze drammatiche, nonostante le ferite e gli odi, ci troviamo di fronte a una occasione storica - forse l'ultima. Conosciamo la sua immaginazione. Siamo quindi certi che lei saprà trattare queste problematiche in modo globale. Da qui l'importanza di riunire senza indugio una Conferenza internazionale che comprenda tutte le parti del conflitto. Caro Tony, lei ha lo straordinario privilegio di poter far diventare realtà, la visione di due Stati, israeliano e palestinese, che vivono l'uno accanto all'altro in pace e in sicurezza. Sappia, che, in ogni giorno della sua missione, potrà contare sul nostro sostegno e la nostra adesione incondizionata.
(Lettera firmata dai 10 ministri degli Affari Esteri degli Stati mediterranei dell'Unione Europea, riuniti il 6 luglio 2007 a Portorose, Slovenia)
Ivailo Georgiev Kalfin (Bulgaria)
Yiorgos Lillikas (Cipro)
Bernard Kouchner (Francia)
Dora Bakoiannis (Grecia)
Massimo D'Alema (Italia)
Michael Frendo (Malta)
Luís Amado (Portogallo)
Adrian Cioroianu (Romania)
Dimitrij Rupel (Slovenia)
Miguel Ángel Moratinos Cuyaubé (Spagna)
(Luglio 2007)

(2) «...In spite of the fact that Abu Mazen's effort enjoys broad international and Arab support, the chances that it will succeed are slim. The reason is well known: Abu Mazen and Fatah have nothing to sell the Palestinian public. The vision of the independent state in the West Bank and Gaza, with East Jerusalem as its capital, gradually dissipated during the years of the Oslo process. What finally destroyed it were the continuing violence and terror, the number of settlers, which doubled (from about 100,000 in 1990 to about 200,000 in 2000), and the new Jewish neighborhoods in Jerusalem and its environs. Instead of reconciliation and coexistence, is the feeling, we got an intifada, murderous attacks, separation walls, settlement blocs and an apartheid state. The Palestinian public knows that it is impossible to turn back the clock. It was not corruption and an absence of leadership that brought down the Fatah movement, and neither are they not what is causing it to fail now - but rather the fact that the political path of Abu Mazen and his friends has reached a dead end, and cannot be resurrected. [...] Sooner or later Hamas will fail in its war against Israel. But that does mean that there will then be a return to the days of Oslo and the two-state vision, which has withered and died since September 2000. Rather, there will be increasingly strong demands by Palestinian Arabs, who constitute almost half the inhabitants of this land, who will say: Under the present conditions we cannot establish a state of our own, and what remains for us is to demand civil rights in the country that is our homeland. They will adopt the slogans of the struggle of the Arabs who are Israeli citizens, who demand equality and the definition of Israel as a state of all its citizens. That won't happen tomorrow morning, but there doesn't seem to be any option to its happening eventually. If there aren't two states for the two nations, in the end there will be one state». (Danny Rubinstein 'Nothing to sell the Palestinians' - Ha'aretz, July 16 2007)