Pretendere di dire qualcosa di nuovo sul Medio Oriente, così come pretendere di intravedere nuove soluzioni dei problemi che da sessant'anni – giusto per darci una data – assillano questa regione insanguinata, significa aspirare al premio Nobel per la pace o per la prosopopea. Il primo è irraggiungibile anche nei sogni più sfrenati di un modesto osservatore dei fatti del mondo e sarebbe inoltre un traguardo svalutato da trascorse attribuzioni quantomeno opinabili. Appunto sotto la rubrica “pace” c'è infatti chi lo ha ottenuto in virtù di un impegno limitato e contingente o addirittura di facciata (tra gli altri vengono in mente Henry Kissinger, Anwar al-Sadat, Menachem Begin, Yitzhak Rabin, Yasser Arafat). Resterebbe il Nobel per la prosopopea, che però non esiste (e comunque personalmente non ci tengo a riceverlo). Quindi dovremo fare a meno delle nuove soluzioni e dei premi prestigiosi.
Pensandoci bene non si vede, poi, per quale motivo una soluzione debba essere legata a qualcosa di nuovo. Forse perchè finora con quanto elaborato e messo in atto non si è ottenuto nulla? E perchè mai dovrebbe esistere una soluzione trascendente, straordinaria, che rimedi ad una situazione dovuta all'uomo e alle sue ordinarie debolezze e aspirazioni? In realtà non sono le idee vecchie che fanno acqua, ma la malafede con cui qualsiasi possibile ipotesi di pace è stata svalutata, sabotata e annegata nella sfiducia e nel fatalismo. Certo, il tempo farà comunque il suo lavoro, ma quanto dolore potrebbe essere risparmiato guardando in faccia la realtà, i fatti per quelli che sono e cercando di anticipare il fatale evolversi della situazione? Un concreto punto di partenza è quindi pensare che non sia indispensabile un intervento superiore per sistemare in modo ragionevole, umano, questioni incancrenite dalla degenerazione patologica di sentimenti del tutto ordinari quali la paura, l'avidità, la sfiducia, lo spirito di rivalsa e di vendetta.
Trattando di Medio Oriente, il pensiero corre immediatamente e innanzitutto alla questione israelo palestinese. E in proposito sembra subito necessario semplificare e ridurre a pochi fatti elementari, al nucleo del problema e agli strumenti a disposizione per venirne a capo, quello che, diversamente, si presenta come una inutile massa di opinioni che, se adeguatamente presentate, fanno apparire corretto qualsiasi punto di vista ed suo esatto contrario. Il che ovviamente non è possibile. Difendendo ad oltranza una o l'altra bandiera e benché la conoscenza della storia ci consenta di risalire - a piacere - di dieci, cento, mille, diecimila anni per trovare comunque una ragionevole giustificazione alla condotta distruttiva di una qualsiasi delle parti, questo approccio è del tutto inutile. Ce lo dice l'attualità del sangue che continua a scorrere a fiumi in Palestina. Cercare infatti le ragioni, i torti e le relative giustificazioni sotto il profilo umano, non risolve nulla. E nulla di buono deriva da certe eredità, nulla di buono, soprattutto, dall'erigere il ricordo dei torti subiti a feticcio per ricavarne la pretesa giustificazione di qualsiasi successivo comportamento.
Sotto questo aspetto avrebbe ragione Simon Peres, che in un dibattito nel Qatar, qualche mese fa (Doha, 20 gennaio 2007), ha invitato il suo virtuale antagonista palestinese a dimenticare il passato e guardare a un futuro diverso, ma ciò ha fatto dimostrando contemporaneamente di non dimenticare le proprie pesanti riserve. Cioè le pretese a cui egli stesso, in rappresentanza dello Stato ebraico, tendenzialmente non intende rinunciare, neanche a parole. Per esempio, occupandoci della questione territoriale, riguardo la spinosa e negata suddivisione di Gerusalemme. In quell’occasione Peres ha quindi fatto e sta tuttora facendo, in pratica, gli stessi errori del passato. Poco importa che apra un blog su Ha'aretz, se affronta il dibattito al solo scopo di vincere, con le parole, la resistenza altrui. Stiamo parlando di una “colomba”, ma soffoca l’impulso autocritico – che pure dovrebbe esistere – e decide nel proprio intimo, a priori, di combattere e non di negoziare. E proprio delle colombe occorre parlare, iniziando da Peres (definito dal radicale Noam Chomsky un “iconic mass murderer”), ricordando che i malfatti del Labor (partito dei progressisti israeliani) sono stati letali per il fasullo processo di pace che partiva da Oslo, tanto quanto i loro fratelli della destra del Likud. Nella pratica sono stati addirittura più efficacemente distruttivi, promuovendo l’espansione indiscriminata ed illegittima degli insediamenti nei territori occupati ed implementando un disastroso stato di fatto. In poche parole, remando contro la pace.
Ma il principio ventilato ipocritamente dal presidente Peres (e in passato ancor più ipocritamente, da Alan Dershowitz) è – a parole – corretto. E’ utile conoscere la storia, ma è costruttivo utilizzarla solo per spiegare ed interpretare i comportamenti che ne derivano, seppure irrazionali, perchè, come taluno ha detto, non è razionale ignorare i motivi irrazionali che affliggono i comportamenti della gente. Criminale è invece farne uso costante, strumentale e discriminatorio, per trarne vantaggio. Ottima pertanto l’idea di dimenticare per ricominciare, pessima finora la sua messa in pratica.
Un percorso che si alimenti del passato, delle ragioni e dei torti, delle occasioni sprecate, del sangue versato, viene presto annichilito da una pesante zavorra di assoluta sfiducia. E' la stessa sfiducia che ha contribuito a soffocare anche la volontà di pace, viva e reale, nella regione. La sfiducia e il pessimismo che hanno minato, per esempio, il cosiddetto processo di pace iniziato a Oslo. Già nato morto perchè subito tradito nello spirito (secondo Shlomo Ben-Ami) e nella lettera. Proprio da Oslo (1993 in avanti) e poi con la morte di Rabin (nel 1995), si è visto minare ed uccidere deliberatamente un’idea e il poco di buono che era stato raggiunto. La malafede ha avuto il sopravvento con il sistematico sabotaggio operato dalla destra di Netanyahu e, più tardi, con la disastrosa parentesi di Barak fino a Camp David (luglio 2000), ai parametri di Clinton (dicembre 2000), al tentativo di Taba (gennaio 2001), al muro di Sharon.
Con la morte di Oslo, decretata apertis verbis da Sharon, naturale è stata la sfiducia e il venir meno di un’idea che si era fatta faticosamente strada, quella della soluzione binazionale. Due stati – Israele e Palestina – capaci di vivere fianco a fianco nel reciproco rispetto. E di qui l’adeguarsi ad un’altra soluzione, quella prospettata con grande scandalo da Chomsky, abbracciata da Edward Said ed oggi rinvigorita dal parere di attenti analisti, come Ali Abunimah e cattedratici, come Tony Judt e Ilan Pappe. Ma perché la soluzione a “due stati” sta morendo? Credo essenzialmente per la mancanza di coraggio, da parte di Israele, di operare una scelta – per quanto dolorosa – tra l’ espansione e la sicurezza. E per Israele si intende ovviamente la sua dirigenza, che non è stata in grado di spiegare alla gente, quella vera, che alleva i figli e lavora, i vantaggi di una sincera opzione di pace.
Un ulteriore elemento destabilizzante risulta oggi la suddivisione del sogno palestinese tra i seguaci di un’entità palesemente collaborazionista, facente capo ad Abu Mazen e con la pesante eredità di Fatah, e la parte – che potremmo definire (per semplicità, ma non è del tutto corretto) di resistenza islamica – facente capo ad Hamas. Sotto questo profilo il mondo occidentale ha dato il suo peggio con l’aiuto dei media. Non ha considerato il percorso politico avviato dal movimento, ha rifiutato a priori il dialogo e le proposte del movimento, ha fatto propria la propaganda di matrice USA e israeliana, facendosi complice di un ricatto inaccettabile e della punizione collettiva inflitta alla popolazione palestinese, che – qualsiasi cosa si possa pensare – ha scelto, democraticamente, la propria dirigenza. La definizione data in questi giorni da Israele alla Striscia di Gaza, controllata da Hamas, quale “entità ostile”, è una passo verso scenari nuovi e preoccupanti. In qualche misura è un salto nel vuoto, insuscettibile di analisi. Difficile ipotizzare oggi che questa evoluzione conduca a conseguenze positive. Per il momento il solito Ehud Barak, definito da Avnery, della sinistra israeliana, “criminale di pace” (con riferimento ai trascorsi di Camp David) e oggi da Hamas – più prosaicamente – “brutale assassino di bambini”, avrebbe elaborato un piano di progressivo strangolamento della Striscia di Gaza, dicendo (secondo un’agenzia palestinese) di “voler essere sicuro che pochissimo cibo e medicine possano raggiungere Gaza” e precisando che alla Striscia dovrà essere interdetta la fornitura di energia elettrica, con buona pace del messaggio del segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon che nei giorni scorsi ha dichiarato l’illegittimità internazionale dell’assedio.
In relazione al proposito di “affamare” la popolazione della Striscia – a prescindere dalle previsioni di diritto internazionale, di cui parliamo più avanti – nel percorso verso la pace (parlo di percorso, ma è qualcosa di completamente diverso da quelli che vengono normalmente indicati come processi di pace) occorrono punti fermi, decisi. Occorre semplificare, con i pochi strumenti a disposizione. E ciò dopo aver escluso, a priori, le riserve e la manifesta patologia del pensiero (o dell'anima?), privilegiando un'etica minima del comportamento, al di fuori di evidenti libidini di potere, di espansione, al di fuori di pretese eredità morali o ancora del millenario frutto di fantastiche ed anacronistiche divine investiture. Ed anche al di fuori – è intuitivo – di un principio oggi eletto a giustificazione di ogni male, quello che il fine (nel caso la reazione ai missili artigianali Qassam) giustifica i mezzi. Lo stesso principio che ha portato a giustificare aberrazioni quali l’uso della tortura, gli assassini mirati, Guantanamo, le extraordinary rendition USA, la brutalità dei mercenari che anche in questi giorni hanno dato notizia di sé e delle loro malefatte nell’Iraq occupato.
Percorrere in buona fede una via di pace necessita, come abbiamo detto, di pochi strumenti. Uno è il diritto internazionale. Si tratta delle regole che debbono valere per il solo fatto che sono tendenzialmente predisposte alla pacifica convivenza dei popoli e sono in ogni caso quanto di meglio la comunità internazionale è riuscita ad elaborare. Ma il diritto non è nulla se la sua applicazione non è indistintamente e pariteticamente rivolta a tutti i suoi membri e, prima di tutto, se non si ottiene che queste regole siano considerate inderogabili. Se non si impone il principio per cui chi pretende di esserne affrancato non è meritevole di tutela. Un traguardo tuttora non raggiunto. Nello specifico, il patrocinio dell’unica superpotenza rimasta, gli USA, ha introdotto un elemento di innaturale squilibrio in tutta la vicenda mediorientale, nella pratica opponendo il proprio veto a decine di risoluzioni promosse o appoggiate dal resto del mondo. E’ infatti altrettanto importante sapere che il diritto (internazionale) filtrato dai rapporti di forza e di potere, dalla diplomazia e dal compromesso, dall'avidità e dalla malafede, si allontana dalla sua capacità di essere uno strumento di pace, un punto di partenza e un elemento tranquillizzante di previsione degli eventi internazionali, con la sicurezza e i benefici che possono derivarne.
Un esempio illuminante. La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU n. 242 del 22 novembre 1967 - immediatamente successiva all'occupazione israeliana del West Bank, di Gerusalemme Est, della Striscia di Gaza - poi incorporata nella Risoluzione n. 338 del 22 ottobre 1973, è un compromesso sulle parole e la sua statuizione concreta più importante contraddice le premesse. In questo caso anche il diritto diventa suscettibile di discussione, per quanto peregrina, infondata o pretestuosa, diventa un simulacro della regola e invece di fornire un punto fermo si rende inutile. Quanti infatti sono disposti a difendere e far valere il principio per cui una norma di diritto che cerca di suicidarsi con una palese contraddizione al suo interno non può che essere interpretata in modo che le sue statuizioni abbiano un significato concreto (è un principio elementare generale) anzicchè nessuno? In concreto, parlando appunto di quello che è un pilastro di diritto internazionale tuttora riconosciuto e richiamato in ordine alla soluzione del problema israelo palestinese, la risoluzione 242 confermava e sottolineava "l'inammissibilità dell'acquisizione di territori attraverso la guerra", ma il susseguente statuito "ritiro delle forze armate israeliane da [...] territori occupati nel recente conflitto", ne sviliva con la sua formulazione ambigua la lapidaria chiarezza. L'artifizio diplomatico che ha suggerito l'omissione dell'articolo determinativo [da territori = dai territori] nella Risoluzione (nel suo testo ufficiale inglese, ma non in quello francese), costruiva i motivi della sua stessa scarsa efficacia, dando spunto ad una discussione mai sopita e del tutto pretestuosa. Trascorsi quarant'anni dalla sua emanazione, non serve sottolineare che Lord Caradon, il principale autore del testo, abbia dichiarato che "era dai territori occupati che la risoluzione chiedeva il ritiro. La domanda era quali territori erano occupati. Era una domanda non suscettibile di alcun dubbio nei fatti ... Gerusalemme Est, il West Bank, Gaza, il Golan e il Sinai erano stati occupati nel conflitto del 1967. Era al ritiro dai territori occupati che la Risoluzione si riferiva" (Caradon e altri, La Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU – Un caso di scuola nell'ambiguità diplomatica, 1981). L'ambiguità era il frutto di un compromesso. Ma ricondurre il punto fermo del diritto, di per sé autosufficiente, alla propria naturale utilità, cioè quella di costituire una regola che non può essere trascurata, avrebbe reso necessaria almeno la successiva buona fede di chi nel caso lo ha interpretato, per derivarne le conseguenze ed i benefici negati ab origine dalla sua formulazione. Buona fede su cui nemmeno oggi si può contare. E' un esempio di come, sminuendo di fatto l'efficacia del diritto internazionale, cioè la capacità di essere concreta fonte di obblighi, un possibile strumento di pace viene reso inutile.
L’informazione. Uno strumento eccezionale di conoscenza, di comunicazione, di pace. Ma se è viziata, al pari del diritto, dai rapporti di forza, dal compromesso e dalla malafede diventa strumento di ignoranza e di morte. Ne stiamo vedendo – anzi, cresce davanti a noi – il suo ennesimo tradimento in relazione alla questione nucleare iraniana, per cui si assiste fatalisti (“Dio non voglia”) ed impotenti alla riedizione della situazione iraqena. Le istigazioni al conflitto impazzano sui media di mezzo mondo, dipingono come fosse acqua fresca una deriva di guerra, uno scenario insopportabile e imprevedibile. Forse in proposito occorre svegliarsi, che la vecchia Europa si svegli e guardi concretamente a quello che sta accadendo giorno per giorno sotto i nostri occhi, qualcuno sta minacciando di muovere guerra ad un paese costituito da 70 milioni di persone, in gran parte giovani, che non ha mai mosso guerra, né minacciato di guerra nessuno. E sulla stessa deriva si stanno costruendo i racconti di improbabili alleanze (Siria, Libano degli Hezbollah), tese ad altrettanto improbabili mire di egemonia nella regione. Analoghi impulsi e analoghe menzogne hanno condotto alla disastrosa situazione iraqena, tuttora irrisolta. Ma evidentemente non c’è limite all’arroganza, né limite alla dabbenaggine ed alla miopia di chi vede dai germi di guerra ulteriore nell’area mesopotamica, un possibile contingente vantaggio. Sotto questo aspetto appare disastroso e sospetto l’intervento francese nel dibattito sul nucleare iraniano, chiara la posizione dell’AIEA di ElBaradei (non dimentichiamo le identiche riserve svolte in vista dell’aggressione all’Iraq e cadute nel vuoto), retorica ed attendista – come al solito, duole dirlo – quella italiana.
E’ del 22 settembre la notizia che l’Iran, attaccato mediaticamente da anni, non intende abbassare la testa, neppure sotto l’aspetto della comunicazione, e rivendica la possibilità di sbugiardare apertamente la logica del doppio binario, che vede gli USA e l’occidente acriticamente allineato farsi latori di comportamenti diversi per situazioni analoghe. Così la Repubblica islamica ha chiesto ufficialmente alle Nazioni Unite un’ispezione sulle capacità nucleari israeliane. E c’è da chiedersi quanto noi vecchia Europa dovremo far finta di niente per continuare ad immaginare come legittima la politica ufficiale israeliana di riconosciuta ed istituzionalizzata “ambiguità” (nucleare), quando minacciosi si fanno i venti di guerra diretti per lo stesso motivo nei confronti di uno stato sovrano che – in un mondo almeno ufficialmente retto dal diritto – non intende sottostare alla medievale regola del più forte, quella stigmatizzata da Chomsky nella nota proposizione di ispirazione imperiale americana: si fa quel che diciamo noi.
domenica, settembre 23, 2007
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento