giovedì, settembre 27, 2007
Il cancro del silenzio
Di questa ignoranza - naturalmente agevolata dai cori benedicenti (o maledicenti) del mainstream mediatico popolare - ognuno oggi deve infatti ritenersi responsabile. Lo sanno bene in Israele, dove tutti sono in grado di documentarsi e di sapere, di discernere i fatti dal mito e dalla sofferenza, sebbene il dibattito e, soprattutto, la possibilità di una reazione, di una voce fuori dal coro, siano accesi - in concreto - da pochi e per pochi.
"Con la totale conquista della Striscia di Gaza, la leadership di Hamas ha messo in atto un cessate il fuoco unilaterale nei confronti di Israele. Per un'intera settimana non un singolo razzo Qassam è stato lanciato su Sderot e le sue vicinanze. Ma poi, dopo solo un giorno come Ministro della Difesa, il nuovo ministro [Ehud Barak] ha autorizzato una nuovo operazioone per stanare gente sulla lista dei ricercati nella zona di Khan Younis. Cinque palestinesi sono stati uccisi ed altri feriti. Come per magia, il lancio dei Qassam su Sderot è ripreso il giorno dopo" [Shlomo Gazit, "Hamastan as a challenge", su NRG, 25 giugno 2007]. "Mantenere uno stato di violenza di bassa intensità [sic] appare necessario per l'attuale politica israeliana che consiste nel presentare i palestinesi come terroristi, il progetto israeliano di colonizzazione e le operazioni militari per distruggerli - sia nel West Bank, sia a Gaza - come una "lotta contro il terrore" [...] Un ebreo israeliano medio non sa - o non vuol sapere - del programma di pulizia etnica eseguito dal suo Stato, preferisce pensare [appunto] alla "lotta contro il terrore". I cittadini ebrei israeliani vivono in una realtà virtuale accuratamente preparata per loro dalla leadership, dai media e dal sistema educativo. In questa realtà gli israeliani appaiono come i buoni che combattono per la loro esistenza, piuttosto che come colonizzatori e occupanti. In questo mondo virtuale si crede che il nostro governo abbia lavorato con impegno per raggiungere un accordo di pace con i palestinesi e che, se questo obiettivo non è stato raggiunto, è per l'intransigenza dei palestinesi. Gli ostacoli ai negoziati da parte dei coloni è nota, ma i coloni sono visti come fastidiosi estremisti, piuttosto che come il risultato della politica di deliberato e costante annessionismo del governo israeliano". [Victoria Buch, Israel's Agenda For Ethnic Cleansing and Transfer, CounterPunch, 25 settembre 2007]
Ciò che è pacifico o comunque conoscibile in Israele, a tutti i livelli, per molti se non per tutti, non lo è negli USA. I tabù che vincolano i media americani popolari sono assai più stringenti che in Israele e nel resto del mondo, massicce e violente le reazioni inanellate per annichilire un dibattito generalizzato, pesantissimi gli interventi della Lobby filo israeliana, minimale la diffusione di notizie - e talvolta di opinioni - non allineate.
"Alcuni argomenti sono troppo difficili da gestire anche per i candidati alle presidenziali. Uno è il controllo delle armi, criticare Israele è un altro. Sull'ultimo tema tutti i candidati seri parlano all'unisono. Dall'inizio del 2007 hanno provveduto a proclamare il loro impegno personale in favore di quella nazione, mettendo in chiaro che una volta eletti difenderanno in ogni caso i suoi interessi. La politica americana in Medio Oriente è un disastro, ma l'influenza degli attivisti filo israeliani è una cosa che nessun candidato è preparato ad affrontare. Benchè giovani soldati muoiano quasi tutti i giorni in Iraq e gli USA spendano miliardi di dollari ogni settimana per una guerra che la gente contesta duramente, il ruolo giocato dai supporter di Israele non è mai citato dagli aspiranti alla presidenza. Perchè solo su Israele, nel mondo, i politici USA sorvolano, anche quando si interseca con gli interessi strategici americani? [...] Malgrado la controversia [suscitata dalla pubblicazione del libro di Walt e Mearsheimer], le recensioni negative e la cancellazioni delle sottoscrizioni del libro, The Israel Lobby ha rapidamente raggiunto la lista dei besteller USA. Lo scorso fine settimana [ndr verso la metà di settembre 2007] era al 5° posto nella classifica del Los Angeles Times e al 12° in quella del New York Times. Il soggetto rimane radioattivo per gli aspiranti alla presidenza. La settimana scorsa Barack Obama è stato introdotto nello Iowa dall'esperto di politica estera Zbigniew Brzezinski. Improvvisamente il candidato si è trovato sotto attacco da parte degli attivisti filo israeliani. Aveva fatto "un errore terribile" nell'associare la sua campagna a Brzezinski, Consigliere per la sicurezza nazionale per Jimmy Carter, che aveva scritto una recensione favorevole al libro. Obama rapidamente ha preso le distanze dalla controversia. La sua campagna è stata: "l'idea che i sostenitori di Israele abbiano in qualche modo distorto la politica estera degli USA, o che siano responsabili per la sconfitta in Iraq, è semplicemente sbagliata. E la posizione di Obama sugli affari mediorientali, come quella dei suoi principali antagonisti ... è "fermamente in favore della politica aggressiva di Israele sulla sicurezza". [The Israel Lobby and US Foreign Policy , By John J Mearsheimer & Stephen M Walt (Book review) by Leonard Doyle, su The Independent, 21 settembre 2007]
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Per approfondire
http://pipistro.wordpress.com/2006/07/23/cancer/
http://pipistro.wordpress.com/2006/08/08/thats-old-news/
http://pipistro.wordpress.com/2006/10/28/we-are-history/
http://pipistro.blogspot.com/2007/07/moshe-dayan-pentimento-dalla-tomba.html
http://www.counterpunch.org/buch09192007.html
http://arts.independent.co.uk/books/reviews/article2984378.ece
lunedì, settembre 24, 2007
Ahmadinejad a New York
domenica, settembre 23, 2007
Riflessioni sul Medio Oriente
Pensandoci bene non si vede, poi, per quale motivo una soluzione debba essere legata a qualcosa di nuovo. Forse perchè finora con quanto elaborato e messo in atto non si è ottenuto nulla? E perchè mai dovrebbe esistere una soluzione trascendente, straordinaria, che rimedi ad una situazione dovuta all'uomo e alle sue ordinarie debolezze e aspirazioni? In realtà non sono le idee vecchie che fanno acqua, ma la malafede con cui qualsiasi possibile ipotesi di pace è stata svalutata, sabotata e annegata nella sfiducia e nel fatalismo. Certo, il tempo farà comunque il suo lavoro, ma quanto dolore potrebbe essere risparmiato guardando in faccia la realtà, i fatti per quelli che sono e cercando di anticipare il fatale evolversi della situazione? Un concreto punto di partenza è quindi pensare che non sia indispensabile un intervento superiore per sistemare in modo ragionevole, umano, questioni incancrenite dalla degenerazione patologica di sentimenti del tutto ordinari quali la paura, l'avidità, la sfiducia, lo spirito di rivalsa e di vendetta.
Trattando di Medio Oriente, il pensiero corre immediatamente e innanzitutto alla questione israelo palestinese. E in proposito sembra subito necessario semplificare e ridurre a pochi fatti elementari, al nucleo del problema e agli strumenti a disposizione per venirne a capo, quello che, diversamente, si presenta come una inutile massa di opinioni che, se adeguatamente presentate, fanno apparire corretto qualsiasi punto di vista ed suo esatto contrario. Il che ovviamente non è possibile. Difendendo ad oltranza una o l'altra bandiera e benché la conoscenza della storia ci consenta di risalire - a piacere - di dieci, cento, mille, diecimila anni per trovare comunque una ragionevole giustificazione alla condotta distruttiva di una qualsiasi delle parti, questo approccio è del tutto inutile. Ce lo dice l'attualità del sangue che continua a scorrere a fiumi in Palestina. Cercare infatti le ragioni, i torti e le relative giustificazioni sotto il profilo umano, non risolve nulla. E nulla di buono deriva da certe eredità, nulla di buono, soprattutto, dall'erigere il ricordo dei torti subiti a feticcio per ricavarne la pretesa giustificazione di qualsiasi successivo comportamento.
Sotto questo aspetto avrebbe ragione Simon Peres, che in un dibattito nel Qatar, qualche mese fa (Doha, 20 gennaio 2007), ha invitato il suo virtuale antagonista palestinese a dimenticare il passato e guardare a un futuro diverso, ma ciò ha fatto dimostrando contemporaneamente di non dimenticare le proprie pesanti riserve. Cioè le pretese a cui egli stesso, in rappresentanza dello Stato ebraico, tendenzialmente non intende rinunciare, neanche a parole. Per esempio, occupandoci della questione territoriale, riguardo la spinosa e negata suddivisione di Gerusalemme. In quell’occasione Peres ha quindi fatto e sta tuttora facendo, in pratica, gli stessi errori del passato. Poco importa che apra un blog su Ha'aretz, se affronta il dibattito al solo scopo di vincere, con le parole, la resistenza altrui. Stiamo parlando di una “colomba”, ma soffoca l’impulso autocritico – che pure dovrebbe esistere – e decide nel proprio intimo, a priori, di combattere e non di negoziare. E proprio delle colombe occorre parlare, iniziando da Peres (definito dal radicale Noam Chomsky un “iconic mass murderer”), ricordando che i malfatti del Labor (partito dei progressisti israeliani) sono stati letali per il fasullo processo di pace che partiva da Oslo, tanto quanto i loro fratelli della destra del Likud. Nella pratica sono stati addirittura più efficacemente distruttivi, promuovendo l’espansione indiscriminata ed illegittima degli insediamenti nei territori occupati ed implementando un disastroso stato di fatto. In poche parole, remando contro la pace.
Ma il principio ventilato ipocritamente dal presidente Peres (e in passato ancor più ipocritamente, da Alan Dershowitz) è – a parole – corretto. E’ utile conoscere la storia, ma è costruttivo utilizzarla solo per spiegare ed interpretare i comportamenti che ne derivano, seppure irrazionali, perchè, come taluno ha detto, non è razionale ignorare i motivi irrazionali che affliggono i comportamenti della gente. Criminale è invece farne uso costante, strumentale e discriminatorio, per trarne vantaggio. Ottima pertanto l’idea di dimenticare per ricominciare, pessima finora la sua messa in pratica.
Un percorso che si alimenti del passato, delle ragioni e dei torti, delle occasioni sprecate, del sangue versato, viene presto annichilito da una pesante zavorra di assoluta sfiducia. E' la stessa sfiducia che ha contribuito a soffocare anche la volontà di pace, viva e reale, nella regione. La sfiducia e il pessimismo che hanno minato, per esempio, il cosiddetto processo di pace iniziato a Oslo. Già nato morto perchè subito tradito nello spirito (secondo Shlomo Ben-Ami) e nella lettera. Proprio da Oslo (1993 in avanti) e poi con la morte di Rabin (nel 1995), si è visto minare ed uccidere deliberatamente un’idea e il poco di buono che era stato raggiunto. La malafede ha avuto il sopravvento con il sistematico sabotaggio operato dalla destra di Netanyahu e, più tardi, con la disastrosa parentesi di Barak fino a Camp David (luglio 2000), ai parametri di Clinton (dicembre 2000), al tentativo di Taba (gennaio 2001), al muro di Sharon.
Con la morte di Oslo, decretata apertis verbis da Sharon, naturale è stata la sfiducia e il venir meno di un’idea che si era fatta faticosamente strada, quella della soluzione binazionale. Due stati – Israele e Palestina – capaci di vivere fianco a fianco nel reciproco rispetto. E di qui l’adeguarsi ad un’altra soluzione, quella prospettata con grande scandalo da Chomsky, abbracciata da Edward Said ed oggi rinvigorita dal parere di attenti analisti, come Ali Abunimah e cattedratici, come Tony Judt e Ilan Pappe. Ma perché la soluzione a “due stati” sta morendo? Credo essenzialmente per la mancanza di coraggio, da parte di Israele, di operare una scelta – per quanto dolorosa – tra l’ espansione e la sicurezza. E per Israele si intende ovviamente la sua dirigenza, che non è stata in grado di spiegare alla gente, quella vera, che alleva i figli e lavora, i vantaggi di una sincera opzione di pace.
Un ulteriore elemento destabilizzante risulta oggi la suddivisione del sogno palestinese tra i seguaci di un’entità palesemente collaborazionista, facente capo ad Abu Mazen e con la pesante eredità di Fatah, e la parte – che potremmo definire (per semplicità, ma non è del tutto corretto) di resistenza islamica – facente capo ad Hamas. Sotto questo profilo il mondo occidentale ha dato il suo peggio con l’aiuto dei media. Non ha considerato il percorso politico avviato dal movimento, ha rifiutato a priori il dialogo e le proposte del movimento, ha fatto propria la propaganda di matrice USA e israeliana, facendosi complice di un ricatto inaccettabile e della punizione collettiva inflitta alla popolazione palestinese, che – qualsiasi cosa si possa pensare – ha scelto, democraticamente, la propria dirigenza. La definizione data in questi giorni da Israele alla Striscia di Gaza, controllata da Hamas, quale “entità ostile”, è una passo verso scenari nuovi e preoccupanti. In qualche misura è un salto nel vuoto, insuscettibile di analisi. Difficile ipotizzare oggi che questa evoluzione conduca a conseguenze positive. Per il momento il solito Ehud Barak, definito da Avnery, della sinistra israeliana, “criminale di pace” (con riferimento ai trascorsi di Camp David) e oggi da Hamas – più prosaicamente – “brutale assassino di bambini”, avrebbe elaborato un piano di progressivo strangolamento della Striscia di Gaza, dicendo (secondo un’agenzia palestinese) di “voler essere sicuro che pochissimo cibo e medicine possano raggiungere Gaza” e precisando che alla Striscia dovrà essere interdetta la fornitura di energia elettrica, con buona pace del messaggio del segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon che nei giorni scorsi ha dichiarato l’illegittimità internazionale dell’assedio.
In relazione al proposito di “affamare” la popolazione della Striscia – a prescindere dalle previsioni di diritto internazionale, di cui parliamo più avanti – nel percorso verso la pace (parlo di percorso, ma è qualcosa di completamente diverso da quelli che vengono normalmente indicati come processi di pace) occorrono punti fermi, decisi. Occorre semplificare, con i pochi strumenti a disposizione. E ciò dopo aver escluso, a priori, le riserve e la manifesta patologia del pensiero (o dell'anima?), privilegiando un'etica minima del comportamento, al di fuori di evidenti libidini di potere, di espansione, al di fuori di pretese eredità morali o ancora del millenario frutto di fantastiche ed anacronistiche divine investiture. Ed anche al di fuori – è intuitivo – di un principio oggi eletto a giustificazione di ogni male, quello che il fine (nel caso la reazione ai missili artigianali Qassam) giustifica i mezzi. Lo stesso principio che ha portato a giustificare aberrazioni quali l’uso della tortura, gli assassini mirati, Guantanamo, le extraordinary rendition USA, la brutalità dei mercenari che anche in questi giorni hanno dato notizia di sé e delle loro malefatte nell’Iraq occupato.
Percorrere in buona fede una via di pace necessita, come abbiamo detto, di pochi strumenti. Uno è il diritto internazionale. Si tratta delle regole che debbono valere per il solo fatto che sono tendenzialmente predisposte alla pacifica convivenza dei popoli e sono in ogni caso quanto di meglio la comunità internazionale è riuscita ad elaborare. Ma il diritto non è nulla se la sua applicazione non è indistintamente e pariteticamente rivolta a tutti i suoi membri e, prima di tutto, se non si ottiene che queste regole siano considerate inderogabili. Se non si impone il principio per cui chi pretende di esserne affrancato non è meritevole di tutela. Un traguardo tuttora non raggiunto. Nello specifico, il patrocinio dell’unica superpotenza rimasta, gli USA, ha introdotto un elemento di innaturale squilibrio in tutta la vicenda mediorientale, nella pratica opponendo il proprio veto a decine di risoluzioni promosse o appoggiate dal resto del mondo. E’ infatti altrettanto importante sapere che il diritto (internazionale) filtrato dai rapporti di forza e di potere, dalla diplomazia e dal compromesso, dall'avidità e dalla malafede, si allontana dalla sua capacità di essere uno strumento di pace, un punto di partenza e un elemento tranquillizzante di previsione degli eventi internazionali, con la sicurezza e i benefici che possono derivarne.
Un esempio illuminante. La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU n. 242 del 22 novembre 1967 - immediatamente successiva all'occupazione israeliana del West Bank, di Gerusalemme Est, della Striscia di Gaza - poi incorporata nella Risoluzione n. 338 del 22 ottobre 1973, è un compromesso sulle parole e la sua statuizione concreta più importante contraddice le premesse. In questo caso anche il diritto diventa suscettibile di discussione, per quanto peregrina, infondata o pretestuosa, diventa un simulacro della regola e invece di fornire un punto fermo si rende inutile. Quanti infatti sono disposti a difendere e far valere il principio per cui una norma di diritto che cerca di suicidarsi con una palese contraddizione al suo interno non può che essere interpretata in modo che le sue statuizioni abbiano un significato concreto (è un principio elementare generale) anzicchè nessuno? In concreto, parlando appunto di quello che è un pilastro di diritto internazionale tuttora riconosciuto e richiamato in ordine alla soluzione del problema israelo palestinese, la risoluzione 242 confermava e sottolineava "l'inammissibilità dell'acquisizione di territori attraverso la guerra", ma il susseguente statuito "ritiro delle forze armate israeliane da [...] territori occupati nel recente conflitto", ne sviliva con la sua formulazione ambigua la lapidaria chiarezza. L'artifizio diplomatico che ha suggerito l'omissione dell'articolo determinativo [da territori = dai territori] nella Risoluzione (nel suo testo ufficiale inglese, ma non in quello francese), costruiva i motivi della sua stessa scarsa efficacia, dando spunto ad una discussione mai sopita e del tutto pretestuosa. Trascorsi quarant'anni dalla sua emanazione, non serve sottolineare che Lord Caradon, il principale autore del testo, abbia dichiarato che "era dai territori occupati che la risoluzione chiedeva il ritiro. La domanda era quali territori erano occupati. Era una domanda non suscettibile di alcun dubbio nei fatti ... Gerusalemme Est, il West Bank, Gaza, il Golan e il Sinai erano stati occupati nel conflitto del 1967. Era al ritiro dai territori occupati che la Risoluzione si riferiva" (Caradon e altri, La Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU – Un caso di scuola nell'ambiguità diplomatica, 1981). L'ambiguità era il frutto di un compromesso. Ma ricondurre il punto fermo del diritto, di per sé autosufficiente, alla propria naturale utilità, cioè quella di costituire una regola che non può essere trascurata, avrebbe reso necessaria almeno la successiva buona fede di chi nel caso lo ha interpretato, per derivarne le conseguenze ed i benefici negati ab origine dalla sua formulazione. Buona fede su cui nemmeno oggi si può contare. E' un esempio di come, sminuendo di fatto l'efficacia del diritto internazionale, cioè la capacità di essere concreta fonte di obblighi, un possibile strumento di pace viene reso inutile.
L’informazione. Uno strumento eccezionale di conoscenza, di comunicazione, di pace. Ma se è viziata, al pari del diritto, dai rapporti di forza, dal compromesso e dalla malafede diventa strumento di ignoranza e di morte. Ne stiamo vedendo – anzi, cresce davanti a noi – il suo ennesimo tradimento in relazione alla questione nucleare iraniana, per cui si assiste fatalisti (“Dio non voglia”) ed impotenti alla riedizione della situazione iraqena. Le istigazioni al conflitto impazzano sui media di mezzo mondo, dipingono come fosse acqua fresca una deriva di guerra, uno scenario insopportabile e imprevedibile. Forse in proposito occorre svegliarsi, che la vecchia Europa si svegli e guardi concretamente a quello che sta accadendo giorno per giorno sotto i nostri occhi, qualcuno sta minacciando di muovere guerra ad un paese costituito da 70 milioni di persone, in gran parte giovani, che non ha mai mosso guerra, né minacciato di guerra nessuno. E sulla stessa deriva si stanno costruendo i racconti di improbabili alleanze (Siria, Libano degli Hezbollah), tese ad altrettanto improbabili mire di egemonia nella regione. Analoghi impulsi e analoghe menzogne hanno condotto alla disastrosa situazione iraqena, tuttora irrisolta. Ma evidentemente non c’è limite all’arroganza, né limite alla dabbenaggine ed alla miopia di chi vede dai germi di guerra ulteriore nell’area mesopotamica, un possibile contingente vantaggio. Sotto questo aspetto appare disastroso e sospetto l’intervento francese nel dibattito sul nucleare iraniano, chiara la posizione dell’AIEA di ElBaradei (non dimentichiamo le identiche riserve svolte in vista dell’aggressione all’Iraq e cadute nel vuoto), retorica ed attendista – come al solito, duole dirlo – quella italiana.
E’ del 22 settembre la notizia che l’Iran, attaccato mediaticamente da anni, non intende abbassare la testa, neppure sotto l’aspetto della comunicazione, e rivendica la possibilità di sbugiardare apertamente la logica del doppio binario, che vede gli USA e l’occidente acriticamente allineato farsi latori di comportamenti diversi per situazioni analoghe. Così la Repubblica islamica ha chiesto ufficialmente alle Nazioni Unite un’ispezione sulle capacità nucleari israeliane. E c’è da chiedersi quanto noi vecchia Europa dovremo far finta di niente per continuare ad immaginare come legittima la politica ufficiale israeliana di riconosciuta ed istituzionalizzata “ambiguità” (nucleare), quando minacciosi si fanno i venti di guerra diretti per lo stesso motivo nei confronti di uno stato sovrano che – in un mondo almeno ufficialmente retto dal diritto – non intende sottostare alla medievale regola del più forte, quella stigmatizzata da Chomsky nella nota proposizione di ispirazione imperiale americana: si fa quel che diciamo noi.
sabato, settembre 22, 2007
Sotto ricatto
La parte peggiore di questa notizia è senz’altro il comportamento criminoso adottato da Israele, lo strangolamento sistematico ormai quarantennale della popolazione palestinese (dentro e fuori dalla Striscia), ma la più umiliante per chi legge da qui, dal vecchio continente, è l'atteggiamento vergognoso del resto del mondo che si autodefinisce civile. La reazione americana è prevista, la classe politica USA è da più tempo ingessata e discute (ma solo ultimamente) di quanto la propria classe dirigente sia sotto ricatto da parte della Lobby israeliana. Ma è fondato il sospetto che analoga, strisciante influenza induca il portavoce della Commissione dell'Unione Europea ad un comunicato tanto umiliante da far sfigurare la sfacciata faziosità di cui si è fatta portatrice la Segreteria imperiale. Nulla di più ci si aspettava dall’emanazione statunitense. I suoi padroni (quelli veri) non hanno ancora finito di portare morte in una parte del Medioriente (è peraltro di questi giorni il massacro condotto dai mercenari americani in Iraq) ed hanno già posto le basi dello stesso percorso in altra parte della regione, coadiuvati dal più potente sicario della storia. Ma anche l'Europa è sotto ricatto. Quattrocentocinquanta milioni di persone sono incapaci di esprimere indignazione per i crimini che lo staterello teppista e il suo insipiente cane da difesa impongono. Mezzo miliardo di persone, pupazzi incapaci di alzare la voce, umilmente osservano che violare tutte le convenzioni internazionali, affamare centinaia di migliaia di persone, pianificare e procedere ad esecuzioni sommarie, torturare e beffarsi del diritto internazionale ed umanitario, sbeffeggiare un percorso millenario di civiltà, non è proprio una bella cosa. E tra la retorica e i sorrisi scambiati di sotto i baffi anche da parte dei nostri eleganti rappresentanti, ci adeguiamo ai venti di guerra che soffiano sul pianeta, così come ci siamo adeguati alle menzogne già usate per portare guerra e distruzione, elemosinando petrolio e benevolenza. Tiepidamente e con deferenza ogni tanto facciamo sapere che, se non è di troppo disturbo, con questi crimini non siamo d’accordo.
mercoledì, settembre 19, 2007
Benedetto Cipriani negli USA senza difesa, questione di soldi
martedì, settembre 18, 2007
Wikilobbying
Questo il testo tradotto del comunicato di Hasbara: «Tutti conoscono Wikipedia, è il posto dove si va per ottenere un 'vero' scoop. Quanto spesso usate Wikipedia per cercare soggetti di cui sapete poco? Ora immaginate quanto spesso gli altri usano Wikipedia per cercare soggetti relativi a Israele. Wikipedia non è una risorsa obiettiva, ma piuttosto un'enciclopedia online che chiunque può modificare. Il risultato è un sito web in larga parte controllato da "intellettuali" che cercano di riscrivere la storia del conflitto arabo israeliano. Questi autori hanno sistematicamente e subdolamente riscritto passaggi chiave in migliaia di voci di Wikipedia per dipingere Israele in una luce negativa. Avete un'opportunità per bloccare questa pericolosa tendenza! Se siete interessati nell'associarvi a un team di Wikipediani ed essere sicuri che Israele sia presentato in modo equo e corretto, per favore contattate il director[at]israelactivism.com per dettagli».
Ciò detto, la open mail di wikipedia annota quindi, in modo molto signorile, che l'invito sopra descritto si sostanzia in uno sforzo concertato e finanziato (dal Ministero degli esteri isreliano) per patrocinare un particolare punto di vista politico sull'enciclopedia on line, mediante un team appositamente assoldato e specificamente addestrato per la modifica delle voci relative a Israele. In altri termini si tratta di un'operazione scorretta, di sapore lobbystico, in palese conflitto di interessi. E' chiaro che qualsiasi compilatore di Wikipedia esporrà sempre e comunque un punto di vista, ma non bisogna farsi ingannare, al riguardo, dall'eleganza delle parole. Quello che è indicato come un punto di vista, per quanto in conflitto di interessi, nel caso risulta istituzionalmente preordinato alla acritica difesa di una visione politica unilaterale (che nasce da un'eredità iniqua di persecuzione, deportazione, dolore e morte e porta da almeno sessant'anni a risultati altrettanto iniqui, disegnando una situazione di incertezza, di ulteriore dolore e morte, di popoli senza futuro).
Ma torniamo all'argomento di partenza, più semplice e limitato, cioè alla specifica aggressione alla sperata imparzialità di Wikipedia. Una nuance che suggerisce qualche riflessione. Il sistema organizzato di intervento sui media, quale'è quello sopra descritto, non è nuovo. Per esempio, una pletora di "apologisti" si è riversata a suo tempo in rete, a macchia d'olio e su asserita istigazione governativa, per sostenere le operazioni in Libano del luglio 2006 a fronte del diffuso sentimento di indignazione evocato dai bombardamenti indiscriminati di Beirut o dall'uso delle cluster bomb in limine alla tregua.
Con l'aplomb di chi sa di poterselo permettere purchè l'attacco alla verità non sia frontale (fatti contro fatti) e, quindi, rischi di essere perdente, l'appello dell'Associazione Hasbara non è neppure un segreto. Non ve n'è infatti bisogno secondo la tradizione che vede il mondo occidentale adeguarsi supinamente ad un comportamento che, per decenni (i motivi, per quanto importanti qui purtroppo non rilevano), ha potuto travalicare l'impudenza con la relativa certezza dell'impunità. Il privilegio, cioè, dettato da un'arma unica ed assoluta: l'accusa di antisemitismo, con il relativo corollario di elementi ed argomenti tabù. Un riparo sicuro dalla pubblica riprovazione e dalla generale possibilità di dibattito in ambiente israeliano, corroborato ed amplificato negli ultimi quarant'anni dalla tutela militare e diplomatica di un potentissimo nume protettore.
Gli è che, nonostante tutto, quel sistema, per quanto collaudato, funziona sempre meno. Gli assoluti non reggono al tempo e all'uomo e legioni di intellettuali, studiosi, analisti, politici, accademici - primi, fra tutti, innumerevoli autori in Israele e in ambiente ebraico, negli USA e nel mondo (per essi è pronta, in realtà, una diversa accusa ad hoc, quella di essere self-hating jews) - contestano apertamente la politica unilaterale dello stato ebraico e l'iniquità degli USA in funzione filoisraeliana. Rigettano le oziose speculazioni sull'insorgenza di un rinnovato sentimento antisemita e smascherano serenamente le scadenti manipolazioni della storia. Quelle utilizzate per descrivere - e talvolta costruire - nel mito il conflitto arabo israeliano ed israelo (ebraico) palestinese.
Nonostante il più generale intervento neoconservatore e il farsi strada di logiche guerrafondaie, in Europa occidentale, nel vicino e medio Oriente, in Israele ed anche, più lentamente, negli USA e nell'ex blocco sovietico, la propaganda funziona, infatti, solo finchè (o perchè) manca il confronto, cioè qualora venga meno il frutto della comunicazione, della rapidità e relativa facilità di diffusione della conoscenza. E tuttavia proprio la propaganda, che appare agevolata dalla possibilità di immediata e planetaria diffusione, offerta anche da internet, riceve contemporaneamente dallo stesso mezzo telematico un colpo mortale. E' infatti attualmente rapidissimo il modo di diffondere menzogne e manipolazioni dei fatti e della storia, ma è altrettanto rapido il sistema per verificare, con lo stesso e con altri mezzi, che di menzogne si tratta. Solo la reiterazione tirannica del pensiero, con la violenza che l'accompagna verso popoli resi indifesi dalla rassegnazione e dalla miseria, potrebbero e possono, nei fatti, vincere la resistenza all'idea unica, ponendo un limite alla ricerca dei fatti ed eventualmente ad una loro più obiettiva riconsiderazione.
Il mondo, nonostante tutto, tende faticosamente al giusto, e - per concludere - la newsletter promozionale che si dice sovvenzionata dal Ministero degli esteri israeliano risulta, infine, più risibile che dannosa. Sicuramente l'artifizio è suscettibile di inoculare idee a scatola chiusa, ma desta nei più (in pratica in tutti coloro che si occupano della materia) la medesima preoccupazione che si prova per la presenza di una legione di troll, burloni, arroganti, monocordi, talvolta maligni, ma il più delle volte solo fastidiosi. Esistono, peraltro, da decenni, esempi assai più subdoli e pericolosi di manipolazione della conoscenza, li troviamo sui testi che, anche in Europa e in Italia, vanno sovente per la maggiore. Il mezzo informatico è più ampio, globale, ma facendo un paragone con i trabocchetti e gli arzigogoli di certa elegante propaganda accademica (anche lì i semplici troll non mancano), di certa carta stampata di larga diffusione o racchiusi nella levità dei programmi usa e getta dei network televisivi, risulta senz'altro più agevole annusare una compilazione faziosa in internet e, fatalmente, in Wikipedia, che altrove. Ma qui, in rete, è possibile recuperare subito i necessari ed eventualmente opposti riscontri con un semplice click. Il fatto che la guerra - si è detto - inizi sui media, comporta che anche sui media sia necessario saperla fare. E questo suggerisce, in modo speculare, che pure la pace probabilmente nasca sui media, ma si può essere certi che passi, lentamente, per la verità.
domenica, settembre 16, 2007
Sabra e Chatila, 25 anni fa
Il primo passo è riuscire a vedere le cose, i fatti, per quello che sono, senza filtri. Questa elementare constatazione non è pacifica. E' come sempre più semplice lasciar correre, scuotere la testa con rassegnazione, pensare che ci siano sicuramente buoni motivi per non fare o per seguire l'onda. Sotto questo profilo la politica degli USA viziata dall'incondizionato appoggio militare e diplomatico ad ogni operazione israeliana da 40 anni a questa parte, ha introdotto un elemento di squilibrio e di ulteriore immoralità nella gestione della politica in Medioriente in generale e della questione israelo palestinese in particolare. Gli stati vassalli (degli USA) e gli aspiranti tali, per interesse o comunque perchè obnubilati dal ricatto, dall'ignoranza e dalla propaganda, sono comunque coinvolti, per via di azione o di omissione, in una china aberrante. Le dichiarazioni tentennanti di chi vede le cose ma preferisce dare un colpo al cerchio e uno alla botte, per paura o per opportunismo, sono tanto criminali quanto le decisioni che vengono così in qualche modo ratificate e fatte proprie. Dall'altra parte, chi resiste storicamente, culturalmente o politicamente, alla violenza e all'arroganza del (militarmente) più forte non può che accumulare odio e volontà di rivalsa pur guardando spesso la propria dirigenza sotto ricatto, costretta alla connivenza e alla collaborazione. La guerra e il terrorismo dei media, le imposizioni, la tacitazione delle voci non allineate, la censura e la disinformazione non fanno che peggiorare il quadro. Nell'abnorme ed innaturale evoluzione di questa situazione, nella incapacità di vedere e nella paura anche il sangue - da chiunque versato - è inutile.
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Per approfondire
http://www.robincmiller.com/pales10.htm
http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/History/kahan.html
http://www.palestinehistory.com/history/timeline/time1980.htm#tl_1982_3
http://www.indictsharon.net
http://www.geocities.com/indictsharon/Kapeliouk.doc
http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?SectionID=22&ItemID=13787
venerdì, settembre 14, 2007
Alla(r)m clock
Premio giornalistico Enzo Baldoni 2007
martedì, settembre 11, 2007
Archeologia del conflitto, la bozza Beilin - Abu Mazen
Ora, la bozza Beilin - Abu Mazen è tristemente nota perchè proprio quello scritto fornì la base - precaria, in partenza inaccettabile e poi addirittura peggiorata - per gli infruttuosi incontri di Camp David patrocinati dal presidente USA Clinton alla fine del 2000 e il tentativo in extremis di Taba tra il 21 e il 27 gennaio 2001. Tentativo fasullo e in ogni caso esplicitamente dichiarato non vincolante nel corso del passaggio di consegne dal premier Ehud Barak (Labor) ad Ariel Sharon. Il primo silurato dalla propria carnascialesca gestione politica, interna ed esterna, il secondo, non ancora eletto ma già reduce - con l'assenso di Barak - dalla provocatoria passeggiata sulla Spianata delle moschee del 28 settembre 2000, che avrebbe criminosamente fornito impulso alla seconda intifada.
Ebbene, l'idea che Ehud Olmert voglia ufficialmente rileggersi (se non leggersi per la prima volta) il documento Beilin - Abu Mazen è già di per sè abbastanza ridicola, falso o vero che sia, ma il lato tragico della questione è un altro. La bozza Beilin - Abu Mazen, infatti, sotto il profilo di una sincera ricerca di pace, non vale la carta su cui è scritta, né le centinaia di migliaia di kbyte con cui lo scritto è da anni diffuso e commentato, in rete, a disposizione di chiunque voglia iniziare ad interessarsi del conflitto in Palestina, senza bisogno di scomodare i protagonisti o presentare al mondo richieste ufficiali.
Così, nell'ottobre del 2000, ne parlava Tanya Reinhart: «Lo scritto [c.d.] Beilin - Abu Mazen è in sè un documento indegno, che mantiene intatti tutti gli insediamenti e riconosce la sovranità israeliana sopra la maggior parte del West Bank. Vi è stabilito che Arafat avrebbe rinunciato, in rappresentanza dei palestinesi, a qualsiasi pretesa su Gerusalemme e le istituzioni palestinesi si sarebbero trasferite nel villaggio di Abu-Dis, ai confini di Gerusalemme. In cambio ad Arafat sarebbe stato concesso di chiarare Abu-dis capitale dello stato palestinese. Il trucco verbale era che Abu-dis sarebbe stata chiamata Al-Quds, così la questione si sarebbe presentata come se Gerusalemme fosse stata divisa tra la parte israeliana, "Gerusalemme" e la parte palestinese "Al-Quds"...». In realtà la questione di Gerusalemme era poi presentata (negli allegati alla bozza, introvabili come le relative mappe) con un vero e proprio gioco di parole, un arzigogolo strumentale al fatto che Arafat doveva poi trasferire l'imbroglio ai palestinesi nella forma più incomprensibile ed indolore possibile. Lo stratagemma consisteva nel chiamare il villaggio di Abu-Dis al-Quds, nome arabo di Gerusalemme che significa "la [città] santa" (si può leggere uno stralcio della relativa clausola, in italiano, in T. Reinhart,"Distruggere la Palestina - La politica israeliana dopo il 1948", pag. 34: "Israele riconoscerà quale capitale dello stato palestinese la [porzione dell'] area denominata al Quds prima della guerra dei Sei giorni, territorio che non fa parte dell'area annessa a Israele nel 1967"). Non a caso in quel periodo Reuters riferiva che da parte israeliana la chiave per risolvere la controversia su Gerusalemme e porre fine al conflitto era il linguaggio diplomatico e citava, in proposito, le espressioni dello stesso Yossi Beilin alla radio dell'esercito israeliano: "Il punto principale è quale nome dare allo status quo perchè tutti sanno che questo non sarà soggetto ad alcun cambiamento effettivo" (ibidem, pag. 39, cita in nota 22, Howard Goller, Reuters, 29 agosto 2000).
L'apposita sezione VII della bozza, dedicata al problema dei rifugiati palestinesi, non ha poi bisogno di spiegazioni e commenti. La questione veniva semplicemente stralciata, assemblata e condita con l'istituzione di una Commissione internazionale (ICPR), senza che da ciò derivasse il riconoscimento di alcun diritto, quand'anche per un solo rifugiato, al ritorno, e senza assunzione di specifica responsabilità da parte di Israele, neppure limitata all'aspetto economico, per le operazioni di spoglio e pulizia etnica del 1948 e del 1967.
Non stupisce in proposito il fatto che si voglia oggi accentuare la posizione collaborazionista (Quisling-style) del presidente dell'Autorità Palestinese e legarlo in qualche modo alle sue parole, vuoi per interesse, vuoi per malafede. Ed appare in questo senso evidente perchè, tra le pretestuose istanze rivolte sotto ricatto al governo legittimo di Hamas, oltre quella di riconoscere la legittimità di uno stato di Israele virtualmente "sconfinato" (nessun governo potrà mai riconoscere la legittimità di un altro stato che sconfini sul proprio territorio), vi sia quella di ratificare tutti i precedenti pezzi di carta fatti ingoiare all'ANP di Arafat ed oltre. E tutto ciò senza neppure vergognarsi del fatto che il decesso del percorso di pace di Oslo e corollari fu proclamato da Sharon, che ne condivide oggi - forse pagando in terra parte del suo debito - la più inutile delle agonie.
Sia quel che sia, questo vergognoso documento, ora pubblicamente all'attenzione del suo successore, Ehud Olmert, è un testo inutile anche se a suo tempo Yasser Arafat - pur per proprio interesse e godendo rispetto ad Abu Mazen di ben altra autorità ed ascendente sulla gente palestinese - aveva consentito, per quanto parzialmente, a percorrerne le tracce e a considerare una parte del suo contenuto il minore dei mali. Ma con un limite, che venne oltrepassato con la dimostrazione della rapacità della delegazione israeliana, quando risultò chiaro che un simulacro della vergognosa bozza Beilin - Abu Mazen, trasfusa nelle profferte orali di Barak e nelle sue surrettizie pretese, avrebbe dovuto anche fornire un'interpretazione concordata della risoluzione ONU 242 e si sarebbe comunque sovrapposta come una pietra tombale (con apposita clausola) ad ogni e qualsivoglia precedente documento ed elemento di diritto internazionale, non ultime, appunto, le risoluzioni ONU che sanciscono il diritto al ritorno e l'illegittimità dell'occupazione.
giovedì, settembre 06, 2007
Finkelstein vs. DePaul, ultimo atto
"Ieri, mercoledì [ndr 5 settembre 2007], doveva essere il giorno del grande regolamento di conti alla DePaul University. Invece è finito per essere il giorno del grande compromesso. La DePaul e Norman Finkelstein, il professore al quale aveva negato una cattedra, hanno annuciato le immediate dimissioni di quest'ultimo". Con queste rassegnate ed ingenerose parole, la testata accademica americana Inside Higher Ed esprime oggi la propria delusione, forse perchè non si è potuto assistere alle manifestazioni di disobbedienza civile ed allo sciopero della fame promessi da Finkelstein, privato, oltre che dell'impiego, dei propri uffici alla DePaul e della possibilità codificata nei regolamenti universitari di un ultimo anno di insegnamento. In un breve comunicato (1), del quale si conosce il testo ma sono rimasti riservati i particolari, la cattolica università DePaul e il prof. Finkelstein - con distinte dichiarazioni (leggibili in un unico documento) - hanno riferito di avere risolto la disputa sul "licenziamento", mantenendo sostanzialmente le reciproche posizioni. Cioè, la prima, sostenendo che non ci sono state influenze esterne nel processo decisionale che ha portato a negare la cattedra e l'impiego all'accademico e il secondo, ribadendo che la DePaul è stata influenzata dalla pressione esercitata da terze parti, esterne al corpo universitario, "che ha raggiunto apici di isteria nazionale che ha contaminato il procedimento di assegnazione dell'impiego".
Nella medesima dichiarazione Finkelstein ha riconosciuto il ruolo della DePaul per avergli offerto un'oasi da studioso nella sua struttura per sei anni e l'Università è stata costretta a dichiarare - cioè ad ammettere / confessare - di avere licenziato "uno studioso prolifico ed un eccezionale insegnante". E ciò, incredibilmente, negando le influenze esterne ritenute viceversa cosa nota da accademici del calibro di Raul Hilberg, Avi Shlaim, Noam Chomsky e da ultimi Tony Judt, Stephen Walt e John Mearsheimer ("Academics sympathetic to Norman Finkelstein, including "The Israel Lobby" authors John Mearsheimer and Stephen Walt, will gather to protest his firing. The Oct. 12 protest at the University of Chicago, Mearsheimer's employer, will include Tony Judt and Noam Chomsky, academics who like Finkelstein claim that pro-Israel voices have tried to silence them").
Poche ore dopo la dichiarazione attestante l'intervenuta definizione della controversia tra l'istituto di Chicago e il professore (quand'anche in termini riservati ed ignoti), più di un centinaio di testate americane hanno riferito la notizia e i particolari dello scontro tra i potentati filosionisti americani ed il coraggioso studioso, chiaramente estromesso dal corpo accademico della DePaul per i suoi atteggiamenti, fortemente critici sulla posizione israeliana e, di recente, per la ridondante campagna diffamatoria orchestrata dall'avvocato Alan Dershowitz nei confronti di Finkelstein. Questi ha infatti smascherato - fra l'altro - la faziosa povertà degli scritti del luminare di Harvard.
Tanta carta stampata ne ha quindi parlato e ne parla oggi. Ma il problema reale è un altro. Sul merito "non accademico" della diatriba, infatti, cioè sui motivi connessi al problema israelo (ebraico) palestinese, la stampa tradizionale non ha dedicato che poche righe, nei mesi scorsi, diverse dalla consueta acritica propaganda filogovernativa - cioè filoisraeliana - americana. Sicchè l'uomo della strada probabilmente non ha capito - né si è interessato - al nocciolo della questione: l'annichilimento di sostanziale e generalizzato dibattito, negli USA e nel mondo occidentale, sulle politiche di illegittimità e di apartheid intraprese dello Stato ebraico di concerto con la deriva governativa, guerrafondaia, neoconservatrice e filosionista degli Stati Uniti. Il tutto sotto le influenze delle relative lobby e quella israeliana innanzitutto.
Non è un problema da poco, quindi, quello che ha portato un luminare acclamato in mezzo mondo per il calibro delle sue opere tradotte in 46 lingue, ad intraprendere una strada tanto in salita. Ma anche negli USA, come in Israele, non è più da solo. E sul cartello alle sue spalle leggiamo: "Jewish Voice for Peace - Chicago Supports Norman Finkelstein".
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(1) Aggiornamento - 7 sett. 2007 - Il prof. Finkelstein ha precisato che non si è trattato di una dichiarazione congiunta, ma di due distinte dichiarazioni [ndr diffuse in un unico documento]
(2) Per approfondire
http://www.insidehighered.com/news/2007/09/06/finkelstein
http://sherman.depaul.edu/media/webapp/mrNews2.asp?NID=1655&ln=true
http://www.jta.org/cgi-bin/iowa/breaking/103917.html
http://pipistro.blogspot.com/2007/01/riciclaggio.html
http://www.jewishvoiceforpeace.org/
http://mrzine.monthlyreview.org/laborbeat060907.html
http://www.normanfinkelstein.com/article.php?pg=11&ar=1215
sabato, settembre 01, 2007
Enzo Baldoni, l'incubo di "quella" foto
Il giorno dopo - il 27 agosto - le immagini (virtuali) di questo video, che pochissimi hanno visto, e che verranno poi descritte dall'emittente Al Jazeera, al più, come il fermo di un'unica immagine fissa del capo e parte della spalla di Enzo Baldoni, stimolano descrizioni che molti ritengono "romanzate" ad arte e diffuse da oscuri personaggi in qualche modo vicini ai servizi segreti italiani, per coprire l'inazione dei servizi con una scomposta reazione di Enzo al momento, forse, di un tentativo di liberazione. Ma di fatto queste descrizioni prendono la via dei principali media italiani. "Immagini confuse: una collutazione, il colpo che lo avrebbe soltanto immobilizzato, infine la lama che infierisce sul collo. Enzo Baldoni ha provato a difendersi dalla morte. Nel video che ha registrato la sua fine si vede una colluttazione. Un gesto di disperazione e di orgoglio simile a quello che segnò gli ultimi istanti di vita di Fabrizio Quattrocchi, l'altra vittima della ferocia dei terroristi che non rispettano nemmeno chi va in Iraq sognando la pace. Enzo come Fabrizio. I passi trascinati verso il momento della fine. Il fiato corto di chi sa che non può più chiedere prestiti al futuro. E infine un colpo d’arma da fuoco e gli occhi che si chiudono su qualche particolare, immagini confuse riprese dai registi dell’orrore". Inizierà infatti con questo racconto un articolo del Corriere della Sera del 27 agosto 2004. Ma quel racconto evidentemente non è vero, o non deve essere vero. E svapora, o comunque non se ne parla più, nello spazio di un giorno.
Il 30 agosto 2004, un portavoce di Al Jazeera che "afferma di aver avuto la possibilità di visionare le immagini relative alla morte del giornalista" si riferirà all'immagine di un (solo) fotogramma, dichiarando al GR1 che "Enzo Baldoni è stato ucciso in pieno giorno, cioè [..] ben prima della scadenza dell'ultimatum". A suo parere, infatti, riferisce lo stesso Gr1, l'immagine è stata ripresa "quasi certamente in pieno sole". Pertanto, come è stato sottolineato dal Corriere della Sera, viene esclusa ogni possibilità che sia stata ripresa all'ora del tramonto, quindi dopo la scadenza dell'ultimatum dei terroristi. Nell'immagine, inoltre, non ci sono ombre. Sempre il Corriere riporta, il 30 agosto, che "Sul sito internet in inglese viene riportato un comunicato della rete televisiva in cui le ricostruzioni della stampa italiana sul video pervenuto ad al Jazeera vengono definite «un'assoluta montatura». Al Jazeera nel comunicato continua a usare la parola «tape», cioè nastro, e non «picture», fotografia. Nel comunicato al Jazira fornisce alcuni dettagli: «il video che consiste in 15 secondi d’immagini, e comprende una ripresa che si focalizza sulla testa di Baldoni, sul collo e su parte delle spalle, che fuoriescono da un fosso nella sabbia». Nel video si sente anche un comunicato del gruppo, che si autodefinisce Esercito islamico in Iraq, in cui si afferma che Baldoni è stato ucciso perché la loro richiesta (il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq) non è stata accolta".
L'8 settembre, su un sito di sedicente propaganda islamica, oggi cancellato, ma il cui solo nome rievoca l'orrore di quei giorni (il cui nome si può rendere approssimativamente con "io odio"), quel video così enfaticamente descritto verrà convogliato nell’unico fotogramma che lo smentisce e che riprende il corpo senza vita semi seppellito (o disseppellito) di Enzo Baldoni. E' un fotogramma di qualità assai scadente, forse manipolato, che sostituirà per tutti la descrizione di una scena spaventosa, nata da chissà cosa, negata perche dichiarata troppo cruenta della tv satellitare Al Jazeera agli utenti e diventata presto una leggenda, il nulla, perchè quello che oggi non è immagine riprodotta del mondo, quello che non è visibile, non esiste. (L'inutile orrore destato da quell'immagine non impedirà ad un sito americano di manipolare ulteriormente il fotogramma per sottrarre la "firma" dell'Islamic Army, sostituendo il marchio dell'organizzazione con altri particolari, inesistenti, dettati dalla necessità di non rovinare l'immagine, con l'aiuto della macabra fantasia di chi è abituato a maneggiare photoshop per presentare al pubblico il volto peggiore dell'uomo).
Un vago riferimento ad una possibile scena cruenta - che dal fotogramma diffuso l'8 settembre, tuttavia, non risulta - viene ancora regalata da Repubblica il 9 settembre 2004: "Francesco Viglino, medico legale di fama, che si è occupato di diversi importanti casi giudiziari, compreso il delitto di Cogne, analizza così la foto del cadavere del reporter, apparsa ieri in internet su un sito islamico. Un'immagine che la famiglia ha chiesto ai media di non diffondere. Una foto che, dice Viglino, potrebbe essere stata manipolata "per nascondere la lesione del collo". L'esperto citato da repubblica, contraddice poi la notizia che Enzo Baldoni sia stato oggetto di colpi di arma da fuoco. Continua infatti Repubblica: "da quanto si può ricostruire, spiega Viglino, la ferita al collo di Baldoni sembra provocata da una lama. Una lesione che giustifica, "la presenza di sangue nella bocca e nel naso, le ecchimosi intorno alle orbite degli occhi e l'abbondante imbrattamento della maglietta indossata da Baldoni". Escluse, invece, lesioni da arma da fuoco al capo "che avrebbero lasciato tracce ben apprezzabili, anche se l' eventuale regione attinta fosse stata la parte posteriore del capo". Sempre l'analisi della foto fa dire al medico legale che lo scatto sarebbe stato realizzato "all'incirca a 35-48 ore dal momento della morte di Baldoni".
Ma, ripeto, il fotogramma diffuso dalla sedicente Islamic Army o dai suoi portavoce non contiene nulla che possa far pensare alle evenienze di una ribellione, di una fuga, di alcunchè diverso dalla morte di Enzo. E allora cos'era la scena diffusa ad arte e ripresa dal Corriere? Una scena inventata di sana pianta? Forse, ma certamente inaspettata dopo che Enzo Baldoni, ripreso tre giorni prima, in un video di pregevole fattura, non manifestava – caso più unico che raro tra i sequestrati - alcuna particolare emozione. Anzi dimostrava disinvoltura e sufficienza nel riferire - e forse leggere - il suo messaggio alla telecamera. Un atteggiamento incredibile, perso nel tempo e attribuito alla sua convinzione o alla consapevolezza che tutto è un gioco. Anche la morte. Un atteggiamento lontano anni luce da quella che sarebbe stata la prima violenta e macabra rappresentazione, poi rinnegata e dimenticata, di una morte assurda. Ma quella scena qualcuno l'ha descritta e qualcuno anche molto autorevolmente l'ha diffusa. Quel primo racconto non si dimentica facilmente, ma scompare dal mondo del vero e resta un incubo. Uno dei tanti.
Giocare a Gaza
«...Ha'aretzdaily.com non è una traduzione completa del giornale ebraico; è unaMa di esempi (anche fotografici) ce ne sarebbero tanti, non ultimo il resoconto dell'indiscriminato bombardamento del Libano (in generale) e di Qana (in particolare) dell'anno scorso e dell'uso "in limine" delle bombe a grappolo. Torniamo invece al racconto riportato appunto ieri da Ha'aretz. Purtroppo non fa quasi notizia, ma si tratta dell'uccisione da parte dell'esercito israeliano di tre bambini che stavano giocando nei pressi di una rampa di lancio di razzi Qassam mercoledì scorso. Per quanto sopra ho detto, lascio al lettore l'analisi dello scritto ed eventualmente delle sue pieghe (non tanto) recondite e mi limito qui a sottolineare il reiterato, quasi patologico, riferimento al termine "terrorista" e ad indicare quanto riportato dal quotidiano (ultima frase del pezzo) sugli ordini cui i militi dell'esercito di occupazione israeliano sono tenuti ad adeguarsi. A proposito di terrorismo, termine tanto caro quanto usato a sproposito trattandosi di una tattica e non di un nemico, è agevole ricordare - e non stupisce - che proprio usando di questa tattica (ora come allora unanimemente condannata) e cioè sulle bombe dei terroristi, proprio i sionisti contarono per allontanare gli inglesi dalla Palestina e che Ytzhak Shamir, terrorista durante il mandato britannico e poi divenuto primo ministro di Israele, ebbe a dichiarare che "né la morale né la tradizione degli ebrei possono impedire che il terrorismo venga usato come mezzo per combattere" (2). Il che riporta alla tradizione di attribuire spesso ad altri solo qualcosa che ben si conosce. Ma arriviamo, finalmente, all'articolo odierno di Amos Harel.
selezione. Spesso omette certi argomenti, certi pezzi che Ha'aretz non trova
"adatti" per gli occhi degli stranieri [...] Un altro modo di raggiungere lo
stesso malizioso risultato sono le traduzioni "nazionalisticamente corrette".
Per esempio, quando su Ha'aretz ebraico si legge (2 luglio 2002): "Recenti
documenti sull'intenzione dell'Egitto di sviluppare armi nucleari SONO STATE
APPARENTEMENTE IL RISULTATO DELLA GUERRA PSICOLOGICA ISRAELIANA E non hanno riscontro con informazioni dell'intelligence a Gerusalemme, secondo un alto ufficiale israeliano", la traduzione inglese semplicemente ometteva le parole scritte in caratteri maiuscoli. O, citando un ufficiale israeliano sull'uso dei palestinesi come "scudi umani", la versione inglese riportava (16 agosto 2002): "Prima della ricerca [in una casa palestinese] andiamo da un vicino, lo portiamo fuori di casa e gli diciamo di chiamare le persone che vogliamo escano dalla porta accanto. [...] Il vicino non ha possibilità di rifiutarsi. Grida, bussa alla porta e dice che l'esercito è lì. se non risponde nessuno, torna indietro e noi andiamo avanti col lavoro". Sembra piuttosto inoffensivo? Solo perchè
l'ultima frase è la traduzione "nazionalisticamente corretta" della seguente
frase in ebraico: "Se non risponde nessuno, dobbiamo dire al vicino che sarà
ucciso se nessuno viene fuori". (1)
____________________________________________"I tre bambini palestinesi uccisi a Gaza martedì [ndr mercoledì 29 agosto] stavano solo giocando ad acchiapparella vicino alle rampe per il lancio di razzi presi di mira dai soldati israeliani e non erano connessi ai terroristi, un'inchiesta dell'esercito ha stabilito ieri. Mahmoud Ghazal, 10 anni e suo cugino, dodicenne, Yehiya Ghazal, sono morti subito. La loro cugina di dieci anni, Sara Ghazal, è stata ferita gravemente ed è morta più tardi. L'esercito israeliano ha dichiarato che i bambini sono stati uccisi quando un'unità di terra ha sparato sulle rampe di razzi Qassam nell'area. Le rampe, che erano puntate su Israele, erano poste nei campi proprio fuori da Beiht Hanun, vicino alla casa familiare dei Ghazal. Secondo l'esercito, i soldati hanno individuato 'movimenti inidentificati ed hanno aperto il fuoco'. Nelle dichiarazioni iniziali dell'IDF dopo l'incidente di martedì [ndr mercoledì] l'esercito ha detto che 'desidera esprimere rammarico' per l'uso di bambini in attacchi terroristici' con ciò implicando che i bambini erano stati mandati dai terroristi per raccogliere le rampe. L'esercito ha frequentemente accusato le organizzazioni terroristiche di usare adolescenti e bambini per questo compito. Ma l'inchiesta che è stata avviata subito dopo l'incidente, ha stabilito che i bambini stavano giocando a 'prendersi' vicino alle rampe, come rivelato dalle riprese che hanno registrato l'incidente. Risulta che il video mostri i bambini - che sembrano figure di età non determinabile - che si avvicinano alle rampe e quindi si muovono indietro, in un modo che poteva essere visto come quello di qualcuno che stesse caricando le rampe dei missili. Il terreno non permetteva l'osservazione diretta dell'area, così le truppe dovevano affidarsi alle fotografie aeree. Le fonti dell'esercito hanno riferito che l'unità che ha lanciato il missile ai bambini ha usato questo riferimento visuale per direzionare il suo colpo. Il video mostra che una delle figure era un bambino, hanno riferito fonti dell'esercito,
ma questo è apparso tanto in prossimità del momento dell'impatto che i soldati
non sono stati in grado di interrompere il lancio in tempo. I soldati dell'IDF vicino alla Striscia di Gaza hanno l'ordine di sparare alle rampe di missili solo quando i terroristi vi si avvicinano. Le rampe in se stesse sono facilmente rimpiazzabili e sono di poco valore per le organizzazioni terroristiche, così l'esercito preferisce mirare ai terroristi che dirigono il lancio". (Ha'aretz, 31 agosto 2007)
(1) citato in
http://www.antiwar.com/hacohen/h093002.html
http://www.acj.org/Daily%20News/Sep_02/Index.htm#3 (poi soppresso)http://electronicintifada.net/v2/article754.shtml
(2) «Finally, we should not forget that the Zionists used terrorism when they were in a similarly weak position and trying to obtain their on state. Between 1944 and 1947, several Zionist organizations used terrorist bombings to drive the British from Palestine, and took the lives of many innocent civilians along the way.56 Israeli terrorists also murdered U.N. mediator Count Folke Bernadotte in 1948, because they opposed his proposal to internationalize Jerusalem.57 Nor were the perpetrators of these acts isolated extremists: the leaders of the murder plot were eventually granted amnesty by the Israeli government and one of them was elected to the Knsset. Another terrorist leader, who approved the murder but was not tried, was future Prime Minister Yitzhak Shamir. Indeed, Shamir openly argued that “neither Jewish ethics nor Jewish tradition can disqualify terrorism as a means of combat”. (S. Walt e J. Mearsheimer, The Israel Lobby, pag. 13 della versione originale e a pag. 5 dell'edizione editata a cura della London Review of Books, disponibile qui http://www.lrb.co.uk/v28/n06/mear01_.html)